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ROSARIA LO RUSSO, Tande, Montecassiano, Vydia Editore, 2023, pp. 100, € 14,00.

 

La poesia è un «vomito», l’accesso febbrile del bambino a cui nessun adulto «sorregge la fronte». Il nuovo libro di Rosaria Lo Russo prende avvio dall’esibizione di un trauma, la ferita originaria con cui inizia l’avventura del soggetto: «Io odio mia madre / Mia madre odia me / Un’ecatombe colombiana / La poesia è il vomito / per cui non mi sorregge la fronte / perciò odio la mia poesia» (p. 11). Con questo gesto inizia l’infanzia del puer, l’essere che abita ogni esperienza creativa e che ritorna, puntuale, in questo libro della poeta fiorentina. Anche in questo caso l’archetipo prende una parvenza di «bambina» e «figlia», pezzo di «costola» che si impasta nei versi a una materia organica, un coacervo di secrezioni, stati corporei e passione che infuria: «Mamma_memento_mori, quante volte me ne sono andata, / lo sguardo fiero e terso, al tre per due dei tuoi panettoni, pagando / poi, a conti fatti, più del dovuto, da costola figlia, a un’idea provvista / di cuccagna? […] / Vuoi che / Fare pipì? / Fare popò? / Lavarmi la chicca e il sedere, questo che vuoi, vuoi / che mi lavi? / Tu vuoi / Tu non vuoi me» (p. 13).

È un’atmosfera affine a quella già consolidata nei libri precedenti dell’autrice: una «comedìa» plurilingue, in cui il discorso rifiuta ogni purezza lirica in favore del contrasto e dell’eccesso. Il contrasto interessa gli strati della lingua, innanzitutto. Il libro ci sparpaglia sotto gli occhi un materiale lessicale eterogeneo e dissonante, che dall’idioletto privato (le «tande», il feticcio materno prediletto dalla figlia) e dal registro familiare (la «chicca»e il «sedere») passa a voci plebee («se la inculò») e regionali («sistolavano») fino ai tecnicismi (la «solanina», le «lacrime atropine», le «diottrie residue») e a voci più solenni o letterarie, a volte ironicamente auliche o arcaizzanti (gli «oculi mèi / di bragia», i «rigurgiti dal miro gurge»), sempre intonate su una dizione extraquotidiana. Il linguaggio poetico di Rosaria Lo Russo conferma, in questo senso, il suo legame con la vocalità come apparato e mezzo dell’operazione artistica. A muovere il discorso c’è innanzitutto l’«oralità» psicoanalitica delle pulsioni, per cui la voce tende a incorporare qualsiasi materia per nutrirsene, a partire dalla camicia di seta che la bambina vuole ossessivamente «strusciare sulla bocca» (p. 14). Se ci spostiamo dal piano pre-logico o inconscio a quello dell’immaginario e dello stile, ritroviamo poi nel libro la propensione a un dire che risuoni sempre corporeo, teatrale in senso lato, a partire dai riferimenti alla fonazione come dimensione costitutiva del soggetto (l’«ugola mencia» che «sciorina i soliti salamelecchi», p. 15; il «miro gurge» che «rugge in gola», p. 30).

Anche i residui letterari o manieristici, ovvero tutto ciò che rinvia all’esperienza poetica come artificio culturale, vengono rielaborati con una naturalezza istintuale e persino “fisiologica”, nella totale fiducia dell’autrice a lasciarsi guidare dall’inconscio e da forze divergenti che sconfinano nell’area feconda del gioco («Quand’ero piccolina / in cambio di un inchino / mi davi mezza lira», p. 91), della trance («le smanie, le rabbie, le Furie», p. 17) e dell’invasamento, sia pure in chiave ironica («la bambina / dell’esorcista», p. 54), così da tradurre il flusso del linguaggio in gesto artistico e performance. Quest’ultima va intesa innanzitutto in senso linguistico «performativo», come accade in quegli enunciati che coincidono con un’azione e trasformano il contesto pragmatico, per esempio un «anatema» (azione già frequentata da Lo Russo nell’omonimo libro Effigie, 2021): anche in Tande la forza della voce aspira a superare il campo dei segni per aggredire il mondo esterno, agendo sulle cose per via magica: «La mia bocca passero / aveva il potere di / Di uccidermi / E di uccidervi» (p. 58). Con questa attitudine, come accade nei giochi mimetici, la bambina indossa un costume improvvisato e trasforma il gioco in teatro, portando la performance al suo significato artistico (sancito dalle avanguardie e dai modernismi novecenteschi).

Quello di Tande è innanzitutto un teatro dell’inconscio, che mette in rapporto i materiali più diversi per via pulsionale e «senso-motoria» prima ancora che emotiva o intellettuale: «Dietro le membrane / dei timpani si sollevano gridi, soffochi, gorgogli – se scosta la tenda / le comparse assoldate assordano – ma a scomparsa la tenda grigia / dichiara il mondo asettico. Si spaccano setti nasali e si rifanno / dodici profili ritratti da Antonio del Pollaiolo al Poldi Pezzoli. Una stretta / alle corde vocali e la bambina è accordata, schiamazza altrove» (p. 24).

Può bastare l’immagine della «tenda» come sipario per attivare il gioco di nascondimento e sparizione in cui la bambina (chiunque lei sia) è ridotta a cosa, in un delirio di reificazione. Su questo livello il libro allude a estetiche che mettono in questione fino alle radici l’idea stessa di rappresentazione e soggettività, finendo per attribuire all’arte il compito di togliere di mezzo sé stessa, in una catarsi estrema che può spingersi fino alla crudeltà professata da Artaud (che immaginava l’artista come «un condannato al rogo»). Ma se la fiamma bruciasse totalmente la materia del linguaggio, non ci sarebbe più nulla da dire, scomparirebbe l’opera e con essa il gioco salvifico che la bambina-poeta ha deciso di mettere in scena dal non-tempo dell’archetipo. Di fronte a un’infrazione così radicale, la punizione dei grandi (la «Mammapalazzo» di «puro cemento armato», il padre demiurgo, come un «sole neonato che risplende solo per lei») sarebbe senza scampo. Così questa pratica crudele (e autodistruttiva, a ben vedere) è costantemente bilanciata da una componente di teatralità letteraria e “istituzionale” con cui Lo Russo gioca a commentare l’atto stesso della rappresentazione, come rivelano le indicazioni paratestuali disseminate nel libro, per esempio le didascalie che definiscono il discorso del soggetto come posa e messa in scena, ovvero “recitazione”, piuttosto che espressione lirica: «(Silenzio). (Esce). Senza latrare, senza guaire, forse uggiolando: / urobòro, fiotto di urina. Ultimo sorso. Ultimo scorcio» (p. 35). In questo senso la bambina-poeta continua a negare la lirica per riprendere una tradizione multiforme (da Dante alla poesia novecentesca) che costruisce il messaggio come discorso plurale e plurilingue, antilirico, immettendo al suo interno una «polifonia» a più voci («“sei morta” avviluppa avvilito il vocio cavo, l’ugola mencia / mestamente sciorina i soliti salamelecchi, “anzi continui a morire”», p. 15) o un’attitudine del soggetto a pensarsi come “personaggio” («me la canto e me la / sòno con voluttà distratta, come Céline a Meudon, come Cavalcanti a Sarzana», p. 16).

Siamo in ogni caso più in area modernista (con tutte le sue possibilità ironiche e persino parodiche) che in zona avanguardia “pura”, da cui Lo Russo si discosta per una sorta di nostalgia dell’arte come «grande stile» e, soprattutto, per la tendenza a costruire il testo come riflesso sia pure deformato di una tradizione (che per l’appunto non è mai negata o azzerata). Ne sono indizi, sul piano dello stile, la tendenza a una dizione alta («una folata lieve, breve il suono si sfoglia dalle cime / dei cipressi, si arresta, recede», p. 12) e il recupero di materiali o stilemi post-simbolisti, magari declinati in chiave crepuscolare-ironica («L’Amore Enorme, un incantesimo di stelline / all’uovo e fame chimica ci bloccò in un fermoimmagine», p. 32). Insieme al teatro, l’altro dispositivo che percorre tutto il libro è il racconto, affine al teatro nel suo indicare al soggetto la possibilità di andare oltre sé stesso mettendosi costantemente in relazione con l’altro da sé. In questo senso il libro è percorso da una fortissima spinta affabulatoria (e quindi ancora “orale”), sia al livello del microtesto, poiché i singoli pezzi si propongono frequentemente come narrazioni («La prima volta che ho fatto l’amore / era in un covo di Prima Linea abbandonato», p. 32; «Una notte ho ingoiato tutto il mio sangue dal naso», p. 49), sia al livello del macrotesto, poiché il montaggio dei testi (a partire dal bruciante inizio autobiografico, in cui la voce poetica si mette in dialogo con la madre come “assenza”) allude a un disegno narrativo, disegna cioè un senso complessivo in cui i traumi del soggetto sono ricomposti nel suo mettersi in rapporto con la vita come molteplicità e racconto. In questo senso il testo centrale dedicato a «Marisa la ciclotìmia», la «pazza di Scandicci» (p. 38) , ha una posizione decisiva, segnando il momento in cui il libro esce dalla pagina per gettarsi nel mondo in modo irreversibile: da lì non si torna indietro, la bambina è entrata nella vita di tutti e incorpora la vita di tutti nella sua. Narrata in una prosa gonfia di toscanismi, la vicenda della protagonista diventa un exemplum di disagio personale e collettivo, un referto in cui l’esibita crudezza narrativa mette in moto la pietas per il dolore del mondo («Dopo tre giorni, con la terapia, la dimettevano al mondo, in ambulanza, a casa sua alla Pace Mondiale. Quante sigarette, Marisa. Almeno tu se’ morta d’un colpo Marisona», p. 41). 

Anche sul piano della narrazione pura, dunque, il libro suggerisce dietro il contrasto degli opposti (“alto” e “basso”, tragico e comico) una sintesi che può solo collocarsi fuori della letteratura come linguaggio e comunicazione, in un’area in cui il discorso come conflitto si alleggerisce e si semplifica, fino ad alludere al silenzio. È quello che si osserva nell’ultima parte del libro, in cui il blank verse dominante nella prima parte (secondo la tendenza “orale” della bambina onnivora, la cui bocca ferita lascia fuoriuscire un fiume di parole) si asciuga in versicoli brevi e segmentati, in cui Lo Russo sembra guardare ancora oltre la poesia come discorso per cercare l’andatura ritmico-fonica della salmodia, dunque la preghiera. In questo movimento sopravvive inizialmente una traccia del dialogo-invettiva con l’altro come entità personale, familiare, sociale, secondo una propensione “estroversa” che richiede ancora la simbolizzazione del dolore come ferita corporea («Il vostro miele / sanguina sulle mie ferite […] / Questo miele impregnato / di luce bionda come me / Tenetevelo il vostro miele», pp. 64-65). Ma alla fine il discorso perde ogni rapporto con una soggettività personale e allude a uno spazio prenatale in cui la salvezza sia concessa a «tutti» («Albergare / a mani giunte / dove si nasce al mondo / e transitare / a mani vuote […] / È l’intrapresa / del suo infinire / Chi si salverà / se non tutti?», pp. 83-84). La bambina scalcia ancora in qualche accenno di gioco verbale (appunto «l’intrapresa» che «infinisce»), in qualche posa regressiva e ironica («Mamma / mormora la bambina», p. 91, con il ricorso a un repertorio canzonettistico che percorre il libro a più riprese in chiave di pastiche), ma la direzione è chiara. L’unico esito salutare per questo corpo a corpo con la vita plurilingue del mondo è l’apertura conclusiva all’altro come «vuoto», in una tentazione spirituale e “mistica” che si può solo suggerire senza dichiararla, per non finire in mezzo a quei noiosi degli adulti.

(Matteo Auciello)


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