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CRISTINA ANNINO, Anatomie in fuga, Roma, Donzelli, Roma 2016, pp. XII, 116, € 16,00.

Nel libro dei debiti della poesia italiana del secondo Novecento certamente fino a qualche tempo fa figurava il nome di Cristina Annino; o, meglio, forse compariva soltanto un avviso per la mancata ufficializzazione di un talento già riconosciuto e condiviso. E ora forse è giunto il momento di un sostanziale riparo, a otto anni di distanza da Magnificat, prima antologia non troppo nota dell’autrice curata da Luca Benassi per l’editore Puntoacapo. Sarà stato forse per la qualità di scrittura «sempre / in bilico tra educazione e catastrofe » – togliendo un sintagma da Záfiro –, oppure per la mancanza di coordinate disponibili nella lettura di una voce che si contraddistingue per indomite e concretissime sferzate. Lo stesso Maurizio Cucchi, nell’introduzione che accompagna questa nuova scelta compiuta con Anatomie in fuga – vecchi testi con inediti e movimenti sussultori –, indica come modello, pur «nella piena modernità di questo libro», l’«esemplarità assoluta di Ezra Pound», aggiungendo il nome di Antonio Porta. Forse, possiamo aggiungere con qualche sicurezza, l’Antonio Porta di Invasioni, quello che volta le spalle alla stagione più intransigente e avanguardista per abbracciare forme diverse e più distese di comunicatività. Anche Cristina Annino ai suoi inizi ha avuto contatti con l’avanguardia, attraverso le edizioni Tèchne che pubblicarono nel 1969 il suo primo libretto, Non me lo dire, non posso crederci: l’avanguardia «calda» di Miccini e Pignotti, del Gruppo 70, meno scientifica e chirurgica della coeva, canonica esperienza dei Novissimi. Ma ad altri nomi dobbiamo rivolgerci se ancora oggi leggiamo Cristina Annino – lei che appunto con voce esclamativa dichiara: «ché si scrive / sulle Papaie, non ermetici né anarchia!», né tradizione né avanguardia. Da Walter Siti, che la include nel terzo volume dei Nuovi poeti italiani di Einaudi (1983), a Michelangelo Coviello che, attraverso Porta, di lei pubblica nelle edizioni di Corpo 10 un libro fondamentale, subito apprezzato da Giovanni Giudici: Madrid. Tuttavia, il modo più sincero per saggiare la temperatura di questa che si configura come una vera e autonoma raccolta, è la lettura. Una lettura che renda chiara la centripeta mania di Annino di gettarsi fuori dalla pagina attraverso il camouflage. C’è un trucco nelle parole di questo poeta (usiamo volutamente il maschile, perché maschile – o neutra – è la voce di chi parla nei testi) che esibisce sotto la superficie lucida gli inestetismi selvaggi di una soggettività autentica, quasi grottesca nella sua leggerezza. Ed è questo il miracolo. Basta leggere la centralissima Caos per capire ciò cui Cucchi allude quando parla di «disagio » e «attriti dell’esserci»: «Premettendo / che è sempre doloroso impalare / l’anima in un discorso / scrivere / un diario, lettere, versare / iride nella tinozza di un colloquio. / A quest’età e con i tempi che corrono, / io siedo sul bordo dell’orecchio / universale; dico / ‘biondo, marziale cieco cielo’ / dove il tempo è rotondo: la verità / è orrendo cannocchiale». / Poi mi rivolto, ascolto chi parla, / annuso odore di vero nel parziale / gesto di chi mi appaia. Credo / a tutto; a quest’età si è un cimitero / abbastanza paziente». Qui troviamo tutti gli elementi che servono a fare il punto sulla sperimentazione involontaria eppure cosciente di Cristina Annino, provocata essenzialmente da una regressione animalesca nelle cose, nella piena immersione sensoriale che si esplica già nel titolo della prima sezione: Area del disgusto – quella, come si legge nella nota che accompagna l’omonima poesia dedicata a Pound, dove «cresce l’erba evitata da un cavallo perché circonda i suoi escrementi». Niente di rabelaisiano, qui siamo in preda a un istinto che sa riconoscere (o misconoscere) la forma, e lo dimostra attraverso l’uso inavvertito e sfrontato della retorica tradizionale, attraverso lo stridore inusuale di certi passaggi e accostamenti (basta aprire l’esemplare Ottetto per madre e ci si trova dentro a un campo di forze imprevedibile e indecifrabile se non a mezzo di un abbandono vigile: «Senza pace, con pena e senza girarmi / mai, pestando / mica pepe o caffè ma gardenie, io amo / la mamma e i topi; li metto insieme chissà / perché»). E anche certa ricorsività in Annino non serve a insistere, ma la sua scrittura torna spesso su anafore o riprese insistendo col carattere ripetitivo dell’esperienza. Esperienza ancora animale, appunto. Dalla quale non si riesce a cavare niente, nessun dato certo o prescrizione. In fondo, dice Annino con una certa disinvoltura, tutto accade come nella più ovvia delle considerazioni: «Si fa così / ogni parola più del silenzio perché ancora torna / in su dal basso e taglia / come la luce senza nulla né bocca, l’acqua». C’è molto disinteresse, c’è forse anche una paventata vacuità in questi versi: la poesia di Annino sembra tuttavia approfittarsi di questa condizione per arrivare dritta alla sua meta. A una ragionevole emotività che non è di tono ma di sensazione: allora persino tutto il gravame su cui sembra tornare più volte – gli affanni dell’individuo, il tramonto stesso della condizione umana, la labilità degli incontri con persone che non hanno niente di riconoscibile – scivola in una sorta di incanto terribile che ora è figuratività chagalliana, ora muto discorso alla Schiele. La funzione del poeta è quella di tenere la muscolatura in esercizio («scrivere », variamente declinato, è un verbo frequente), grazie al potere di imprevedibili sciabolate o esercizi di evidente oscurità: una oscurità affabile e atterrita, che non conosce mediazione se non col temperamento forte di un soggetto visionario. Perché Annino, lo ha ricordato anche Siti di recente, «è di una razza […] che soffre personalmente la disumanizzazione e non si esime dal sentimento quando riemerge depurato dagli stereotipi». Si legga allora per intero e nel suo vago sentore leopardiano la prosa leopardiano-proustiana intitolata Il tritacarne, oppure ci si lasci precipitare nel gorgo indistinto di un Profumo: «L’accaduto / accade; ma resta un fondo / nella bottiglia. Mi balenò insomma che / dovessi vedere quel corpo perché / il profumo toglieva nullismo. Di qua / di là nella stanza, bevvi il resto / del turco, l’idea di condividere me ne fregai, / la testa però respirava. Mica poco, che / si viva un’idea! Giacché ogni persona / di questa vita, ogni Cosa / che incontro mi toglie identità, / mi precipita, voglio dire, mi dà crampi / di invidia e non trovo servile essere meno».

(Marco Corsi)

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