« indietro MARCO GIOVENALE, Il paziente crede di essere, Gorilla Sapiens, 2016, pp. 140, € 14,00. Nel presentare la sua recente raccolta di prose Il paziente crede di essere Marco Giovenale accenna alla sua modalità «lunare e vagamente nera, di taglio Cortazariano». La descrizione contiene già gli elementi essenziali dell’opera: da una parte il carattere surreale di molte delle figure e delle situazioni presenti nelle sue pagine, dall’altro un tipo di comicità che trova nella tradizione più alta dell’humour noir (da Swift in poi) il proprio modello prioritario. Come tale tradizione ha insegnato, i testi di Giovenale giocano innanzitutto con le coordinate logiche, e accessorialmente morali, che presiedono alla percezione ordinaria delle cose. Le forzano o le mettono in parodia, facendole girare a vuoto, o inserendo delle sfasature nella loro consecutività. A ciò si accompagna un corredo immaginario che spesso pare iscriversi entro la linea genealogica della parola ‘crudele’ novecentesca, ma il cui carattere spietato, a volte mortuario, è comunque quasi sempre filtrato e riscattato dall’ intenzione comica che lo sottende. Il modo migliore di rendere un’idea delle prose contenute nella raccolta è probabilmente quello di descrivere alcune – le più significative – delle loro modalità di costruzione. Innanzitutto ci sono i testi che prendono quasi l’aspetto dei congegni à contrainte, in cui l’autore costruisce l’immagine a partire da una sorta di protocollo, di regola di funzionamento che presiede allo sviluppo della scrittura. Un esempio sono le prose in cui si parte da un’effrazione della logica consuetudinaria, o comunque da una situazione immaginaria, surreale, per poi descriverne le conseguenze, o specificarne il contesto nel rispetto di una logica del tutto consequenziale. In Fragilità del felice la situazione iniziale «Compro orologi guasti per sincronizzare gli orologi guasti che tengo in casa, tutti fermi, alcuni senza più ingranaggi» diventa la premessa di una micronarrazione paradossale: «Una volta seduto alla scrivania svoltolando pacchi poi le scatoline in sequenza, scopro con malanimo che uno degli acquistati funziona. Mi è inutile ». La versione gotica di questo genere di ingranaggio, per fornire un altro esempio, la si trova ne Il primo, in cui un indefinito personaggio compie le normali azioni immediatamente successive al risveglio fra mucchi di ossa e di cadaveri, sangue e carogne. Altrove, la regola di composizione viene già annunciata nel titolo: è il caso di Progressio (1) e Progressio (2), dove il criterio guida consiste evidentemente nel restituire il graduale precipitare di una situazione, sia che la linearità della progressione sia comicamente ostacolata e parzialmente svuotata da continui corti circuiti della razionalità causale («In ambulanza la situazione precipita: ha una crisi gravissima e giocoforza si fermano al bar per una pausa» Progressio (2)), sia che essa finisca per configurare una sorta di allegoria profetica e apocalittica, dove la miseria e la disperazione iniziali si ribaltano in aggressività e violenza («Prima della capitolazione per fame, e che la terra si copra di facce, alcuni dei quasi morti ammazzano alcuni altri – appena un po’ più morti di loro», Progressio (1)). Il nesso fra l’effrazione logica spirituelle ed un immaginario che può pescare ugualmente nelle zone dell’oscuro e in quelle dove lo spunto sadico-lugubre è contenuto dallo scarto comico, lo si ritrova anche in prose più brevi, quasi aforistiche. Un esempio del primo caso può essere Filmetto ma solo 1 scena: «Parcheggia molto vicino al bordo, troppo vicino al bordo, al punto che aprendo lo sportello si sbilancerebbe tutto verso il baratro. Quindi esce dall’altro sportello, ma allora è il baratro che gli si sbilancia tutto addosso». Una differente modalità è poi quella – meno frequente – che si potrebbe definire dell’onirico mostruoso, imperniato non più sulla dinamica della vertigine logica, ma sul carattere angoscioso e perturbante dell’immagine. Ne è un esempio il testo di Rouge: «Ha sei anni diciamo cinque, aspetta sulla soglia del parco, ha una testa di cane mozzata in mano. Si scusa con me per i suoi vestiti sporchi [...]». Se qui, però, l’immagine è confinata allo spazio separato e irreale dell’incubo proprio dalla sua natura horror, un’ombra ben più inquietante e dolorosa è quella che gettano sul lettore altre tipologie di testo, forse le più efficaci. Sono testi in cui ci si allontana dalla sfera del paradosso, per accostarsi ad una doppia dimensione, dove coabitano l’inspiegabile (o meglio l’inspiegato) e la necessità, il «non può che essere così». Piuttosto rappresentativa, in questo senso, è la prosa Difesa. L’immagine che vi si accampa è quella di un muro di corpi, intrecciati a formare un perimetro difensivo: «Difficile si possano contare. Poi sono migliaia, centinaia di migliaia. Una fascia sterminata: sono tantissimi. Braccia e gomiti legati a difendere. Sono tutti allacciati insieme. // Corpi vincolati come facendo una cortina continua di carne. Sono questo [...]». Oltre alla possibile lettura metaforica, che certo il riferimento al muro incoraggia in un’epoca di flussi migratori e politiche d’esclusione, ad essere interessante è la fusione fra un’immagine dal referente e dal contesto indeterminato (chi sono i ‘loro” di cui si parla? A che mondo appartengono? Non è un caso che qui, come in molte altre prose, Giovenale, faccia ricorso alla ‘terza persona impersonale’) e, dall’altro lato, la normalità impietosa di un meccanismo che sembra coincidere con l’inevitable ordine delle cose: «Si sporgono, a volta a volta sono schiodati via, singolarmente, uno o l’altro, chi perché indebolito, chi perché bruciato dal colorante di un succo di frutta che poi grazie a lui viene bandito, chi per fame (...) Altre volte le stesse autorità fanno pulizia, perché molti defunti o colpiti e comatosi restano abbarbicati [...] Passano i tagliatori, allora, danno un colpo secco con la pala..». Se anche in questo caso il controcanto umoristico non è assente, altrove sembra scomparire sotto il peso dell’alleanza fra l’oscurità di ciò che resta indefinito ed il procedere verso un destino inaggirabile: in Radici, poi scale la vaghezza si concentra non tanto sul personaggio (questi racconta alla prima persona, stavolta), quanto sulle figure che lo circondano, prive di referenti certi e rese di scorcio (la «guardia in divisa grigia»). Vi si rappresenta il breve percorso del protagonista, che cambia strada per evitare le conseguenze di un atto accidentale (un vetro rotto): il detournement, altrimenti ordinario, attraverso la topologia di spazi che si supporrebbe riconoscibili (le strade di un quartiere), lentamente diventa un tragitto angoscioso, uno spostamento di fuga segnato da un senso costante di minaccia, in cui più il personaggio si muove in assenza di coordinate certe («Penso non sia una buona idea muovermi così, girare-aggirarmi, si direbbe, casualmente, ma non so cos’altro fare»), più sembra procedere verso il proprio destino, verso ciò cui era chiamato, e che alla fine fatalmente lo raggiunge. L’aspetto più interessante della raccolta sta proprio in questo nesso fra contrari, tra la vertigine dell’assenza di riferimenti ed il panico, quasi insostenibile, generato dalla consapevolezza dell’inevitabile, dall’assenza di scappatoie possibili. Un nesso già presente nelle più importanti delle sue raccolte poetiche (si pensi a Shelter), e che qui non è più affidato alla disgregazione formale (sintattico-semantica) della lingua, ma ai contenuti e alle situazioni evocate. (Giovanni Solinas) ¬ top of page |
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