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RICCARDO DONATI, Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione, Firenze, Le Lettere, 2014.



Non è frequente leggere un libro che sappia combinare insieme prospettiva teorica, ricostruzione storiografica e raffinatezza d’interpretazione. È per questa ragione che il lettore attraversa con grande piacere il lavoro che Riccardo Donati ha dedicato ai rapporti tra poesia italiana e arti nel secondo Novecento (con propaggini fino agli ultimissimi anni del presente). I tre aspetti della teoria, del racconto storico-letterario e dell’approccio interpretativo sono qui intrecciati non solo con abilità (che è tuttavia da ammirare), ma soprattutto con profitto reciproco, così che il quadro concettuale trae beneficio dal commento ai testi, e la ricostruzione risulta più convincente in virtù dell’impostazione conoscitiva di fondo.
L’impianto del libro sta nella individuazione di quattro diverse modalità di sguardo, cioè di approccio estetico al fatto d’arte (innanzitutto nel senso di ‘percettivo’ e gnoseologico) realizzato dai poeti italiani a partire dalla fine degli anni Quaranta del secolo XX. Si tratta, rispettivamente, di sguardo-evento, sguardo-avvento, sguardo-esperimento e sguardo-accecamento. A dispetto del fastidio che qualcuno potrebbe provare per l’omoteleuto, proprio questa soluzione ‘risonante’ (e sia pure ‘grammaticale”) aiuta a memorizzare le tipologie e a tenerle concettualmente distinte. Sarà per questo utile, in sede di recensione, ripercorrerle tutte singolarmente.
Il primo tipo di sguardo è quello che «si concentra sul processo generativo dell’invenzione», sicché il poeta appare interessato non a interpretare il quadro, ma a «collocarsi all’interno del processo stesso della creazione» (p. 19). Un simile atteggiamento è stato fatto proprio soprattutto dai poeti nati nel primo decennio del secolo, i quali sono arrivati alla piena maturità espressiva negli anni Cinquanta, in un clima artistico (italiano e non solo) particolarmente intenso, soprattutto grazie al dialogo tra arti e scienze e alla diffusione di una riflessione estetica più agguerrita. In un tale contesto storico, poeti (e poeti-artisti) quali Scialoja, Bigongiari ed Emilio Villa, ciascuno ovviamente a suo modo, ma secondo una comune logica riconoscibile, si sono rivolti al fatto d’arte, e soprattutto alla pittura, cercando di coglierne la matrice percettiva, l’articolazione fisica cui esso sottopone chi guarda. Abbiamo così Villa, per il quale l’opera d’arte non appare mai «come oggetto», «ma sempre azione non-finalistica dello spirito nella materia» (p. 29), il cui obiettivo finale è di «accrescere la realtà» (p. 30). In una prospettiva più consapevolmente fenomenologica (soprattutto per la lezione di Merleau-Ponty), il rapporto di Scialoja poeta con l’arte è sintetizzabile nella frase «la casa è la fabbricazione della casa» (cit. a p. 51), con insistenza sull’aspetto processuale dell’arte; a partire però da una nuova concezione del concetto di superficie intesa come «ipotesi di uno spazio [...] come percezione di un presente di coscienza» (cit. p . 54): trasferendo questo tipo di esperienza estetica in un trattamento ludico del linguaggio, Scialoja giunge a una «concezione fisica, corporea, della creazione» (p. 56). Analogo il rapporto di Bigongiari col fatto estetico, che consiste in «un particolare movimento della proiezione libidica del fruitore» (p. 69): e in questo senso è significativo l’interesse del critico-poeta per il Seicento, inteso come epoca dell’«improvvisa, smisurata elargizione del mondo esterno» (p. 70: anche qui movimento del fruitore – attraverso il telescopio o il microscopio, per esempio), e al tempo stesso il costante interesse per l’opera di Jackson Pollock (condiviso peraltro da Villa e Scialoja), colta come «fatto sensuale, inebriante» (p. 77). Più laterale l’accostamento di Cattafi, dell’ultimo Cattafi, a quella linea dello sguardo-evento, se non per una sorta di dinamizzazione espressiva cui la poesia sarebbe sottoposta a contatto col fatto d’arte; lo stesso Donati mostra di voler collocare il poeta siciliano piuttosto al termine di questa tendenza, già orientato verso la fase postrema dello sguardo-accecamento (cfr. p. 92).
Lo sguardo-avvento consiste in una ricerca nell’arte di «una manifestazione della totalità dell’essere»; ne consegue che una tale posizione avverte il «senso del limite della persona di fronte alla pienezza e alla totalità dell’eterno», opponendosi così allo sguardo-evento, che afferma invece «l’unicità del proprio esserci » e la necessità di render-presente «lo scorrere del tempo» (p. 95). L’avvento si distingue per Donati in due regimi: 1) l’icona, se l’opera è «accesso privilegiato all’essere»; 2) l’idolo, se «l’opera assume direttamente su di sé il valore sacrale» (pp. 96-97). Espressione somma del primo tipo è Mario Luzi, contemporaneo di Villa, Scialoja e Bigongiari, ma che a differenza di loro (sebbene a partire da un’analoga temperie culturale) ha sempre concepito il fatto umano come incomprensibile se non in quanto «momento dell’eterno» (p. 101): la fiorentinità della sua cultura, il rapporto privilegiato con Pontormo, Brunelleschi e infine, andando a ritroso nel tempo, Simone Martini, è pertanto espressione non di arroccamento municipale (anche se chi scrive non riesce a non considerare anche questo aspetto in un poeta come Luzi), ma di una possibilità di risalita, per via compositiva o coloristica, alla stabilità delle forme, a ciò che resta perpetuo dietro, o sotto, la mutazione della storia (il magma). Se anche la poesia di Gatto guarderebbe al fatto d’arte come a una icona in cui, nuovamente, consistono i «valori cromatici» (dunque l’epitelio del dipinto) e la «disposizione volumetrica degli oggetti nello spazio» (dunque la saldezza della composizione: p. 109), Testori e Pasolini si pongono invece entrambi dalla parte dell’idolo, della «esibita ostensione» del divino nell’oggetto estetico (cfr. p. 121). Il primo prova però la via del ricongiungimento con la Totalità attraverso l’esaltazione della carne, che è al tempo stesso la condizione stessa della provvisorietà umana (del suo progressivo frollare) e immagine dell’Altro: e in tal senso bene fa Donati a insistere sulla passione di Testori per un pittore come Francis Bacon (cfr. pp 124 ss.). L’«avida, irrefrenabile manducazione visiva» di Pasolini (p. 131) si è invece articolata attraverso i due poli dell’icona e dell’idolo: negli anni Cinquanta, anche in virtù del magistero longhiano, il poeta friulano ha guardato all’arte come «interfaccia» per cogliere il «nucleo più intimo» della realtà (p. 132); negli anni Sessanta l’arte diventa per lui incarnazione di una realtà più profonda, e per questo motivo viene sacralizzata. È interessante l’osservazione di Donati secondo cui questo passaggio dall’icona all’idolo non sia dovuto al nuovo rapporto di Pasolini con una tecnologia dello sguardo come il cinematografo; al contrario, ciascuno dei due atteggiamenti si ritrova sia nella scrittura dell’autore sia nei suoi film, in entrambi i casi orientandosi progressivamente verso un’ambigua sacralizzazione del corpo maschile, di cui appare esaltato soprattutto il carattere regressivo (p. 141).
La terza modalità dello sguardo riguarda la tensione euristico-conoscitiva di chi guarda, la quale si può declinare nella modalità dell’esperimento col o dell’esperimento sul noi. Per la dimensione personale Donati presenta il caso di Zavattini, di Raboni (Le nozze) e di Andrea Inglese (Commiato da Andromeda); per quella socio-politico-ideologica (il noi) sono analizzati invece i casi di Sanguineti e Nelo Risi; a metà strada tra i due modi c’è Valentino Zaichen. Al di là della condivisione dei valori poetici proposti dall’autore, conta qui render conto del modo (o metodo) da lui adottato per attraversare la poesia italiana del secondo Novecento. Risulta perciò interessante l’inserimento di Zavattini (su cui però il giudizio resta, a parere di chi scrive, ingiustamente positivo, soprattutto in una prospettiva culturale, e politica, complessiva) dentro una linea ‘alta’ della poesia europea, tanto che l’esperimento sul sé appare, da un lato, apparentabile alla celebre disarticolazione di Rimbaud (scoprire, attraverso l’arte, l’altro che ci abita), dall’altro iscrivibile in quell’apprendistato del relativismo (nel senso di: prospettivismo) assoluto che è senza dubbio caratteristica profonda del Novecento occidentale (cfr. pp. 162-63). Diverso il caso di Raboni (e Inglese), per il quale la riflessione sulle opere d’arte è strumento per elaborare le forme del desiderio, e in particolare l’apparizione del fantasma incarnato. Prima di passare oltre, è utile segnalare che proprio in casi come questi l’articolazione di Donati si rivela utile e produttiva: distinguere tra l’avvento idolatrico dei corpi testoriani e pasoliniani e l’esperimento col volto dell’amata in Raboni risulta utilissimo per entrare in contatto col senso della poesia di questi tre diversissimi autori, e al tempo stesso costituisce una controprova importante all’articolazione di un ragionamento storiografico che non vuole basarsi sulla (inerte) progressività cronologica, ma sulle forme del fare poetico. Si arriva così a Sanguineti, col suo stravolgimento drammaturgico del tradizionale procedimento ecfrastico (cfr. p. 182: il poeta d’origine torinese articola infatti le sue rappresentazioni poetiche di fatti pittorici come fossero pièces teatrali): qui l’alta dialogicità, espressivistica e al tempo stesso strutturale, della poesia sanguinetiana viene interpretata come forma specifica di un discorso del disvelamento, che, adornianamente, mette in crisi l’idea di museo (la tradizione trasformata in spettacolo che certifica i valori del presente), svelando le ragioni ideologiche profonde che sottendono alla pur sublime arte di ogni tempo.
Ultimo tipo è lo sguardo-accecamento, col quale il libro di Riccardo Donati entra nel nostro presente. L’autore precisa, opportunamente, che anche in questo caso siamo in ambito ‘moderno’, giacché anche l’accecamento pensato e rappresentato dai poeti che hanno esordito a partire dagli anni Ottanta (o tardissimi Settanta) risale a elaborazioni e proposte dei grandi padri primonovecenteschi (si fanno i nomi di Artaud e Canetti, p. 200). Al tempo stesso, fedele al suo impianto teorico, Donati articola l’accecamento, spiegando, in maniera implicita, che non si tratta di una versione della teologia apofatica, che dichiara inconoscibile l’assoluto e scompare nell’accecamento della non-conoscenza; al contrario, l’accecamento può essere conseguente o all’attivazione di «meccanismi di introversione o propriocezione endoscopica », oppure all’invasione di uno sguardo esterno, che, intrusivamente, s’incista nel corpo-proprio dello scrivente; entrambi questi sviluppi si articolano infine secondo la doppia coppia dialettica: coscienza/incoscienza e buio/luce (pp. 202-4). È dunque possibile che ci sia una propriocezione cosciente o incosciente, che esalta la visibiltà o riconosce l’invisibilità; e lo stesso vale per l’aggressione «eteroscopic[a]». È molto interessante che il discorso parta da Valerio Magrelli: non solo perché spiega, assai opportunamente, il significato del serrata presente nel titolo d’esordio del poeta romano (Ora serrata retinae), mostrandone il carattere di ‘accecamento’ rispetto al fuori (cfr. p. 212), ma perché mostra come il medesimo pittore (in questo caso Francis Bacon, per cui cfr. anche i poeti dell’evento) possa essere utilizzato differentemente a seconda della declinazione estetica e poetica che interessa al singolo autore: ulteriore prova, se occorresse, della produttività di un percorso che tiene assieme teoria, storiografia e critica. Il secondo passaggio è dedicato a Elisa Biagini, alla quale sono dedicate alcune delle pagine forse più sentite di tutto il libro (e, sia detto da chi resta sospettoso, costituiscono una eccellente applicazione delle tematiche gender). Gli ultimi due paragrafi sono dedicati a due autori che (proprio insieme a Magrelli) costituiscono forse la vetta della riflessione e della produzione dedicata al vedere nella poesia contemporanea: Tommaso Ottonieri e Gabriele Frasca, dei quali sono analizzati soprattutto i testi che hanno a che fare, in termini impliciti o espliciti, col cinema. Si tratta forse davvero dell’ultimo livello possibile del rapporto con le arti del vedere: quello in cui – come illustrò Buñuel in Le chien andalou – l’occhio finsice coll’essere accecato dalla tecnologia cui si affida e di cui diventa, per dirla con McLuhan, «servomeccanismo».
Una rassegna come la presente non può che ripercorrere le linee principali di un libro così ricco qual è quello congedato da Riccado Donati. In conclusione sia però consentito fare tre riflessioni: due di contenuto (ma, si spera, ricevibili) e una di metodo. La prima riguarda, come sempre accade, qualche mancanza: sebbene Nella palpebra interna sia un libro teoricamente impostato, e dunque valido al di là della completezza dell’indagine, è vero al tempo stesso che di più si desidererebbe leggere su altri autori. Donati avrà tempo di farlo, se vorrà, in contributi futuri; e si spera, se il caso si darà, che, oltre allo studio già promesso su Zanzotto, sarà possibile leggere sue analisi sul lavoro di Pagliarani, di Porta (opportunamente citato, ma solo citato) e di Antonella Anedda. Il secondo punto riguarda invece un problema di confezione: il lettore non può infatti che essere rammaricato del fatto che un libro così intenso dedicato alla visione sia privo di immagini; certo, le riproduzioni costano, ma forse il rinvio in nota a qualche sito che presenti immagini o filmati degli artisti citati (a volte di straordinario interesse) potrebbe aiutare: questo aspetto della interazione è probabilmente sempre più importante nella organizzazione concettuale dei nostri libri. E infine il metodo: la chiave individuata da Riccardo Donati, oltre a essere, dichiaratamente, il frutto di un interesse personale che rasenta l’ossessione (parere dello scrivente...), è fondamentale per intendere il senso della poesia; non solo della poesia di ogni tempo, ma specificamente della poesia nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’immagine e dello stesso soggetto umano. Siamo molto più avanti di uno studio riconducibile all’ambito della thematics; al contrario (come insegna il vecchio motto ut pictura...), siamo nel pieno del senso profondo della poesia novecentesca, quando la phantasia (e qui Donati potrà di sicuro portare avanti le sue ricerche in chiave propriamente estetica, sviluppando la necessaria riflessione andando à rebours verso l’Aristotele del De anima) è stata sottoposta alle nuove sfide dell’immagine che diventa realtà.
Salutiamo, dunque, Nella palpebra interna come un libro che, mentre ci diletta con le sue fini osservazioni e i tanti capolavori che attraversa, ci insegna, anzi ci impegna a ricongiungere estetica e storiografia: concetti teorici e racconto sistematico.

(Giancarlo Alfano)

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