« indietro KAVAFIS TRADOTTO DAI POETI
I CONTRIBUTI DI NELO RISI-MARGHERITA DALMATI E DI GUIDO CERONETTI
di Gabriella Macrì
Il greco moderno è una lingua di non facile accesso per i poeti italiani. Questo ha fatto sì che la traduzione e la diffusione in Italia dell’opera poetica di Kavafis sia stata affidata, per lungo tempo, agli studiosi neogrecisti. Si sono rivelati significativi in questa direzione i contributi di Filippo M. Pontani, Paolo Stomeo, Bruno Lavagnini e Mario Vitti, tutti docenti universitari e, tra i non accademici, di Cristino Sangiglio e Nicola Crocetti. Le loro traduzioni, più o meno dinamiche o formali, per dirla con Nida, si rivelano tutt’oggi fondamentali per la conoscenza in Italia dell’opera del poeta alessandrino. Comunque sia, fino a oggi sono stati pochi i poeti che si sono cimentati nella resa in italiano della sua opera: Montale, ad esempio, quando negli anni Quaranta, si misurava nella traduzione della lirica cavafiana Aspettando i barbari, teneva d’occhio la versione inglese di John Mavrogordato1 e, nel 1962, in una recensione al volume di poesie di Kavafis curato da Filippo Maria Pontani2, traduceva di nuovo quella stessa poesia ispirandosi alla traduzione pontaniana3.
Tra i poeti particolarmente attenti all’opera del poeta alessandrino Nelo Risi ha rivestito un ruolo fondamentale. Le sue traduzioni delle poesie di Kavafis scelte dal corpus delle 154 riconosciute dal poeta4, ed eseguite in collaborazione con la poetessa greca Margherita Dalmati, sono apparse, negli scorsi decenni, su riviste o in antologie di poesia europea fino a costituire, nel 1968, una bella raccolta antologica, le Cinquantacinque poesie di Costantino Kavafis5. Allo stesso modo Guido Ceronetti ha riunito nel 2004, nel volume Un’ombra fuggitiva di piacere6, le sue traduzioni cavafiane, apparse in precedenza in edizioni anche molto raffinate.
Tornando alla coppia di traduttori Risi-Dalmati, nel 1992 l’edizione delle Cinquantacinque poesie si è arricchita delle versioni (sempre eseguite in tandem) di altre venti liriche scelte, anche esse, tra le 154 ‘riconosciute’ dal poeta7. Il volume delle Settantacinque poesie si apre con la Prefazione di Nelo Risi, ripresa dall’edizione del 1968, nella quale si definisce Kavafis «poeta europeo», «un artista a noi contemporaneo». Seguendo un percorso già iniziato da altri, Risi vede nel poeta alessandrino, oltre che un continuatore della cultura classica e bizantina, anche un autore della sua epoca: «l’essenza dell’arte di Kavafis, il segreto della sua sottile e durevole risonanza vanno ricercati nell’ambiente e nell’epoca in cui l’opera è nata. Ambiente ed epoca assai particolari, anche per un poeta europeo sviluppatosi in pieno decadentismo e coetaneo di D’Annunzio»8. Pur definendolo «un moralista», in quanto appartiene «a quella categoria di creatori che sono giudicati poveri di fantasia, che lavorano sul documento e concedono poco o nulla al lirismo»9, Risi considera fondamentale nell’opera di Kavafis il senso della storia e la capacità di farne oggetto di poesia: «il suo riferirsi ad avvenimenti trapassati in modo del tutto oggettivo è mistificatorio, è l’emozione perfettamente truccata che si cala ad arte a dar vita alla voce del cronista anonimo»10. Nell’affrontare l’omosessualità di Kavafis (argomento che solitamente provocava un certo imbarazzo tra gli studiosi dell’opera cavafiana, almeno fino agli anni Sessanta), Risi asserisce che si tratta di «un’omosessualità non sbandierata, non gridata né tanto meno vergognosa o sentita come colpa, ma quasi contemplata nell’attimo stesso in cui si manifesta, e che già appartiene al ricordo; una sensualità asciutta e decantata che affiora senza false compiacenze e si corregge a volte nell’amarezza dell’autoironia»11. La considera il motore primo dei canti a contenuto più intimo e delle liriche d’amore del poeta alessandrino, le attribuisce il ruolo che le spetta all’interno della poetica cavafiana, accostandola ad altri temi: il rapporto Poesia-Storia; la figura materna, simbolizzata in vari modi; il rimpianto di non aver trascorso un’adolescenza ‘normale’, spensierata come gli altri ragazzi; l’importanza che ha avuto, nella sua vita e nella sua scrittura, vivere nell’ambiente cosmopolita di Alessandria d’Egitto nel primo Novecento. Con le Settantacinque poesie Risi e Dalmati presentano un’opera poetica coraggiosa, ricca d’umanità e che riflette il dramma del poeta alessandrino: innamorarsi dei giovani e, al contempo, essere costretto a celare i propri sentimenti per poterli dichiarare solo attraverso la scrittura poetica. Per questi motivi i due curatori trovano più rappresentative le liriche di argomento storico (39 su 75), cui seguono un numero inferiore con tematiche a contenuto più interiorizzato.
Il metodo traduttivo adottato è esposto dettagliatamente da Nelo Risi in una Nota che segue alla Prefazione. La versione italiana delle poesie di Kavafis «è il risultato di un lavoro durato anni». Ogni poesia subisce un processo costituito da quattro passaggi: su una prima traduzione, filologicamente corretta, della poetessa greca, interviene Risi con un primo adattamento in italiano. Il nuovo testo è sottoposto alle osservazioni della Dalmati e, così modificato, ritorna al poeta che cerca «di rendere l’emozione il colorito il timbro dell’originale in una traduzione che tenga naturalmente conto dell’unità d’insieme»12. Il prodotto finale (la quarta e ultima fase) consiste in una versione caratterizzata da un’equivalenza semantica e testuale tra l’originale greco e l’italiano. La strategia traduttiva di Risi e Dalmati, dinamica e quindi rivolta al lettore, non assume connotazioni etnocentriche, e si realizza nel pieno rispetto degli stilemi poetici di Kavafis. Il lavoro è, di regola, circoscritto all’interno del tessuto poetico: i traduttori pongono la loro creatività a servizio della ri-scrittura del testo senza tentare di imporre la loro personalità poetica sulle traduzioni. Trasportano, insomma, in italiano il messaggio poetico cavafiano con la stessa intensità che possiede nell’originale:
In queste traduzioni, là dove sia possibile, è chiara l’intenzione di creare un’equivalenza tra l’aspetto metrico-versificatorio dell’originale e della metafrasi: nella versione italiana è privilegiato il ritmo mimico, ed è rispettata la punteggiatura del testo di partenza. La corretta equivalenza tra il testo greco e quello italiano si realizza anche nell’aspetto lessicale, con un profondo rispetto per il testo traducente. Quando invece predomina l’esperienza del poeta su quella del traduttore, e i curatori si prendono una certa libertà in nome di un ‘dialogo tra poeti’, la ritmica testuale dell’originale non è conservata. Sovrapponendo la loro concezione metrico-versificatoria su quella del testo da tradurre, i due traduttori provocano un’alterazione del sistema poetico del testo greco e ne generano uno nuovo:
In tal caso è il contenuto a determinare la forma versificatoria. Al verso 2 la frase del secondo periodo si trasforma in infinitiva con il verbo al participio passato («Lasciato») correlato con la successiva forma verbale, anch’essa infinitiva («senza parlare»), ed è semanticamente connesso con l’attributo «frettolosi». Al verso 4 si registra un’alterazione dell’equivalenza lessicale tra l’originale e la metafrasi: in essa non viene rispettato il valore semantico della forma avverbiale del greco, che in questo caso assume il valore di «separatamente» piuttosto che di «uno dopo l’altro». L’alterazione si prolunga nella frase successiva (alla lettera: «e mentre camminano per via con vaga inquietudine») dove la traduzione accentua il significato più profondo del testo: il senso di colpa e l’inquietudine che pervade i protagonisti che camminano per strada, timorosi di essere scoperti nei loro appuntamenti segreti. Si ottiene così un ipertesto, motivato dal valore etnocentrico della traduzione, a discapito dell’originale.
In altri casi, anche se viene alterato l’aspetto metrico-versificatorio del testo traducente, la metapoesia che ne consegue è caratterizzata da una forma analogica col testo greco. Ne è un esempio la prima strofa di La città, dove i versi 2-8 meritano qualche osservazione:
La poesia comunica il senso di fallimento del narrante: la città (simbolo del suo alter-ego, della sua storia) lo seguirà sempre, dovunque egli decida di vivere, e il desiderio di fuggire da se stesso sarà sempre presente in lui. Ai versi 2-4 i traduttori propongono una soluzione delle forme versificatorie del greco meno legata al testo originale. La sovratraduzione che ne risulta è arricchita di valori semantici che non sono denotanti del testo di partenza:
«Altra città più amabile di questa, dove / ogni mio sforzo è votato al fallimento / dove il mio cuore come un morto sta sepolto / ci sarà pure».
L’alterazione della punteggiatura (le due frasi separate nell’originale diventano una sola in traduzione) impone una ritmica diversa e una continuità di pensiero che nel testo greco sono accentuate e dilatate nel tempo grazie alla segmentazione del periodo in due strutture frasali. Il punto finale della prima frase e il punto in alto a conclusione della seconda frase, in greco, sono sostituiti in italiano dalla forma avverbiale ‘dove’. Il testo perde in tal modo quel senso di amarezza, racchiuso e distribuito nelle tre frasi iniziali (la seconda e la terza dell’originale greco sono separate dalla scansione versificatoria). La soluzione adottata in italiano riduce il tempo della riflessione: il ricorso alla subordinata introdotta da «dove» provoca un’alterazione del sistema sintattico dell’originale. La forma verbale, che in greco figura nella frase del primo verso, in traduzione è spostata al verso 5. Esso è costituito, a sua volta, in greco da un’unica frase verbale, mentre in italiano è scandito da due sequenze («ci sarà pure. Fino a quando patirò questa mia inerzia?») di cui solo la seconda corrisponde realmente al verso dell’originale. Questa soluzione, se da un lato genera una semi-equivalenza metrica (decapentasillabo in greco = diciotto sillabe, o doppio novenario, in italiano), sotto l’aspetto semantico accosta due riflessioni che il poeta separava, forse anche per motivi più strettamente inerenti alla metrica. Nel testo italiano la traduzione di «rimanere» con «patire», verbo che in greco offre un ulteriore indizio della (in)sofferenza dell’io narrante e la dichiarazione esplicita della propria incapacità a mutare l’ordine delle cose, evidenzia il ‘testo nascosto’, il sottotesto dell’originale. Anche nel caso dei versi 6-8 del testo greco la versione italiana si dimostra più libera:
«Dei lunghi anni, se mi guardo intorno, / della mia vita consumata qui, non vedo / che nere macerie e solitudine, e rovina.»
I traduttori, trasformando i verbi in sintagmi nominali, alterano semanticamente il testo manifesto nel quale sono trasportate in prima persona le vicissitudini della vita e vengono messe in rilievo, attraverso le forme verbali, le responsabilità dell’io narrante. Operano così una lieve modifica del senso originale, generano una sovratraduzione e sviluppano un discorso orizzontale in un testo che tende alla verticalità. La nominalizzazione dei verbi rende più impersonale la narrazione: prevale ancora una volta il «dialogo tra poeti» sulla metafrasi.
L’antologia di poesie è seguita da una «Notizia sulla lingua di Kavafis» curata dalla Dalmati. Si tratta di una nota esplicativa sulla lingua greca che il poeta alessandrino fu costretto ad apprendere di nuovo dopo un’infanzia trascorsa in Inghilterra. La Dalmati, con semplicità ma con acuta chiarezza, introduce il lettore al problema complesso della lingua greca usata da Kavafis: facendo un uso particolare, quasi personale direi, di questa lingua a seconda del tema trattato, il poeta attingeva talvolta anche al lessico del greco antico. È, per la curatrice, un valido motivo per affrontare le tematiche omeriche (provenienti soprattutto dall’Iliade) trattate da Kavafis nella sua opera.
Nel ricco apparato finale di note ai testi, oltre ai riferimenti cronologici sulla loro stesura sono riportate alcune annotazioni, di grande utilità per il lettore, sugli avvenimenti e i personaggi storici protagonisti delle poesie.
Peculiarità ben diverse propone Guido Ceronetti nella sua ‘rivisitazione’ dell’opera poetica di Kavafis. Il volume Un’ombra fuggitiva di piacere (il titolo è tratto da un verso della lirica cavafiana Mezz’ora) riunisce le traduzioni cavafiane, in alcuni casi rivedute, pubblicate dal poeta-traduttore negli anni precedenti. Nell’introduzione, dal titolo Limiti, consiglia i suoi lettori di tenere il libro «come un breviario a portata di mano e, se si è in grado, leggere parallelamente il testo cavafiano e la mia versione, che vorrebbe fissarne la piccola sezione tradotta in una sua propria, autonomamente significante, lingua poetica italiana»17. Ceronetti chiarifica quale ruolo assegnare alla traduzione poetica: «S’intende che, per trattenere il poetico del testo, il lavoro del traduttore in versi non è di trasposizione ma di scrupolosa ricreazione. Tradurre poesia è creare un nuovo verso, una diversa musica. La ricerca di luce dell’autore va rimessa in cammino, proseguita con altre parole»18. Tradurre poesia significa dunque, per Ceronetti, ri-creare la poesia, generarne una nuova, con una funzione prioritaria del significato rispetto alla forma stilistica. L’accostamento al testo poetico non deve essere regolato da un approccio di tipo filologico, ma è una ricerca del valore semantico nel suo complesso, che la poesia reca in sé ed esprime. Sulla base di questi principi intraprende la lettura di Kavafis.
Nelle sue traduzioni il testo in lingua d’arrivo funziona come testo a sé, riscrittura di una lettura-scrittura del testo traducente. La metapoesia che viene creata - nata dalla trasformazione formale dell’originale - è un testo caratterizzato da una forte connotazione etnocentrica e dall’ipertestualità. Si legga, ad esempio, La città, di cui è stata già esaminata parte della traduzione eseguita da Risi e Dalmati. Per comodità di lettura se ne riporta il testo integrale, in greco e in italiano:
L’originale è costituito da due strofe di otto versi ciascuna, la traduzione presenta un incipit formato da un unico verso isolato cui seguono due strofe, la prima di dodici, la seconda di quattordici versi, con la conseguente alterazione del ritmo versificatorio del testo greco. Ogni verso inizia con la maiuscola, ma si tratta di una particolarità della scrittura di Ceronetti che caratterizza l’intero volume. La trasformazione dell’originale interessa anche la punteggiatura, totalmente modificata nel testo d’arrivo. L’incipit, da dialogo espresso in forma diretta, è trasformato in una riflessione aperta del narrante, captando così il pensiero non dichiarato espressamente nella frase: il desiderio di fuga di chi parla. Esso è reso esplicito con un verbo desiderativo («sospiravi») e non più dichiarativo («Hai detto»). Inoltre con l’annullamento del verbo iniziale «Eì?e?» viene a mancare, in traduzione, il dialogo, cioè il confronto diretto tra l’io narrante e il protagonista della narrazione: si passa insomma dal coinvolgimento immediato del lettore a un suo assistere passivo agli eventi. Il testo si trasforma in un monologo dell’io narrante che si rivolge al personaggio di cui, come per inciso, se ne riporta il pensiero. Inoltre il verso 5 del testo greco subisce una dispersione del significante e un allungamento della catena sintattica, con l’esplicitazione del contenuto implicito del verso:
si trasforma in
«Anima mia, tanto disfacimento / Come puoi contenere?»,
con una forma vocativale iniziale che ripristina il dialogo precedentemente annullato: il lessema vocativale, posto all’inizio del verso, è elevato a valore sublime, a nome assoluto. È una scelta traduttiva che ancora una volta rende orizzontale ciò che per Kavafis è un discorso in verticale, in profondità. Ed è, al contempo, una sovratraduzione che marca anche i versi successivi: Ceronetti non si limita solamente a tradurre, crea piuttosto un ipertesto con un bagaglio informativo maggiore rispetto a quello contenuto del testo traducente. Evita ogni tipo di assonanze, di allitterazioni e di rime che definiscono l’originale, come anche la particolare ritmicità di alcuni versi dominati dalle iterazioni:
Si genera insomma una metapoesia con un testo nel quale l’infedeltà all’originale sembrerebbe trasformarsi in fedeltà alla propria poetica.
Un’altra particolarità della lettura di Ceronetti è la configurazione formale, attraverso un carattere narrativo più denotante, delle poesie di Kavafis, forse per una definizione migliore e più approfondita dei temi e per un uso ancor più dinamico del fattore tempo. Si consideri, ad esempio, Nell’anno venticinquesimo della sua vita:
L’ottica della narrazione è modificata ancora una volta: nell’incipit (con il verbo che, posto in terza persona singolare, sottolinea la ripetitività dell’azione del soggetto), Ceronetti trasforma la sintassi verbale, caratterizzata da un’azione di movimento, in sintassi nominale connotata dall’abituale presenza del protagonista nel locale. Ancora più ‘personalizzati’ sono i versi 5-7: con un registro linguistico più confacente ai nostri tempi, e di pasoliniana memoria («bei ragazzi di vita di cui niente / Si sa, che poi spariscono») Ceronetti non traduce la forma ma rende esplicito il messaggio profondo dei due versi, cioè la semantica intrinseca del testo.
Una ‘versione libera’ si ritrova anche al verso 11, l’ultimo della prima strofa: l’originale denota una speranza frammista a desiderio, ed esprime un periodo di tempo delimitato (A?ò?e): in italiano acquista un valore temporale più generico e vago: «Chissà che non compaia, che non ricapiti».
Nella seconda strofa il traduttore riduce la sintassi a sintagmi nominali, e ne crea quattro consecutivi, talvolta anche con effetti poco gradevoli («il baciarsi / Rappreso nella bocca») rispetto a una forma greca più poetica e più sensuale. L’ultima frase della strofa presenta, in traduzione, una volontaria alterazione della struttura morfosintattica dell’italiano: «Anela a con questo ancora / Essere uno» dove, rispetto al greco, prevale un tono di immediatezza e di maggiore avvicinamento alla realtà. È eliminata, laddove sia possibile, la sensualità mitigata dalla retorica del testo greco. Il linguaggio acquisisce una maggiore contemporaneità, a discapito di un’equivalenza stilistica e sintagmatica, le frasi acquistano sovente una maggiore crudezza rispetto all’originale. La speranza, l’ansioso desiderio di incontrare, per una volta ancora, l’oggetto del desiderio, sono attenuati in traduzione. Ceronetti, nel descrivere questo fugace incontro che l’io narrante spera di poter rivivere, ridimensiona l’importanza del secondo personaggio definendolo un ‘ragazzo di vita’ sin dal verso 6 e sottolineando la differenza di classe sociale tra il protagonista della poesia (un assiduo frequentatore della taverna, che gode della stima e dell’affetto di tutti) e l’avventore di una sera, una persona di poco conto. Anche nell’ultima sequenza vorrebbe prendere le distanze dal soggetto per universalizzare il messaggio che proviene dal testo: ? ??n t?? è reso con «simili vite», rendendo più generico il concetto piuttosto negativo che il protagonista ha di sé stesso. La metafrasi assume, dunque, il ruolo di ricreazione di un ipertesto poetico: il ‘dialogo tra poeti’ genera forme di libertà traduttiva che oltrepassano lo stesso valore di una traduzione. Ceronetti si distacca dal tessuto dell’originale, lo trasforma con l’allungamento del testo, con l’esplicitazione di significati impliciti che lo regolano al suo interno, con l’alterazione del ritmo versificatorio, con la chiarificazione del senso ecc.
Talvolta la lettura operata dal poeta-traduttore Ceronetti sembrerebbe impoverire il testo traducente. Si veda Quella, l’origine (poesia, anche questa, già incontrata nella versione di Risi e Dalmati):
La traduzione letterale di st??µa con «materasso» è poco adeguata poiché il lessema assume, in questo caso, il valore semantico di «letto»: è una metafora per indicare il letto su cui giacquero i due amanti clandestini, connotazione che trova una conferma al verso 7 dove ?????? è il chiaro riferimento lessicale a quel «letto». È alterata la struttura sintattica dei versi 5-7, e si passa dal verbo in terza plurale, con riferimento alla coppia, a una terza singolare il cui soggetto sono le occasioni che generano la paura: «un timore» e «il lettuccio». In questi versi, inoltre, si registra quasi un impoverimento semantico dell’originale. Là dove nel testo greco prevale il senso di colpa e la paura di essere traditi, e quindi scoperti, per via di qualche traccia lasciata involontariamente (o forse inconsciamente), nella versione italiana traspare un sentimento tra l’ironia e il sarcasmo, forse provato dallo stesso traduttore nel descrivere la situazione («il lettuccio dei loro sfoghi»). Nella resa italiana le parole-chiave dei versi 5-8 sono proprio lettuccio e sfoghi, che però banalizzano il testo, volto a mettere in evidenza per prima cosa la preoccupazione dei due protagonisti di celare i loro incontri segreti.
Riepilogando, sono palesi le diversità di stile e di punto di vista traduttivo che caratterizzano le scelte dei curatori dei due volumi presi in esame. In entrambi i casi si ha il riflesso della cultura e del momento storico in cui le loro traduzioni furono date alle stampe, e proprio per questo appartengono ormai alla cultura poetica italiana. Credo però che nel caso della prova di Ceronetti, bella e molto interessante, sia più giusto parlare di una di ri-creazione del testo originale che non di metafrasi: la sua strategia traduttiva mira a creare un’assoluta equivalenza dinamica con l’originale. È la traduzione di un poeta, è il suo modo, da poeta, di riportare in italiano la poeticità di Kavafis. Ceronetti oltrepassa il limite della creatività richiesto da una traduzione, non fa suoi gli stilemi poetici cavafiani: semmai, gli attribuisce i propri stilemi, rendendo esplicito ciò che il poeta desiderava rimanesse nascosto tra i versi.
NOTE
1 Costantino Kavafis, I barbari, in «Il Ponte» a.II, n.3, marzo 1946, p. 288. Ora in E. Montale, Tutte le poesie, Milano, Mondadori 1991, pp. 773-774.
2 Costantino Kavafis, Poesie, Introduzione, traduzione e note a cura di Filippo Maria Pontani, Milano, Mondadori 1961. Con testo greco a fronte.
3 E. Montale, Un poeta greco, in «Corriere della sera», 5 giugno 1962. Ora in E. Montale, Prose e racconti, Milano, Mondadori 1997, pp. 495-500.
4 Le poesie di Kavafis sono catalogate in: poesie ‘riconosciute’ dal poeta (154, alcune delle quali edite dallo stesso autore in forma di plaquettes o di opuscoli); poesie inedite; poesie rifiutate per le quali aveva scritto, in inglese, «non da pubblicare, ma da rivedere». Nel 1968 Giorgio Savidis, professore ordinario di letteratura neogreca all’Università di Atene, pubblicò il corpus delle poesie rifiutate. Oggi l’intera opera in poesia e in prosa di Kavafis costituisce l’Archivio Kavafis, con sede ad Atene. A riordinarne la documentazione è un’equipe formata dai migliori studiosi, a livello internazionale, dell’opera cavafiana. La bibliografia sul poeta alessandrino compresa nell’Archivio Kavafis è consultabile nel sito www.snhell.gr.
5 Constantinos Kavafis, Cinquantacinque poesie, a cura di M. Dalmati e N. Risi, Torino, Einaudi 1968. Con testo greco a fronte.
6 Constantinos Kavafis, Un’ombra fuggitiva di piacere, a cura di Guido Ceronetti, Milano, Adelphi 2004. Con testo greco a fronte.
7 Constantinos Kavafis, Settantacinque poesie, a cura di M. Dalmati e N. Risi, Torino, Einaudi 1992. Con testo greco a fronte.
8 N. Risi, «Prefazione», in Constantinos Kavafis, Settantacinque poesie, cit, p. 5.
9 Idem, «Prefazione», op. cit, p. 3.
10 Ibidem, p. 3.
11 Idem, «Prefazione», op. cit., p. 5.
12 Idem, «Prefazione», op. cit., p. 7.
13 Constantinos Kavafis, Monotonia, in Settantacinque Poesie, cit., p. 79.
14 Idem, Quando si risvegliano, in op. cit., p. 137.
15 Idem, L’origine, in op. cit., p. 141.
16 Idem, La città, in op. cit., p. 49.
17 Guido Ceronetti, «Limiti», in Constantinos Kavafis, Un’ombra fuggitiva di piacere, cit., p. 13.
18 Ibidem, p. 13.
19 Hai detto: «Andrò per altra terra ed altro mare. / Una città mi-gliore di questa ci sarà. / Tutti gli sforzi sono condanna scritta. E qua / giace sepolto, come un morto, il cuore. / E fino a quando, in questo desolato languore? / Dove mi volgo, dove l’occhio giro, / macerie nere della vita miro, / ch’io non seppi, per anni, che prendere e schiantare» // Né terre nuove troverai, né nuovi mari. / Ti verrà dietro la città. Per le vie girerai: / le stesse. E negli stessi quartieri invecchierai, / ti farai bianco nelle stesse mura. / Perenne approdo, questa città. Per la ventura / nave non c’è né via – speranza vana! / La vita che schiantasti in questa tana / breve, in tutta la terra l’hai persa, in tutti i mari.» (La traduzione è di F.M. Pontani, da Costantino Kavafis, Poesie, Milano, Mondadori 2001, p. 33. Tutte le traduzioni di Kavafis in nota sono tratte da questa edizione.)
20 Constantinos Kavafis, La città, in Un’ombra fuggitiva di piacere, cit., p. 27.
21 Sempre ritorna alla taverna, dove / si conobbero, circa un mesefa. / Ha chiesto: nulla hanno saputo dirgli. / Dalle parole, ha inteso d’essersi imbattuto / in un soggetto ignoto, uno dei tanti / volti d’efebi, equivoci / e ignoti, che passavano di là. / Pure, sempre ritorna, la notte, alla taverna. / Fissa immoto la soglia: / fino a stremare l’occhio fissa la soglia. Forse / verrà. Forse entrerà, stasera. // Sempre così: quasi tre settimane. / La mente s’è ammalata di lussuria. / Ancora stanno sulla bocca i baci. / Si macera nel diuturno desiderio la carne. / Il tatto di quel corpo è su di lui. / Vuole ancora congiungersi con lui. // Di non tradirsi cerca, s’intende. / Ma quasi incurante, talora. / Il rischio lo conosce, l’ha scontato. Chissà che quella vita / non lo porti a uno scandalo fatale.» (Costantino Kavafis, Poesie, cit., pp. 159-161).
22 Constantinos Kavafis, «Nell’anno venticinquesimo della suavita», in Un’ombra fuggitiva di piacere, cit., p. 89.
23 «Ormai la loro voluttà vietata / è consumata. S’alzano, si vestono / frettolosi e non parlano. / Sgusciano via furtivi, separati. Camminano / per via con una vaga inquietudine, quasi / sospettino che in loro un non so che tradisca / su che sorta di letto giacquero poco fa. / / Ma dell’artista come s’arricchisce la vita! / Domani, doman l’altro, o fra anni, saranno scritti i versi gagliardi ch’ebbero qui l’origine.» (Costantino Kavafis, Poesie, cit., pp. 131-133).
24 Constantinos Kavafis, «Quella, l’origine», in Un’ombra fuggitiva di piacere, cit., p. 87.
¬ top of page |
|||||||||||||||||||||||||||||||||||
Semicerchio, piazza Leopoldo 9, 50134 Firenze - tel./fax +39 055 495398 |