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Ancora di una fisica poetica 

Di Antonio Prete 

 

In: Semicerchio LV (02/2016), pp. 215-219. 

 

Il corpo, la lontananza

 

In quale orizzonte si toma oggi a dire del corpo? È del tutto dissipata l’interrogazione sul corpo che era così diffusa negli anni sessanta e settanta? Allora, scritture diverse tra loro per generi, statuti, codici, stili, erano sorprese, intramate, sorvegliate dalle domande sul corpo; da Jean Genet a Foucault, per riferirsi a due estreme, ed esemplari, forme di indagini, che erano anche forme di invenzione teorica e affabulatoria. Artaud e Bataille ‘tornarono’ – impetuosamente, si potrebbe dire – solo nell’esegesi di quegli anni. Rapporto tra saperi e disciplina dei corpi, tra scienze e istituzioni, corporeità del linguaggio, rapporto tra corpo biologico e corpo sociale, topica della sensibilità, mappe di una corporeità diffusa, rizomatica, desiderante, e ancora nesso tra erotismo, eversione, merce (ricordo il bellissimo intervento di Pasolini in un convegno bolognese che aveva per tema questa triade).

C’era, in quel discorrere teorico e politico, anzitutto il sogno di una mutazione: poter intravvedere la fine dell’astrazione, o almeno l'attenuarsi della violenza che sull’ astrazione si fonda e che cancella la singolarità del vivente (era poi questa – così a me pareva allora e continua a parere – anche la sostanza del pensiero, e della poesia, di Leopardi: considerare l’astrazione, la progressiva «spiritualizzazione delle cose umane e dell’uomo» come propria della moderna civiltà, radice delle forme di violenza, che negano il vivente, quel vivente che è nel simbolo e nella natura).

Nelle riflessioni sul corpo di quegli anni c’era l’istanza, o l’illusione, di un legame tra saperi e movimenti. E c’era inoltre la volontà di estendere la topica del corpo, il paradigma del corpo, a quelle che si chiamavano «pratiche»: anche il lavoro sul testo, riguardasse la teoria o l’esegesi, la filologia o il commento, aveva a che fare con la corporeità. Siamo in tanti, qui presenti, che abbiamo collaborato a queste estensioni, debite o indebite. Tutti abbiamo anche ‘abusato’ di questo dire sui corpi (appare archeologico quel discorrere d’allora: ho riletto, ieri, un mio vecchio saggio, che apriva il n. 10 della rivista «Il piccolo Hans», giugno ’76, intitolato II corpo tatuato –, studiavo l’incipit, la subscriptio, la miniatura nel codice medievale, quello che di quel tatuaggio è sopravvissuto, modificato, nel corpo del testo a stampa.

Oggi il teatro della teoria (teatro è designazione ‘corporale’: il corpo vivente dell’attore ne è l’essenza) ospita nuove rappresentazioni: corpo virtuale, telematico, digitale, cyborg. Rappresentazioni che muovono, tutte, da uno slittamento per dir così extracorporeo del corpo, da un principio e movimento ‘immateriale’: in- somma si dice, ancora, del corpo, ma dislocandone la presenza nell’incorporea immagine, nella sua rappresentazione, che diventa dunque rappresentazione in absentia. Non si tratta di rimuovere, o salutare, il senso di queste rappresentazioni, anche se l’enfasi che le accompagna non corrisponde alla effettiva loro diffusione. Si tratta di non smarrire, nella smaterializzazione informatica, il senso visibile, prossimo, della corporeità che la lingua della poesia tiene invece vivo.

Quando ‘i cinque sensi’ della letteratura si appannano o atrofizzano, lasciando crescere spropositata- mente il senso del ‘vedere’ – di un vedere illusorio, fantasmatico, virtuale – c’ è una caduta di poliedricità e di organicità: una privazione di fisicità e sensorialità è inferta al linguaggio.

Perché c’è un paradosso che da qualche tempo mi sorprende. La telematica rappresenta, fa presente, il lontano, si fa visione del lontano (tele-visione), insomma rende prossimo l’assente. E poi, in fondo, quel- lo che fa anche la scrittura, che fa la poesia: rendere prossimo l’assente, dare forma, parvenza, all’invisibile, al lontano. Dov’è, allora, la differenza? Il lontano – il tele – della telematica, così come il corpo virtuale, definisce l’immagine, cioè la sua forma è parvenza definita, circoscritta, imprigionata. Il corpo è la recinzione di un corpo assente, i sensi sono un’attivazione immateriale dei sensi. La lontananza, proprio mentre promette di farsi visione (tele-visione), perde se stessa come lontananza.

Il procedimento della poesia è opposto: fondato com’è sull’astrazione simbolica della lettera, e sulla fisicità del suono, della voce, del ritmo, non imprigiona e definisce l’immagine; il lontano respira come lontano (anzi il vago, lontano, indefinito, può essere—pensiamo appunto a Leopardi — ragione di poetica). Dal suono alla lontananza. C’è un suono della lontananza: nel ritmo, nel verso, nei silenzi che li costruiscono. Pensiamo al leopardiano idillio L’infinito: l’estremo della lontananza, la sua inconfigurabilità, che ha il nome di infinito, è qui radicato nel limite («questa siepe»), è vincolato a «questa voce», alla voce del vento tra le piante, al suo stormire. La finzione della lontananza («interminati spazi», «sovrumani silenzi», «profondissima quiete») porta con sé, come suo stesso respiro, quel limite. Il non poter dire finito, e dunque il naufragio della rappresentazione, e della lingua poetica stessa che ha tentato l’avventura della rappresentazione, è radicato nella corporeità, avviene nel sentire, che è anche pensiero («io nel pensier mi fingo»). C’è solo un relitto, un resto, di questo naufragio della rappresentazione, questa impossibilità di dire l’infinito : è quel «dolce» dell’ ultimo verso («e il naufragar m’ è dolce in questo mare»), che corrisponde al resto di leggerezza tutta sensibile che c’è nell’ ultimo verso di Aspasia («il mar la terra il ciel miro e sorrido»).

«Non sopprimere la lontananza» era una frase di René Char; una sorta di invito, una dichiarazione di poetica. Si deve tenere aperta la lontananza, appena i suoi scintillamenti ci hanno dato l’illusione di una prossimità. Insomma non fare della presenza una protezione. Continuare l’erranza, appena intravista la dimora. Nomadismo dei sensi. La poesia, per sua natura, è nomade. Non a caso è fondata sulla metamorfosi, e sulla metafora (L’Étranger, in Baudelaire: «J’aime les nuages... le nuages qui passent... là-bas... là-bas... les merveilleux nuages»).

 

Per una microfisica della lingua Poetica: passaggi

 

Physis e parola

Physis nella parola. La natura è dentro la parola stessa, non sorgente della rappresentazione, paesaggio esterno che la lingua interiorizza. La natura è nella parola come ritmo, come voce, come aria.

Physis della parola. Su questo, riandare a Vico, al secondo libro della Scienza nuova, che declina il sapere a partire dalla designazione del ‘poetico’, cioè della ‘conoscenza’ per via fantastica. E vede il legame tra il poetico e l’origine, tra il poetico e il corpo. Riflessioni vichiane sulla ‘fisica poetica’: nascita del linguaggio, dei tropi, nascita del verso.

 

Metafora

Ancora René Char: «Gli dei abitano la metafora». Presenza che disloca il senso: presenza dell’oltre nel limite. Sfida e oltrepassamento. Gli dei della metafora sono il cielo di una lontanissima età: il mito è detto con una lingua corporale. Un passaggio di vento era una atto di conoscenza, l’incorruttibile e il mortale, la materia e il movimento cercavano una lingua dei sensi. Relazione tra il senso del vivente proprio degli antichi e il senso del leopardiano Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica... quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono, e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volere favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni...».

Ancora nel mito, nel regno della sua implicazione fisica, corporea. Frammento 51 del Poema fisico di Empedocle: «il sole dalle pungenti membra e la benevola luna». Corporeità fantastica delle cosmogonie classiche. Maschile e femminile all’origine di un passaggio: dalla physis alla hermeneia. L’interpretazione della natura muove da un campo biologico, da antropomorfismi quotidiani.

Nella metafora, nei suoi procedimenti, nella sua na- tura, c’è traccia di questa lettura e interpretazione del mito, o almeno della relazione tra il mito e il linguaggio (ancora la vichiana relazione tra mythos e logos?). Nella metafora ci sono le tracce dell’intesa tra il vivente e il linguaggio. Per Vico la tentata riduzione del mondo ai sensi, e la descrizione delle cose a partire dall’universo corporale, sono i due movimenti con i quali il linguaggio si costituisce, la conoscenza si forma. Il corpo come recinto di una mutazione del vivente sensibile nel vivente linguistico, ma anche come opaca transenna che divide l’enigma della physis dalla sua morfé, dalla sua apparenza, dal suo mostrarsi, e separa l’energia dell’universo dalla sua lingua. Le ‘cose insensate’ da una parte e il senso e la passione dell’ uomo dall’altra si incontrano nello specchio del corpo. Ma in quello specchio si riflettono anche, in una vertigine d’angoli e di colori, le figure sfuggite all’oblio. Irriconoscibili. Inappartenenti.

 

Respiro, ritmo, cesura

Il respiro, l’aria, l’etere che Hölderlin nell’inno An den Aether chiama «die beseelende Luft», aria animatrice, che scorre in tutte le vene, ed è lingua, poesia. Aria, etere, cielo. «Fu a’ poeti il primo cielo non più in suso delle alture delle montagne», leggiamo in Vico (è ancora da scrivere una storia del cielo, della sua rappresentazione nella cultura occidentale).

«Tutto è ritmo», ripeteva spesso Hölderlin, come riferisce Bettina Brentano raccontando uno dei colloqui col poeta nella Torre. Quanto alla cesura nel verso, Benjamin proprio interpretando Hölderlin, vede nella cesura l’irruzione di un altro tempo, di un tempo che non ha l’incarità della storia, ma è il riverbero di un silenzio che è radice e anima della lingua (interruzione del tempo in cui s’affaccia un altro tempo).

Una meditazione sulla fisicità (‘eraclitea’) della lingua poetica attraversa le pagine che in più occasioni Char ha dedicato al suo poeta, Arthur Rimbaud, ripensiamo ad alcuni passaggi.

La vita e il tempo sono nel ritmo stesso della poesia, sono della poesia il suo «presente perpetuo».

Il verso non è un tramite, un passaggio; è il suono del tempo, il suono della vita.

La natura è non solo materia e luce della poesia: è anche il legame, nascosto nel verso, tra il corpo del poeta e il ritmo.

Il faut être absolument moderne: passato o futuro, ritorno o attesa sono aboliti nella poesia, ogni tempo che sorge nell’arcobaleno della poesia si fa presenza, si fa tempo presente, il prima e il dopo sono trasformati in respiro della sillaba, in suono del verso.

Char rifletteva su questo a proposito di Rimbaud o dialogando con Heidegger proprio circa le possibili interpretazioni da dare a una frase di Rimbaud («La Poésie ne rhythmera plus l’action; elle sera en avant»). Ma la stessa poesia di Char è una straordinaria esperienza ‘fisica’ della parola, e insieme è una meditazione sulla ‘fisicità’ del linguaggio.

 

Voce

La voce, nella scrittura, è il vento che muove le lettere, l’aria che le abita. Il timbro perduto di colui che ha scritto, e il timbro mentale di colui che legge, cercano di dare un suono, e un corpo, a questa voce. E quanto resta della vita nell’inerte astrazione della scrittura. E quanto basta per avvivare la cenere del senso. Per poter veder nell’area della lingua il pulviscolo di ciò che è stato. Che più non torna. Nella scrittura la voce è custodita, tenuta in un silenzio dal quale il lettore la risveglia.

 

Vocali

Le vocali: scorrono nel corpo della lingua come il sangue nelle vene. L’immagine è di Leopardi: «io son certo che gli antichi orientali, o i primi inventori dell’alfabeto, non si immaginarono che i suoni vocali fossero così pochi, e tanto minori in numero che le consonanti. Anzi dovettero considerarli come infiniti, vedendo che essi animavano per così dire tutta la favella, e discorrevano incessantemente per tutto il corpo di essa, come il sangue per le vene degli animali. O pure (e questo credo piuttosto) non li consideravano neppure come suoni, ma come suono individuo, e questo infinito e indeterminato e indivisibile, come appunto immaginarono gli antichi filosofi quello spirito animator del tutto che totam agitam molem, et toto eo corpore miscet (Zib., 2404,29 aprile 1822).

Il segno grafico delle vocali raccolto in un punto, come accade nella lingua ebraica, la conseguente indeterminatezza fonetica delle vocali nella scrittura, aprono il Libro alle modulazioni del canto e alla variazione del senso. Una sorta di esegesi musicale, per la quale l’interpretazione del testo è varco per le variazioni dei sentimenti. Un frammento di Edmond Jabès: « ‘L’anima nostra è un nido di vocali. C’è un uccello all’origine dell’infinita lettura del mondo’, diceva ancora» (Il libro della sovversione non sospetta).

La lingua del poeta è lingua di vocali, come la lingua della madre rivolta al bambino, anch’essa lingua vocalica. Per questo la poesia è «parlar materno». L’etimologia dantesca di autore non da auctor ma da autor, e dunque da avieo (a-u-i-e-o, cioè lego, tengo insieme), raccoglie le vocali in un verbo che dice nello stesso tempo la composizione, il canto, la partenza del poeta alla lingua della madre («il miglior fabbro del parlar materno»). Lingua vocalica come lingua non dell’autorità (auctor), della legge, della istituzione, ma lingua del canto, della invenzione del canto.

Relazione tra le vocali e il vocativo: appello, tu confidenziale, apostrofe, eco che fa rimbalzare dalla roccia i nomi liberati dai nessi e dai significati. E ancora, legame tra vocale e vocabolo (in Mallarmé, il vocable è altro dalla parola, è unità elementare e pura del dire, designazione del nesso che unisce la voce con il nome, invocazione della parola da parte della cosa). Infine relazione tra le vocali e la vocazione: vocazione come movimento verso il dire, in cui consiste il poetico (da Hölderlin a Rilke a Celan la poesia ha rappresentato, nel suo stesso farsi, nelle figure del suo pensiero, e dei suoi ritmi, questo movimento: è questa una tradizione che attraversa il moderno, dal suo rapporto col sacro perduto al suo rapporto col tragico vissuto).

 

La poesia, il corpo

 

Torniamo al corpo, al corpo dinanzi alla poesia, al corpo della poesia. Non il corpo glorioso, ma il corpo imperfetto, sofferente, è oggi termine di confronto (L’imperfection est la cime è il titolo di una bella poesia di Yves Bonnefoy dedicata al lavoro del linguaggio, e dell’arte).

Persino l’osservazione dei corpi celesti, dopo Galileo, ha cancellato l’illusione di una cosmografia come luogo della perfezione, come rinascimento della imperfetta terrestre geometria. Straordinaria la narrazione scientifica e poetica del Sidereus Nuncius di Galileo. La luna «disuguale, scabra, ripiena di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra».

Analogia, da quel momento, dei corpi celesti con la terra. Critica della perfezione ‘altra’, critica dell’altrove. Critica del cielo, della sua perfezione assoluta (a proposito, ancora, di una storia del cielo).

Il corpo sofferente, oggi. Non il corpo glorioso oggi si impone alla nostra vista, o meditazione, o scrittura. La scrittura come può dire il corpo sofferente? Come può dire il tragico? La poesia non redime, non assolve, non distrae. Mostra soltanto, porta sopra di sé i segni. La parola che nomina il corpo sofferente attinge l’indignazione e il grido. Diventa parola della sovversione. «Non si racconta Auschwitz; ogni parola lo racconta», scrive Jabès. Sovversione del senso nell’ordine della lingua. La poesia è sempre cognizione del dolore. Su Celan ancora Jabès: «La sfida al carnefice è altrove: è nella lingua stessa della poesia di Celan. Una lingua che egli ha innalzato alle vette più alte. La lotta co- stante che ogni scrittore ingaggia con le parole per costringerle a esprimere toccando la massima profondità, questa lotta nessuno più di Paul Celan l’ha vissuta così disperatamente, nella sua carne: doppiamente vissuta. Saper glorificare la parola che ci uccide. Uccidere la parola che ci salva e ci glorifica [...]. Dialogo silenzioso attraverso le parole: parole leggere come uccelli avventurosi e liberi mentre nel cielo si raccoglie tutta la gravità del mondo [...] parole come ceneri di un interminabile giorno di orrore di cui resta soltanto l’immagine insostenibile di un fumo rosa sopra milioni di corpi bruciati...» (E. Jabès, La memoria delle parole, trad. C. Agostini).

 

Per finire il Baudelaire di Un voyage à Cythère

 

Il poeta, in viaggio verso l’isola della perfezione, della bellezza. Sotto un cielo splendente, ecco, ora che la nave si fa prossima all’isola, «un gibet à trois branches»: un patibolo. Nell’azzurro questa croce del supplizio si leva come la negazione dell’azzurro, come la sua offesa: «du ciel se détachant en noir, comme un cyprès». Gli uccelli feroci, intorno al corpo già straziato. Citera non è più l’isola del mirto verde, l’Eldorado banale di impenitenti amanti, non è la terra che onora l’icona di Venere . L’approdo a Citera è la lacerazione del sublime: nell’isola si leva la verità del corpo straziato. Il nostro tempo, il tragico del nostro tempo, è anch’esso in questa allegoria.

Leggo gli ultimi versi della poesia di Baudelaire (in una mia traduzione):

 

Il cielo era splendente, il mare in armonia,

ma ormai per me tutto era sanguinoso e mortuario, 

ed avevo aihmé come dentro un grosso sudario 

il mio cuore sepolto in questa allegoria.


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