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WOLE SOYINKA
DUE POESIE
 
a cura di Alessandra Di Maio *
 
Il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka è stato l’ospite d’onore dell’undicesima edizione del Festivaletteratura di Mantova nel settembre 2007. Per l’occasione ha letto un brano della sua ultima opera autobiografica, Sul far del giorno (Frassinelli 2007), tradotta e curata da Alessandra Di Maio, e due tra le sue poesie più rappresentative, la celebre «Conversazione telefonica«, componimento giovanile ampiamente antologizzato in diverse lingue, e «I figli di questa terra«, tratto dalla sua ultima raccolta Samarkand and Other Markets I Have Known (2002), inedita in italiano. Proponiamo le due poesie, che idealmente coprono l’arco della produzione poetica di Soyinka, affiancando all’originale la traduzione inedita di Alessandra Di Maio presentata al festival di Mantova.

TELEPHONE CONVERSATION

The price seemed reasonable, location
Indifferent. The landlady swore she lived
Off premises. Nothing remained
But self-confession. «Madame,» I warned,
«I hate a wasted journey—I am African.»
Silence. Silenced transmission of
Pressurized good breeding. Voice, when it came,
Lipstick coated, long gold-rolled
Cigarette-holder pipped. Caught
I was, foully.
«HOWDARK?»... I had not misheard... «ARE YOU
[LIGHT
OR VERY DARK?»Button B. Button A. Stench
Of rancid breath of public hide-and-speak.
Red booth. Red pillar box. Red double-tiered
Omnibus squelching tar. It was real!
Shamed By ill-mannered silence, surrender
Pushed dumbfoundment to beg simplification.
Considerate she was, varying the emphasis —

 «ARE YOU DARK?OR VERY LIGHT?» Revelation

[came.
«You mean — like plain or milk chocolate?»
Her assent was clinical, crushing in its light
Impersonality. Rapidly, wave-length adjusted,
I chose. «West African Sepia» — and as afterthought,
«Down in my passport.» Silence for spectroscopic
Flight of fancy, till truthfulness clanged her accent
Hard on the mouthpiece. «WHAT’S THAT?» conceding
«DON’T KNOW WHAT THAT IS.»«Like brunette.
« «THAT’S DARK, ISN’T IT?» «Not altogether.
Facially, I am brunette, but madam, you should see
The rest of me. Palm of my hand, soles of my feet
Are a peroxide blonde. Friction, caused —
Foolishly madam — by sitting down, has turned
My bottom raven black — One moment madam!» —
[sensing
Her receiver rearing on the thunderclap
About my ears — «Madam,» I pleaded, «wouldn’t you
[rather
See for yourself?»



Conversazione telefonica


Il prezzo sembrava ragionevole, il posto
poco importava. La padrona di casa giurava
di abitare altrove. Non rimaneva
che auto-confessarsi. «Signora», la misi in guardia,
«Detesto fare viaggi a vuoto: sono africano».
Silenzio. Comunicazione silenziata
dalla pressione della buona educazione. La voce, quando
[giunse,
ricoperta di rossetto, la sigaretta nel bocchino
d’oro laminato, pigolava. Fui colto ignobilmente alla
[sprovvista.
«QUANTO È SCURO?«…Non avevo sentito male….
[«È CHIARO
O È MOLTO SCURO?»Tasto B,tasto A.Tanfo
d’aria rancida di nascondiglio telefonico pubblico.
Cabina rossa. Cassetta rossa per le lettere. Autobus rosso a
[due piani
calpestapece. Diceva sul serio! Imbarazzato
dal silenzio scortese, m’arresi
stupito e chiesi un chiarimento.
Garbata lo era senz’altro: spostò l’enfasi.
«È SCURO? O MOLTO CHIARO?».Sopraggiunse la
[rivelazione.
«Intende dire, come cioccolato fondente o al latte?».
L’assenso fu clinico, schiacciante nella sua leggerezza
impersonale. Con rapidità, trovata la lunghezza d’onda,
mi decisi. «Seppiato africa-occidentale»; poi, quasi
[ripensandoci,
«Come nel passaporto». Silenzio, volo spettroscopico
dell’immaginazione, finché l’accento della verità non
[risuonò
chiaro e metallico nella cornetta. «CIOÈ?«, che
[sottintendeva:
«NON HO IDEA DI COSA VOGLIA DIRE».«Moro, più
[o meno».
«ALLORA È SCURO, NO?»«Non del tutto.
In viso, sono moro; però, signora, dovrebbe vedere
il resto. Il palmo della mano, le piante dei piedi
sono di un biondo ossigenato. Lo sfregamento, causato
che assurdità, signora– dallo stare seduto, mi ha reso
il fondoschiena nero corvino… Un momento, signora!»,
[sentii
il ricevitore pronto a tuonarmi
sulle orecchie. «Signora», chiesi, «non preferirebbe
[accertarsi di persona?»
 


 


The children of this land

(tratto da: Samarkand and Other Markets I Have
Known, Lagos, Crucible, 2002)

The children of this land are old
Their eyes are fixed on maps in place of land
Their feet must learn to follow
Distant contours traced by alien minds
Their present sense had faded into past.
The children of this land are proud
But only seeming so.
They tread on air but
Note– the land it was that first withdrew
From touch of love their bare feet offered, Once,
It was the earth of their belonging,
Their pointed chins are aimed,
Proud seeming, at horizons filled with crows,
The clouds are swarms of locusts.
The children of this land grow the largest eyes
Within head sockets.
Their heads are crowns
On neat fish spines, whose meat has passed
Through swing doors to the chill of conversation
And chilled wine. But the eyes stare dead.
They pierce beyond the present through dim passages
Across the world of living.
These are the offspring of the dispossessed,
The hope and land deprived. Contempt replaces
Filial bonds. The children of this land
Are castaways in holed crafts all tortoise skin
And scales- the callus of their afterbirth,
Their hands are clawed for rooting, their tongues
Propagate new social codes, and laws.
A new race will supersede the present - 

Where love is banished stranger, lonely
Wanderer in forests prowled by lust,
On feral pads power,
Where love is a hidden, ancient ruin, crushed
By memory, in this present
Robbed of presence. But the children of this land embrace the void
As lovers. The spores of their conjunction move
To people once human spaces, stepping nimbly
Over ghosts of parenthood. The children of this land
Are robed as judges, their gaze rejects
All measures of the past. A gleam
Invades their dead eyes briefly, lacerates the air
But with in on sole demand:
Who sold our youth?
I figli di questa terra

I figli di questa terra sono vecchi
con lo sguardo fissano carte geografiche, non la terra
coi piedi hanno imparato a seguire
contorni lontani tracciati da menti aliene,
con loro il senso del presente svanisce nel passato.
I figli di questa terra sono fieri
ma solo in apparenza. Camminano per aria ma
sia chiaro: fu il suolo per primo a ritrarsi
dal contatto amoroso dei loro piedi nudi. Un tempo,
la terra era loro appartenenza.
Coi menti levati,
con aria fiera, protendono verso orizzonti di corvi.
Le nuvole brulicano di locuste.
Ai figli di questa terra gli occhi crescono immensi
nelle orbite. Le teste sono corone
sopra lische di pesce spinato, la cui polpa ha attraversato
porte a vento posandosi al centro di chiacchiere fredde
e vino fresco. Ma sono occhi che fissano il vuoto,
oltrepassando il presente, penetrando i varchi oscuri
del mondo dei vivi.
È la progenie degli spodestati,
spogliati della speranza e della terra. Lo spregio supplisce
i legami filiali. I figli di questa terra
sono naufraghi dentro scafi perforati, tutti pelle di
[tartaruga
e squame, callosità della placenta andata.
Nelle mani hanno artigli per radicarsi, con le lingue
divulgano nuove leggi e codici sociali.
Una razza nuova si sostituirà all’attuale

in cui l’amore, bandito come estraneo, vaga
solitario tra foreste perlustrate per brama,
seguendo le orme ferali del potere;
in cui l’amore è un rudere d’altri tempi, isolato, calpestato
dalla memoria, in questo presente
derubato di presenza.
Mai figli di questa terra stringono tra le braccia il vuoto
come amanti. Le spore della loro unione continuano
a popolare spazi un tempo umani, aggirando agili
i fantasmi della paternità. I figli di questa terra
vestono la toga dei giudici, con lo sguardo rigettano
i metri del passato. Un barlume
invade fugace i loro occhi spenti, lacera l’aria
con solo una domanda:
Chi ha venduto la nostra giovinezza? 


*Alessandra Di Maio insegna all’Università di Palermo ed è attualmente Visiting Professor all’Università della California di Los Angeles. Si occupa di studi postcoloniali, migratori e della diaspora, in particolare nell’ambito dell’africanistica. Tra gli scrittori africani da lei tradotti in italiano Wole Soyinka e Nuruddin Farah.

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