« indietro Un sistema chiuso? Inchiesta sul mandato sociale di Francesco Stella
A questa inchiesta i poeti interpellati, nomi fra i più illustri della poesia mondiale, hanno risposto con una generosità e una disponibilità che ci onorano, consentendoci di raccogliere un dossier che alcuni hanno già proposto di valorizzare in un volume autonomo, e che comunque già in questa forma rappresenta uno strumento inedito e prestigioso, per gli autori coinvolti, sul problema del mandato sociale e in generale sullo stato di autocoscienza del poeta all’inizio del XXI secolo. Ci spiace anzi di non aver fatto in tempo a ricevere le testimonianze in proposito di poeti arabi e del poeta coreano Ko Un, che contiamo di integrare nei prossimi numeri e nell’eventuale volume, ma siamo orgogliosi di aver messo «Semicerchio» al servizio di interlocutori così nobili, e di ospitare contributi che, specialmente in casi come quelli di Bonnefoy e Deguy, si estendono al respiro di veri e propri, preziosissimi saggi.
Sul merito della questione si è espresso lo stesso Mazzoni nella postfazione che chiude il dossier, mentre noi abbiamo avuto occasione di soffermarci più diffusamente nell’intervento al convegno Absent Canons che si è tenuto a New York il 27 e 28 ottobre scorsi. Il materiale consente e anzi richiede ulteriori riflessioni. In questa sede basterà limitarci a registrare l’impressione che la reazione dei poeti, pur con tutte le differenze specifiche e perfino gli apparenti contrasti dettati dalle rispettive sensibilità ed esperienze, sia stata relativamente unitaria e appassionatamente documentata: schematizzando formulazioni assai approfondite e sofisticate, ci è parso che tutti condividano una sostanziale diffidenza nei confronti di sollecitazioni relative al ruolo sociale del poeta. Alcuni hanno contestualizzato più lucidamente la questione nell’alveo culturale da cui è sorta, altri l’hanno diversamente interpretata, e forse fraintesa, come invito a un ritorno verso l’impegno sociopolitico, ma tutti hanno negato che il «mandato sociale» rappresenti un problema che ha realmente senso porre alla scrittura poetica in questo periodo. Le risposte dei poeti ricordano che la poesia non ha mai avuto molti lettori, e che tuttavia essa è comunque un fenomeno sociale, nel senso che dialoga e interagisce con la società indipendentemente dal tasso di comunicatività del proprio linguaggio, e si richiamano spesso alla testimonianza sulla durata del canone letterario come prova della indipendenza del testo dal controllo sociale. Non ci si è resi conto, a mio avviso, che «mandato sociale», in inglese e italiano ancor più che nell’originale tedesco, è un concetto che riguarda non il ruolo civile ma la rappresentanza sociale del poeta. Il problema non è quanto il poeta sia o si senta nella sua scrittura in sintonia o in dialogo con la società o la realtà storica, ma quanto la società riconosca alla figura del poeta la funzione di espressione di sentimenti e linguaggi collettivi e di valori simbolici identitari. Una domanda quindi che forse andava posta a chiunque tranne che ai poeti, e che i poeti sostanzialmente squalificano come impropria. Questa percezione è salutare per quello che riteniamo un progresso nell’analisi della questione: senza togliere alcun peso alla constatazione «scientifica» con cui Mazzoni osserva con chiaroveggenza un mutamento oggettivo di paradigma culturale che è inutile dissimulare, questo dossier la contestualizza come scrupolo interno a una certa cultura – dalla scuola di Francoforte a un Bourdieu che in Italia stenta a trovare applicazioni all’altezza del suo ingegno – e in fondo non «necessario» alla comprensione dell’universo poetico. Questa reazione spinge cioè a pensare che la ricostruzione a posteriori di epoche in cui al poeta era riconosciuto un mandato sociale, e quindi la loro contrapposizione a un tempo in cui questo non avviene più, siano orientate da presupposti non dimostrati e forse in parte illusorii. Dovremmo accettare allora l’idea che, almeno secondo i poeti, la poesia è sempre stata una istanza elitaria e relativamente autonoma del sistema sociale, o almeno ha sempre creduto di esserlo per poter preservare il carisma di cui gode, e ha sempre funzionato secondo logiche specifiche, o almeno ha creduto di farlo. Questa fede nella libertà della poesia, per quanto essa rischi di essere mistificante, è necessaria alla sua mitizzazione, e la società ne ha riconosciuto la fondatezza attribuendo alla poesia il valore di capitale simbolico che ancora viene trasmesso dall’educazione scolastica. Finché questo rapporto di fiducia durerà, anche solo per inerzia, la poesia non avrà bisogno di un riconoscimento sociale esterno all’istituzione scolastica.
Eppure, paradossalmente, la reazione dei poeti, che giustamente Mazzoni ha definito «corporativa», è proprio quella che Bourdieu raccomandava nella pagina finale di Le regole dell’arte: nella previsione di un tempo che tende a limitare e poi escludere la partecipazione degli scrittori al dibattito pubblico per l’«ingerenza dei detentori del potere sugli strumenti di circolazione» il sociologo francese invitava i «produttori» di letteratura all’unità nella difesa dei propri interessi specifici, imponendosi come «potere internazionale di critica e di vigilanza, quando non di proposta, contrapposto ai tecnocrati», sviluppando una sorta di «corporativismo dell’universale». Forse, inconsciamente, i poeti hanno già cominciato a percepire questa necessità.
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