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« indietro Fra poesia e prosa. L’esperienza di quattro poeti
Antonella Anedda, Stefano Dal Bianco, Alessandro Fo, Antonio Prete
incontro coordinato da Laura Barile
Siena, 12 giugno 2012
trascrizione e cura redazionale degli interventi di Camilla Panichi
1.
Laura Barile: Questa tavola rotonda costituisce la lezione conclusiva dell’ultimo corso da me tenuto all’università di Siena. L’incontro con quattro poeti scelti fra quelli di cui abbiamo parlato nel corso conclude il lavoro svolto sulla poesia contemporanea, in particolare su alcuni autori della generazione successiva a quella di Vittorio Sereni e di Andrea Zanzotto. Questi due ‘padri’ costituiscono un modello e un confronto ineludibile per i loro successori: alcune loro caratteristiche rappresentano due diverse linee di tendenza. Di Zanzotto abbiamo rilevato il processo di rottura degli schemi formali, con le sue soluzioni linguistiche e prosodiche azzardate e nuove, mentre abbiamo letto Sereni soprattutto alla luce del rapporto tra poesia e prosa, e della immissione sempre più massiccia della prosa nella sua poesia: una tendenza destinata a crescere nei poeti delle generazioni successive.
Oggi, in questa lezione-incontro che conclude il nostro lavoro sul rapporto fra prosa e poesia nella produzione poetica del nuovo millennio, abbiamo dunque il piacere di avere qui con noi quattro poeti: Antonella Anedda, Stefano Dal Bianco, Alessandro Fo e Antonio Prete. Mi è piaciuto infatti prendere congedo dai carissimi studenti mettendoli direttamente a contatto con alcuni poeti in carne e ossa, di età non poi così lontana da loro, in parte presenti, peraltro, in questa università nel ruolo di insegnanti. Dagli studenti, ma anche dai colleghi che vedo qui, forse incuriositi dall’azzardo di mettere tanta (troppa?) carne al fuoco, spero una partecipazione attiva: che costituisce una parte di non minore importanza sul senso di questo incontro.
Il corso avrebbe potuto intitolarsi «La poesia verso la prosa», come recita un libro di Alfonso Berardinelli[1] che abbiamo adottato: oppure, in modo forse criptico ma anche umoristico, Prosa in prosa, antologia di autori recentissimi[2], anch’essa adottata nel corso, che dal poema in prosa arriva al rap.
Ma durante il corso un secondo tema era venuto emergendo fino a intrecciarsi a questo: il tema della traduzione, nonché della imitazione e appropriazione dei propri Maggiori, dei propri Phares: come i Cahiers di Paul Valéry per Magrelli, certi romantici tedeschi o russi per la poesia di Antonella Anedda (e penso al suo bellissimo libretto Nomi distanti), i poeti barocchi europei per Patrizia Valduga – per non parlare di Rutilio Namaziano e della traduzione appena uscita dell’Eneide di Alessandro Fo, cui forse qualcosa deve anche la sua poesia…
C’è un nesso fra i due temi? Forse no, o almeno non in modo evidente: ma spesso il fare poesia è accompagnato, o addirittura anticipato, dal tradurre poesia, e la scelta della versificazione, sia libera che in forma chiusa, o viceversa della prosa, ha a che fare anche con questo. Nel riproporre l’incontro così come si è svolto, con l’alea di qualche approssimazione ma con la vivezza del parlato e del vissuto, abbiamo preferito non introdurre paletti o divisioni fra i due temi: che restano dunque un po’ fluidi e oscillanti, ma producono talvolta ipotesi interessanti, che potrebbero essere riprese e approfondite in una prossima occasione.
Come sappiamo, a un certo punto del secolo scorso, e in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, i pittori smettono di dipingere. A partire dall’astrattismo, passando per l’informale, si nota un’aggressione alla pittura intesa come mimesi del mondo fisico, e si passa a una dimensione che privilegia lo spirituale nell’arte, come diceva Kandinskij all’inizio del secolo, che approderà agli happenings e alle performances e installazioni di oggi. In poesia invece si hanno contemporaneamente due diverse soluzioni: da una parte una chiusura formale molto rigida, che recupera le forme chiuse, come nella poesia di Gabriele Frasca, Patrizia Valduga e altri. Chiusura della forma che può essere vissuta come protezione dalla violenza del mondo contemporaneo (pensiamo ai Sonetti dell’anniversario o ai Lamenti di Caproni), ma che spesso, nella poesia delle generazioni successive, viene usata come citazione ironica, tra virgolette diciamo, della tradizione. L’altra e opposta soluzione è invece il passaggio a una particolare specie di prosa, una prosa che prende il posto della poesia – ma non è esattamente quello che fra le due guerre si definiva «prosa poetica». Sembra che, come a un certo punto non è stato più possibile scrivere la rima «fiore: amore» (a parte Saba), oggi non sia più possibile scrivere poesia; la prosa sembra invadere il mondo e forse, probabilmente, esprime meglio l’esperienza e la condizione umana.
Anche la musica, infine (anzi per prima!), dopo la sperimentazione e l’astrazione matematica della Neue Musik ha recuperato oggi il rumore del mondo, e sperimenta mescolando tradizione e azzardo, suono e video. In realtà gli steccati fra le varie arti sono saltati, o almeno sono molto allentati e quasi presi in ostaggio dalle nuove tecnologie: come definire per esempio un artista come Bill Viola? Insomma, ci domandiamo se dalla prosa al video e alla performance forse la strada non sia breve…
Prima domanda: la propria formazione, l’emergere della scrittura poetica e il rapporto tra poesia e prosa
Barile: Vorrei per prima cosa partire dall’esperienza reale e dalle motivazioni individuali e collettive che spingono un artista prima di tutto a vedersi come tale e in secondo luogo (o forse contemporaneamente) a scegliere un determinato percorso.
Seconda domanda: il senso e il peso del tradurre
Barile: Usando una formula di Antonio Prete, la seconda domanda riguarda «lo stare fra le lingue», che è la prassi del traduttore. Ci sono vari gradi di approssimazione ai testi di un altro poeta: dalla traduzione letterale, alla rievocazione, alla scrittura ‘alla maniera di’, al plagio vero e proprio magari con senso rovesciato. Sono forme d’innamoramento della poesia altrui e di altri autori, letture appassionate che generano altre scritture.
Qui oggi, con i nostri quattro poeti, abbiamo esempi diversi di accostamento ad altri poeti e di modi di «stare fra le lingue»: hanno essi forse a che fare, si possono connettere al discorso della scelta delle forme chiuse o, viceversa, della prosa?
Diamo la parola per prima ad Antonella Anedda: qual è stato e come è avvenuto il suo avvicinamento alla poesia, alla prosa e ad altre forme di convivenza con il ‘poetico’?
Anedda: In realtà io ho iniziato dalla prosa. Scrivere poesia per la mia generazione era considerato non politicamente appropriato: era l’equivalente dell’essere longhiani, effusivi, ecc. A me Longhi piaceva, ma ho scelto di studiare iconologia; mi appassionavano il rigore storico, la scoperta della committenza, le ricerche in archivio. Era possibile seguire delle piste e ricostruire un mondo. Mi sono ritratta a lungo dallo scrivere poesia. Ho iniziato scrivendo di arte (veneta in particolare), e poi sono passata a scrivere recensioni a mostre per «Il Manifesto». Parallelamente però, a tredici anni, avevo un quaderno su cui appuntavo indifferentemente versi e brani di prosa che di volta in volta mi colpivano. Non scrivevo nulla di mio, ma credo che quei collages abbiano influito a posteriori. Il mio primo libro, Residenze invernali[3], è fatto di prose e di poesie, non prose liriche alternate a poesie, ma prose da cui si sono staccate delle poesie. La prosa era il tetto e la poesia il pilastro. Mentre scrivevo prosa a un certo punto ha cominciato a rintoccare qualcosa, forse quello che Cicerone chiama il cantus obscurior: c’era un ritmo che spezzava (per il mio sguardo e il mio orecchio) l’assiepamento della prosa. Sulla banchina della prosa si sono in un certo senso abbattuti, scomposti e ricomposti, dei versi, proprio come succede all’acqua.
Credo che il mio rapporto con la prosa passi anche attraverso lo sguardo: il disporsi delle parole sul foglio ha obbedito a un’esigenza di spazio, architettonica, di vuoti e pieni. Detto questo, ho sempre pensato che la poesia sogni il sogno della prosa e che la prosa sogni il sogno della poesia. Non riesco a vederle così in contrapposizione.
So, leggendo e rileggendo ad alta voce, a cosa ubbidire, a quel canto ‘obscurior’ di cui parla Cicerone e che c’è anche nel nostro parlare, nei nostri gesti quotidiani. Non ci sono rime in quello che scrivo perché la rima almeno in italiano non mi appartiene. Lavorando sul sardo ho capito che nelle orecchie ho quel ritmo così vicino al latino dove infatti non ci sono rime.
Barile: Anche in Sereni il sogno della prosa è molto presente, ed è molto vero che le due modalità non sono poi così contraddittorie.
Mi interessa molto però anche il tuo legame con lo sguardo e ciò che tu hai definito ‘il ritmo’. Il tuo libro La vita dei dettagli[4] è interamente formato sullo sguardo; è il racconto di un dettaglio del quadro (in termini tecnici una ekfrasis), che si stacca dall’insieme e acquisisce non soltanto un valore in sé, disgiunto dal tutto di cui faceva parte, ma anche per chi lo osserva. Nel libro si concentrano e agiscono elementi che appartengono a diverse sfere sensoriali: lo sguardo, la percezione, il ritmo, la musicalità, la pittura. Da questo punto di vista ci si può accostare al tema della traduzione, che è come una musica che si coglie in un altro testo e che poi viene ricreata nel proprio.
Anche nel tuo ultimo libro, Salva con nome[5], entrano molti elementi estranei: penso ad alcuni elementi visivi che sono già fotografie, elementi narrativi, paesaggi di altri paesi, il sentimento per la Russia, che è per te una sorta di seconda patria per somiglianza con la Sardegna. Hai inoltre collaborato con musicisti come Paolo Fresu e Dario Minciacchi per la scrittura di alcuni testi, o addirittura hai realizzato delle installazioni, quali solitamente arrivano a fare i pittori. Dunque nella tua attività artistica, di poeta, il contenitore si è molto aperto alle altre arti.
Anedda: La vita dei dettagli è nato da una committenza: l’editore Donzelli ha chiesto ai poeti della sua collana di scegliere un pittore e di raccontarlo. In realtà ho disubbidito, non ho scritto su un pittore, ma ho dissotterrato quello che è il terrore di ogni studente di storia dell’arte, il riconoscimento del dettaglio per capire la sua realtà, quel cenno di cui Daniel Arasse scrive in Le détail[6], quando dice che il dettaglio ‘ci chiama’. Per vederlo davvero noi dobbiamo avvicinarci, disobbedire (non a caso se ci avviciniamo troppo suona l’allarme) alla visione d’insieme. Partendo da questa realtà ho fotografato in vari musei i dettagli che più mi colpivano e ho immaginato per ognuno di loro una storia e ho dato al lettore degli indizi. Solo alla fine di questa prima sezione ho messo il nome del pittore e il titolo del quadro. Staccati dal loro contesto, questi dettagli erano altri quadri, altri mondi, assolutamente stranianti, fuori da ogni cliché.
Tu hai parlato di traduzione. In effetti credo di aver fatto in questo libro più un lavoro di traduzione che di descrizione. Soprattutto nell’ultima sezione ho cercato di tradurre un concetto come quello di ‘perdita’ attraverso dettagli concreti, relitti di oggetti, pezzi di stoffa, stralci di scrittura, resti di parole. Sono partita dai dettagli, da ciò che resta quando qualcuno non c’è più. Sempre più nel tempo ho maturato un’attenzione per le vite altrui: m’interessa vedere come il nostro destino si mischia a quello degli altri.
Cuci una federa per ogni ricordo, mettili a dormire…
Cuci una federa per ogni ricordo, mettili a dormire,
dai loro il sonno di un lenzuolo di lino.
L’edera rende la notte verde.
Una mela cade sull’erba ma tu imbastisci e cuci.
Servono aghi e forbici. Serve precisione.
(da «Cucire», in Salva con nome, p. 63.)
Barile: Questa poesia è bellissima, e su questo tema mi viene in mente una poesia del poeta brasiliano Carlos Drummond de Andrade, che dice: «Di tutto resta un poco…». Il tuo discorso così metaforico susciterebbe altre domande e curiosità, ma con un azzardo forse eccessivo abbiamo convocato troppi poeti… Dunque vorrei passare la parola ad Alessandro Fo e parlare delle sue traduzioni: il De reditu suo di Rutilio Namaziano, poeta dalla tarda latinità e, appena uscita, l’Eneide di Virgilio. Le traduzioni di Fo hanno la straordinaria capacità di rendere non tanto la metrica in maniera pedissequa e identica, quanto il ritmo del testo originale.
Nella sua raccolta di poesie Corpuscolo[7], non solo troviamo varie elaborazioni delle forme chiuse più difficili, come la sestina, ma anche una capacità di giocare con queste (come in Due di bozze), rivoltandole dall’interno o usandole in maniera delicata e raffinata: come fa quando si dedica alle traduzioni di grandi autori dell’antichità. Nel caso di Fo non c’è stata una par tenza dalla prosa – e neanche un approdo. Le forme principali con cui si è confrontato sono quelle chiuse della tradizione, della poesia e del teatro.
Possiamo partire da qui per un discorso sulla sua esperienza del verso rispetto alla prosa.
Fo: Non saprei connettere i due temi che Laura Barile ha lanciato per questo incontro, ovvero quello di prosa versus poesia e quello della traduzione. Il rapporto tra poesia e prosa nella letteratura contemporanea è un tema teorico molto impegnativo. Il tema della traduzione non riesco a raccordarlo con il precedente. Immaginavo che, forse, Laura Barile avrebbe voluto passare dal capitolo fondamentale della traduzione di Giudici dell’Onegin, che giace all’intersezione fra la ricerca della lirica e la ricerca della prosa. Per il momento però eviterei di parlare di traduzione, e della mia traduzione di Virgilio.
Se guardiamo le raccolte di Antonella Anedda, Stefano Dal Bianco e Antonio Prete scorgiamo, accanto all’‘andare a capo’ della poesia, alcune prose liriche. Sono l’unico, fra i poeti a questo tavolo, che non ha mai scritto poemetti in prosa o prose liriche. Non ci sono mai riuscito. È vero però che la mia vocazione stilistica tende spontaneamente, al di là di ogni inquadramento teorico, verso la prosa. Come spesso succede a molti, volontariamente o involontariamente cerco di bordeggiare la realtà, di riassorbire battute di dialogo carpite nella realtà dei giorni. Propendo spesso alla narrazione.
Quando un poeta si sente ‘prosastico’, pur nel la sua liricità, può reagire, come diceva Laura Barile, cercando di inventarsi delle forme che blocchino l’eccesso di deriva verso la prosa, che strutturino il testo in forma araldica e giustifichino la sua presenza in una raccolta di poesie. La poesia Voce con vista, nella raccolta Giorni di scuola[8], racconta un momento di un’esperienza giovanile, quando, iniziando il mio lavoro universitario, mi trovai a trasferirmi da Roma a Cremona. È una piccola narrazione, un micro-racconto in parte in versi, in parte pseudo-versi, della vita che si svolgeva nel condominio in cui vivevo. Dal momento che il tema della vista era centrale, per dare una forma al testo ho preso il noto distico di Montale «Ascoltare era il solo tuo modo di vedere. / Il conto del telefono s’è ridotto a ben poco» e ci ho costruito attorno un acrostico.
Appellandomi così alla voce di un poeta, e costruendo quella che era un’operazione poetica, ho creduto di poter limitare la prosaicità di un testo che potrebbe essere ritenuto una prosa lirica.
Voce con vista
(che di necessità qui si registra
Purgatorio, XXX 63)
Ascoltare era il solo tuo modo di vedere,
Sebbene nulla fra i colori della vita,
Come se visti, ti fosse precluso.
Ora te ne vestivi a Carnevale (Zorro,
La messicana) lungo il marciapiede
Tenendoti al minuscolo universo, dal panettiere
All’ottico Viola. Ora invece, confuso
Ricordo della luce dell’infanzia,
Erano verdi nella fantasia, e da lì alla Chiesa,
E da lì sopra i tetti di Cremona
Riuscivano allo smalto di una volta
Ai tempi del trompe-l’œil lungo il cortile,
Iridato frammento di tuo padre:
La neve a tonfi di falde dai crinali
Seppe, cadendo lungo i tetti, risparmiarlo;
Opaca indifferenza di un restauro,
La buccia inerte e screpolata di vernici
Ora l’ha spento. Però già, quasi amici,
Ti avevan fatto gli occhi da sipario.
Un tuo vicino di sopra, a ricordarlo,
Ornava bande magnetiche di voci
Mirabilmente (se una la sua cadenza) diverse
Ostinato a cucire alla memoria i versi
Di Dante, di Petrarca: il suo bisogno. Poi
Ogni nastro era un differente sogno
Disteso sul daffare quotidiano,
I piatti, i lunghi viaggi di lavoro…
Vivevate così, e di sotto ancora
Era un sassofono pigro che parlava
Del pomeriggio, e di ogni altra esistenza.
E piange il cuore, piange, Marcellina, a
Riguardare, a riascoltare da distanza non
Espugnabile ormai, dopo che tutto è chiuso,
Il condominio di quei tuoi ottant’anni, la giovinezza
Lunatica e (come loro) vitale che vi collimava
Con lo spericolato equilibrismo di chi,
Oh, lo sa bene che tutto muterà.
Non c’è più traccia laggiù. Nuovi restauri,
Tutti radicalmente nuovi gli inquilini, e
Ogni due mesi mutano i negozi.
Durano quelle voci, alla memoria strette
E suoni di clacson, passeri, nelle cassette di
Leopardi o forse Ripellino o Majakovskij.
Tu, come voci,
Entrata oltre le soglie hai visto esplose
Le luci delle cose, infine accesa:
Eccole, libere, le spiagge della luce
Forse così come le vide Lucrezio.
Ottoni e corde, spinette e partiture:
Non si dimentica di te nel suo negozio,
Oggi nemmeno troppo ingrassato, il sassofonista.
S’è laureato. L’altro è un latinista.
È di te né la voce, né la vista, nulla
ridotto a ben poco.
(da «Ricordi di Professori», in Giorni di scuola, pp. 68 69.)
Barile: Questo uso dell’acrostico è senz’altro un omaggio, e che omaggio!, a quel bellissimo Xenion di Montale[9]: ma al suo interno troviamo anche altri omaggi, e in particolare all’amico di allora sassofonista e ai poeti di una lunga fedeltà, Dante e Petrarca per primi, e poi Leopardi, Ripellino, Majakovskij e Lucrezio… Ma tornando alle forme: per usare una formula dell’OuLiPo, mi chiedo se questa «restrizione» imposta dalle forme faccia funzionare anche la poesia, l’invenzione.
Fo: Può capitare che funzioni. Personalmente ho sempre sentito questa sfida delle forme come una sorta di motore della creatività.
Barile: «La sfida delle forme»: con questa bella definizione passiamo ora al terzo poeta qui presente. L’ultimo libro di Stefano Dal Bianco, Prove di libertà[10], presenta una forte mescolanza di poesia e prosa. La raccolta è divisa in due parti, la prima più lirica e la seconda più prosaica. Questa doppia presenza è una costante della tua poetica. La raccolta precedente, Ritorno a Planaval, era molto nutrita di prosa, infatti termina con una poesia in prosa.
Ma, e per colmo del paradosso, Dal Bianco è autore di due testi di critica: Tradire per amore. La metrica del primo Zanzotto[11] e L’endecasillabo del Furioso[12] nei quali si rivela fondamentalmente un metricista raffinato: e tuttavia è con ogni evidenza, come autore in proprio, un rappresentante della tendenza alla prosa, all’uso della prosa nelle proprie raccolte poetiche, tipi co della sua generazione.
Dal Bianco: Il mio inizio è stato come poeta lirico. Scrivevo poesie molto concentrate, probabilmente difficili da capire, perché il mio punto di partenza è sempre stato prettamente formale. Anche come lettore di poesia sono sempre stato catturato dagli aspetti formali del testo: il ritmo, l’intonazione, la sintassi. Da questo punto di vista importante è stato l’incontro, all’Università, con l’insegnamento di Pier Vincenzo Mengaldo, incontro che ha coinciso con un mio momento di lutto. Mi si è creata così una specie di cortocircuito interiore tra ciò che è ‘stile’ e ciò che è ‘esperienza di morte’ e, se vogliamo, ‘silenzio’.
Da questo momento ho iniziato a concentrarmi su gli aspetti di pura forma e, tra questi, sul più astratto e al tempo stesso sul più fisico: il ritmo. Le mie prime poesie erano dunque molto elaborate, funzionavano formalmente alla perfezione, ma erano scritte sostanzialmente per gli ‘addetti ai lavori’ e avevo l’impressione che non servissero a niente, come non serve una cosa che non arriva a destinazione.
Ho quindi cominciato a pormi il problema del narrare, del raccontare a qualcuno che ti sta davanti ciò che prima era soltanto detto, decantato come tra sé e sé. Da questo atteggiamento è nato il libro Ritorno a Planaval[13], che rappresenta lo sforzo, il tentativo di raccontare, da parte di un temperamento sostanzialmente lirico. Ed è poi come se ci fossero due diversi piani di lettura: il primo si affida al ‘contenuto’ di ciò che viene detto o raccontato, mentre il secondo, che per me è più naturale, è inerente ai fatti di stile, alla quantità di silenzio che il testo riesce a veicolare in sé, a ciò che accade negli interstizi della scrittura, all’incontro tra le vocali, alla confluenza tra un certo ritmo, una certa sintassi e una certa intonazione. La poesia, e il suo vero, altro ‘messaggio’, stanno lì.
Di pari passo è emersa una sorta di nausea rispetto al far versi; mi sono scontrato con l’arbitrarietà dell’andare a capo quando si opta per il cosiddetto ‘verso libero’. Scrivere in versi liberi è una responsabilità enorme: senza la griglia di una metrica regolare, ogni a capo deve rispondere a una motivazione profonda. Si avverte una voragine in fondo al verso, una rottura necessaria e spesso drammatica del tranquillo orizzonte della prosa. Con l’andare degli anni, la pratica dell’andare a capo si affina sempre più, e alla fine rischia di divenire un sapere come un altro, una tecnica, un manierismo privato che può procurare nausea e paralisi. Si ha la sensazione di aver esaurito le possibilità.
Ritorno a Planaval rappresenta questa ambivalenza: da un lato c’è la nausea del fare versi e dall’altro la necessità di raccontare e una volontà di superare il problema dell’arbitrarietà dell’andare a capo. Il libro successivo, Prove di libertà, è meno improntato su questi aspetti; appartiene a un’altra fase, successiva al senso di nausea che a un certo punto ha interessato anche la scrittura in prosa. È come se ci fosse un imperativo assoluto di non ripetersi mai e ogni volta che ci si accorge di ripetere un atteggiamento mentale scatta una nausea e si sente il bisogno di andare oltre. Vi leggo da Ritorno a Planaval un esempio di testo in cui si comincia in prosa e si finisce in versi.
Il piano
Quando mi stendo sul tappeto del salotto e guardo in alto, a volte c’è una mosca a volte un moscerino che volando descrive traiettorie stranamente geometriche, di colpo e di continuo svoltando con un angolo di solito acuto, e quello che è più strano è che tutto si compie sullo stesso piano ideale: quello parallelo al soffitto e al pavimento dove sono io.
Non so perché lo faccia. Forse perché così trova il suo cibo, come le rondini, ma perché sempre solo su due dimensioni, senza usare lo spazio?
Veramente gli basta,
e anch’io sono su un piano, il quarto,
vivo nella mia fetta d’aria,
sopravvivo e quando voglio
guardo e respiro dalla finestra.
Anzi, ho comprato un tappeto
e qualche volta mi ci devo stendere,
altrimenti mi sfugge il mio orizzonte.
(da «La distrazione», in Ritorno a Planaval, p. 38.)
Per la mattina dopo del mio amore, prima che vada al lavoro
Ho toccato la felicità stasera
solo perché ero stato via per una settimana intera
senza pensare, lo confesso, più di tanto a voi per
tutto il tempo,
preso da chissà quali altri pensieri
– di spostamento, di lavoro
mi ero come dimenticato
della mia sola fonte di sostentamento,
del mio bambino e del mio amore,
prima di aprire la porta di casa stasera.
E la stanchezza, no, non è svanita in quel momento
ma si è fidata della vostra leggerezza,
sciogliendosi per questo in noi o innalzandosi.
In questa nostra zona franca ma non senza memoria
siamo ancora nel momento in cui scrivo
e mi allontano, sì, da noi, da casa nostra ma per
poco,
per quel tanto che basta a raccontare e ringraziare
di leggerezza e vita, e di dimenticanza.
(da «Re. Lontano dagli occhi», in Prove di libertà, p. 15.)
Barile: Pausa: un attimo di silenzio per assorbire l’emozione di questa poesia prima di riprendere il di scorso.
Mi sembra dunque che forse la ‘nausea’ del verso sia relativa piuttosto al verso libero, e non tanto alla metrica chiusa della tradizione, fra virgolette o meno. Non so se potremmo allora, o se potremo fra qualche anno, asserire una cosa del genere: che in fondo soltanto il Novecento sarebbe stato il secolo del verso libero…
Vorrei adesso introdurre Antonio Prete, studioso di Baudelaire e di Leopardi. La sua scrittura saggistica è molto vicina anche a quella creativa. Inoltre è autore di racconti e recentemente si è avvicinato alla poesia, toccando tutta la tastiera della letteratura.
Prete: La mia è soltanto la storia di un amore per la scrittura, e quando si ama qualcosa si tentano e si attraversano tutte le vie per tenere vivo questo amore. L’arrivo tardivo alla poesia è solo un arrivo tardivo alla ‘pubblicazione’ della poesia: in realtà ho scritto sempre poesia sin dall’adolescenza, ma a partire da quell’età il mio rapporto con la poesia è anche la storia di una cancellazione costante. Durante l’adolescenza la lettura ha riempito la solitudine, ma è stato un tempo di ricerca e di costruzione del sé. Ho letto molto da ragazzo: i grandi russi in traduzione italiana, i narratori francesi dell’Ottocento, narratori italiani come Landolfi, Palazzeschi, Pavese, i toscani Pea, Viani, Papini, Lisi, e così via; autori che mi davano un’idea della prosa, della bellezza della scrittura e della lingua, una lingua tutta diversa dalla mia. Perché io parlavo in dialetto e l’italiano era la lingua che ascoltavo e imparavo a scuola. In tutto l’ambiente popolare, contadino e artigiano in cui vivevo, si parlava dialetto, una lingua fioritissima, ricca di suoni, tonalità, esclamazioni, che venivano dalla Grecia, dai Balcani, dalle isole del Mediterraneo. Il dialetto del mio paese confinava con il dialetto, o la lingua, dei paesi in cui si parlava gricu. Per questo l’esercizio dello scrivere in un’altra lingua, la lingua italiana, era già una traduzione ma anche una scoperta. Ho letto anche molta poesia straniera, in traduzione.
Dalla lettura è scaturito naturalmente il desiderio della scrittura, di una scrittura che presto ha voluto muoversi tra tante prove, ingenue ma ostinate: racconti brevi, una tragedia in endecasillabi sciolti di argomento biblico, poesie, insomma molte imitazioni, inizi di diari poi interrotti, tutti materiali che ho distrutto. La cancellazione è iniziata da lì. Poi, dopo l’Università, negli anni milanesi ho sempre preferito essere in dialogo d’amicizia (e anche spesso di pubblica presentazione critica) di amici poeti come Giancarlo Majorino, Milo De Angelis, Cesare Viviani, Cesare Greppi, Tomaso Kemeny, Ermanno Krumm, e altri, anche non milanesi, come Valerio Magrelli, Eugenio De Signoribus, Gianni D’Elia, invece che pubblicare le mie poesie, oggetto di cancellazione costante e di dubbio. Non ero soddisfatto, e intanto nel frattempo l’esercizio della critica per me era diventato costante, attivo e coinvolgente. Anche per via dell’insegnamento.
La critica non è mai stata per me un atto di giudizio assiologico, storico-letterario, ma è stato un atto di relazione, di interrogazione del testo e di me stesso, vorrei dire di esegesi, se il termine, così antico, non suonasse ambizioso oltre che desueto. Necessariamente quel gesto critico, così inteso, richiedeva una scrittura. La scrittura critica per me poneva sempre un problema di prosa: non solo che cosa scrivere ma anche come scrivere, cioè lo stile della critica era, ed è, la mia preoccupazione. Partendo dalla prosa del saggio il passo verso la prosa della narrazione è breve. Accade quello che Montaigne scrive ad apertura dei suoi Essais: «Je suis moy-mesmes la matiere de mon livre», – sono io stesso la materia del mio libro, e questo vale sia per la prosa che per la poesia.
La traduzione della poesia è stata il passaggio che ha motivato la pubblicazione delle poesie, di quelle sopravvissute, perché la lunga esperienza di traduzione dei poeti (Mallarmé o Char, Valéry o Celan), e soprattutto di Baudelaire, è stata un’esperienza di scrittura poetica: tradurre Les fleurs du mal in versi italiani ha significato fare un’esperienza viva della poesia, e grazie a questo lungo indugio con il grande poeta il passaggio ‘pubblico’ alla poesia è stato poi più facile. Inoltre il dialogo silenzioso ed esegetico con i poeti – Hölderlin o Leopardi, Keats o Rilke, Ungaretti o Char, Wallace Stevens o Celan – è servito moltissimo a sospingermi verso la lingua della poesia o a trattenermi in essa. E anche il dialogo diretto e l’amicizia con poeti come Jabès e Bonnefoy.
Nel 2005 dovevo andare in Messico per un Festival di letteratura e mi avevano chiesto di presentare anche delle poesie da far tradurre in spagnolo, perché tutti gli scrittori invitati degli altri paesi presentavano poesie e racconti (nei paesi latino-americani è dato per scontato che un narratore sia anche autore di versi). Dunque ho scelto alcune poesie inedite, le quali, dopo la prima traduzione occasionale per il Festival, sono state tradotte in spagnolo dal poeta cileno Raúl Zurita per una rivista messicana (raccolte poi in una plaquette, Menhir, accompagnate da opere grafiche di Valerie Meyer, poetessa e artista messicana). Nel frattempo il libro è uscito in Italia, con lo stesso titolo[14]. Un viaggio e il caso mi hanno portato alla pubblicazione della prima raccolta. Alla quale, nel 2012, è seguita Se la pietra fiorisce[15].
Detto questo, il cuore della questione per me è come una meditazione o interrogazione intensiva sull’esistenza, sul nostro stare al mondo, viventi tra viventi, possa trovare una sua lingua necessaria, essenziale, e un suo ritmo, e possa, di volta in volta, essere modulata in forma saggistica, o in forma narrativa o in forma poetica. La forma poetica, come diceva Dal Bianco, è un cammino personale. Ciascuno capisce dove davvero finisce il verso, dove ricompare il silenzio in forma per dir così visibile e udibile (del resto il silenzio è sempre respiro della lingua), dove la poesia cerca la forma della prosa o la forma riconoscibile (per tradizione e convenzione e uso) della poesia. Ho sempre avuto presente un passaggio dello Zibaldone, in cui Leopardi, con grande forza, dice: «L’uso ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza né della poesia né del suo linguaggio, e modo di esprimer le cose» (Zibaldone, 14 sett. 1821). E aggiunge che si può essere ‘poeta caldissimo’ anche in prosa.
Ci possono essere delle prose impoetiche e delle poesie impoetiche. E quella che chiamiamo prosa può avere tante modulazioni (mi viene in mente che nel mio dialetto salentino il verbo ‘mprusare vuol dire raccontare qualcosa d’ingannevole, usando la finzione).
Insomma direi che la questione è del ‘poetico’. Il quale non sta nelle cose, in un prima della lingua (tutto può appartenere al poetico), sta nel modo d’essere del pensiero e della lingua, nel modo di osservare e pensare il mondo, di osservarlo e pensarlo nella lingua, nel ritmo della lingua, nei silenzi e nei suoni della lingua, e inoltre con una profonda relazione con il proprio respiro.
Il ‘poetico’ può assumere tante forme. Leopardi parla a un certo punto di «abbandono del poetico» da parte di una civiltà che ha scelto l’astrazione, la ‘spiritualizzazione’, cioè la messa tra parentesi della singolarità del corpo vivente. In quel caso il poetico è insieme l’immaginazione, il respiro del vivente, la singolarità, il rapporto con la physis, anch’essa vivente, la capacità di pensare la finitudine in rapporto al suo oltre, il limite in rapporto all’infinito.
Accanto alla storia di una cancellazione di cui dicevo all’inizio, accanto alla ricerca di qualcosa che potesse rispondere al poetico, per me c’è sempre stato il dialogo con i poeti. Frequentando i poeti e interrogandoli si è attratti nella loro lingua, nel loro ritmo e nel loro mondo. Lo stesso accade nell’esperienza della traduzione: si traduce perché si ha voglia di continuare a sentire quella voce straniera ma in un’altra lingua e sei talmente preso da quella voce che vorresti che riapparisse nella tua stessa voce e quindi nella tua lingua. Così è anche per la poesia. È importante rispondere a una chiamata, forse la parola vocazione è questo: una chiamata che non viene dall’esterno, ma dal linguaggio, dalla poesia e dalla scrittura che già ci sono. Si è vocati a questo convivio dialogante. La tua voce risponde alle altre voci. E finisce con l’avere un suo timbro, forse.
La notizia
Quell’abbaglio nell’aria, il treno era fermo nella piana di Cerignola, il maggio rotolava di là dai finestrini, mia madre era morta all’alba, ed era accanto a me nel corridoio, era nell’angolo delle sue rose, sulla strada tra i rovi sotto il sole, il foulard nero con i fiori rossi, vedi lag giù, diceva, in fondo agli ulivi, vedi il colombaio bianco, la gazza saliva dal cespuglio gracchiando, accanto a noi sulla strada passi d’ombra ascoltavano i suoi racconti, mia madre era morta all’alba, la sua voce dalle sere d’inverno era venuta lì, nel corridoio, era la musica dell’attesa con tutti quei toni che salivano scendevano quasi cantassero, ora ammansivano l’ansia dell’indugio, e il treno riprendeva affannato il cammino, schiacciavo sotto i piedi la lontananza, non ti preoccupare, diceva, sapevo che stavi venendo, sapevo che stavi per arrivare, il maggio era un lenzuolo immenso di azzurro e di glicine, mia madre era morta all’alba, e la Puglia era il paese più lungo del mondo.
(da «Il vento nelle sillabe», in Menhir, p. 111.)
Privazione, con figura
E questa che è figura d’ombra, colma
della sua assenza, questo vuoto segno
che, privo d’anni, privo di pensieri,
mostra una vita che è meno di niente,
una vita che pare trasparente,
e ha un volto ch’è soltanto d’aria e vento,
cenere d’ogni desiderio spento,
questo corpo di mancanza che è assillo
nella stanza del tuo rammemorare,
inesistenza che ascolta il respiro
quieto dell’erba e delle pietre, questa
mancata specie, che serba il profumo
di quel che non accade, t’appartiene
certo, come la stella alla finestra,
come appartiene la ferita a questa
materia d’ombra con lampi, che è vita.
(da «Materia d’ombra», in Se la pietra fiorisce, p. 15.)
C’è qualcosa di là dalla parola
C’è qualcosa di là dalla parola
disadorna o sontuosa,
oltre il silenzio o la festa del suono,
c’è qualcosa di là dal turbamento
o dalla fredda atonia,
qualcosa che come luce nel vetro
trapassa e dissipa l’ombra del dire,
qualcosa che chiamiamo poesia.
Lingua che trema di là dalla lingua:
l’albero e il vento hanno la stessa essenza,
la pietra e il mare lo stesso respiro.
Il dolore non attenua il suo grido:
solo lo eleva fino
alla deflagrazione della stella.
(da «Rosa mutabilis», in Se la pietra fiorisce, pag. 83.)
Mátrima, lu ientu
“Rusce lu ientu a ‘mmienzu li calipsi
e intra li pigni sta rrite e sta sfruscia,
la luna rretu la nuegghia si sconne,
pare ‘na sposa cu lu velu a fiuri
ca si mmuccia la fronte e li capiddhi”.
È l’oce tua ca ghié ddintata ientu,
ogne suenu ‘na fugghiazza ti l’arriru,
ogne parola ‘nu lanzulu t’aria.
Quannu sentu lu rusciu allu ciardinu
e an cielu nc’è la luna ca sta luce,
uardu ddha fore: si’ ttu ca sta cuenti
storie ti carcaluri e ti ma’iare,
storie di ientu ‘ntissute ti nienti.
Mia madre, il vento
«Sussurra il vento in mezzo agli eucalipti / e tra i pini ride e fruscia, / la luna si nasconde sotto la nuvola / sembra una sposa con il velo a fiori / che si copre la fronte e i capelli.» // È la voce tua ch’è diventata vento / ogni suono una foglia dell’albero, / ogni parola un lenzuolo d’aria. / Quando sento il sussurro nel giardino / e in cielo c’è la luna che luce, /guardo fuori, sei tu che racconti / storie di folletti e di streghe/ storie di vento intessute di niente.
(da «Rosa mutabilis», in Se la pietra fiorisce, pag. 114.)
Barile: La poesia di Prete si caratterizza dunque per la presenza, anche nell’ambito della prosa, di quello che Leopardi chiamava il ‘poetico’. Torneremo su questo straordinario, imprendibile vocabolo. Ma vorremmo prima sapere ancora qualcosa da Anedda su come è nata l’idea di fare una installazione, come ha accennato. Vorremmo insomma da lei una storia di una sua installazione, a conclusione di questo primo turno di voci e in attesa di accogliere domande ai nostri ospiti dagli studenti.
Anedda: Prima Dal Bianco ha parlato della nausea del fare versi: scrivere è un mestiere rischioso per la mente. Nel mio dna c’è la Sardegna e qualcosa di molto antico legato al fare. A volte diventa una cura, un antidoto. Così è nata l’idea di fare un’antologia non su carta ma su stoffa cucendo su un lenzuolo le poche cose che mi sembra possano resistere, mettendo delle fotografie non solo mie, ma anche di persone sconosciute, di cui non so il nome e le cui immagini le compravo al mercato di Porta Portese. Mi interessava l’idea di mischiare i miei ricordi con quelli di altri, visi familiari a visi sconosciuti.
La curatrice di una mostra con artisti sardi al museo MACRO di Testaccio, in un edificio che un tempo era un mattatoio, mi ha chiesto di esporre il lenzuolo insieme a delle ‘scatole’ un po’ cornelliane. Il lenzuolo era fissato a un bastone da tenda e retto da ganci (eravamo in una sezione del museo: la Pelanda dove si scannavano i maiali), la parte inferiore era libera, e i corpi dei visitatori di passaggio la facevano ondeggiare.
2. Domande dal pubblico
Maurizio Capone: Vorrei fare due domande incrociate ad Antonio Prete e Antonella Anedda sul tema del paesaggio. Nella poesia e nei racconti di Antonio Prete, come anche nel Trattato della lontananza, c’è un sentimento profondo verso la sua terra natia, così come per Antonella Anedda. Mi chiedo quanto influisca sulla poesia il fatto di essere rispettivamente pugliese e sarda e, quindi, quanto influisce l’appartenenza a una terra periferica, di confine, sulla scrittura poetica? E nel caso di Anedda, quanto influisce nella relazione con il paesaggio la sua formazione di storico dell’arte?
La seconda riguarda la poesia dialettale: in un mondo che vive meno di dialetto, e più standardizzato, benché l’Italia conservi nel centro-sud una forte anima dialettale, quale futuro può avere la poesia dialettale?
La terza domanda è rivolta ad Alessandro Fo ed è più una suggestione che riguarda il gioco combinato rio di forme chiuse come fonte di creatività. Leggendo la sua poesia penso spesso al gioco combinatorio in prosa del secondo Calvino.
Prete: Certo, la parola ‘paesaggio’, calco di paysage francese, di origine pittorica e cinquecentesca, per noi oggi corrisponde a quello che chiamiamo ‘il visibile’, e la poesia è il luogo e la lingua che ospita il visibile, insieme con tutto ciò che il visibile cancella, esclude, sottintende. Insomma la poesia ospita anche tutto ciò che è oltre il visibile. Si muove sempre sul confine tra visibile e invisibile. In più, nella lingua stessa che il poeta adopera c’è la natura in quanto soffio, vento, suono: le vocali, le sillabe, la voce, il ritmo hanno a che fare con la natura, con i suoi elementi, con il respiro della physis. Non c’è lingua più prossima alla natura di quella che ha sempre usato il poeta (il mio lontano libro Prosodia della natura[16], Feltrinelli 1993, lo avevo sottintitolato Frammenti di una fisica poetica). Per queste ragioni penso che sia ineliminabile dal verso quello che chiamiamo paesaggio, anche quando questo è rappresentato nelle forme più astratte, più cifrate. Questo vale anche per i poeti che procedono per abrasione del visibile, e mostrano il resto, la cenere, la desertificazione, la polvere, insomma la deflagrazione di ogni bucolica.
Per quanto riguarda il rapporto con il dialetto, per me il dialetto coincide con la lingua materna, la prima lingua. Si tratta di una lingua che mi è rimasta dentro, anche quando mi sono mosso tra le lingue. Più ci si allontana, più ci si dissipa negli incontri linguistici, e più la radice del dialetto diventa forte, diventa una presenza, perché non è una lingua strumentale, ma è fatta di suoni, d’immagini, di paesaggio, appunto, di odori e sapori e forme che appartengono all’infanzia e all’adolescenza.
Anedda: Forse è stata la passione per il paesaggio a spingermi verso l’arte veneta (è stato l’argomento della mia tesi). Mi interessava il nostro rapporto con lo sfondo, lo spazio, il variare delle luci che influenza il modo in cui percepiamo un luogo. Il paesaggio della Sardegna si è sicuramente inscritto nelle mie poesie attraverso i suoni, come il canto ‘a bordone’, ma anche certi tipi di silenzio, certe pause e certi spazi men tali credo che si siano tradotti poi in poesia. Ho scritto in Logudorese (il dialetto, anzi ‘salimba’, la lingua della Sardegna centrale) dopo un lutto, quando mi è sembrato che mi mancassero le parole. È riaffiorata questa lingua, sono riaffiorati questi suoni legati appunto a una possibilità di dire il silenzio. Scrivendo in sardo ho capito anche qualcosa del mio italiano, per esempio perché prediligo le consonanti, perché non mi piacciono molto gli aggettivi ecc. Rispetto all’italiano il sardo è sintetico. È molto simile al latino, Dante diceva che i sardi parlavano latino come scimmie…
In Salva con nome ci sono solo due poesie dedicate al paesaggio. Una è Malas mutas, che è stata scritta dopo un fatto reale, di sangue, legato alla vendetta di due fratelli uccisi a distanza di anni perché avevano fatto violenza a un bambino. Una delle forme di canto presenti in Sardegna è quella degli ‘Attitos’, cioè il cantare la persona morta che è stata ‘attitata’, ‘allattata’. Quindi c’è un legame viscerale con il paesaggio, un paesaggio violento, «delle gole morte», cioè il luogo dove venivano buttate le carogne.
Malas mutas
Anti isparau in sa cara a sos duos fratros
sos gathiles incrunant sa matta
la faghen niedda prus ki s’achina in sa cupa.
Sa luna chilliat in su core de l’Isula.
Su silenzio irfossa in sa Bidda des gurules mortas.
Comenti in tempos de Roma
ispingherent in sos mortorzus
catrassandendi pustis e’vinditta.
Como cusint su piumu
ke fat drittu s’oru
de sa beste prantu.
Hanno sparato sul viso ai due fratelli
le loro nuche piegano il cespuglio
lo fanno nero più dell’uva nel tino.
La luna dondola dentro il cuore dell’Isola.
Il silenzio s’infossa sul Paese delle gole morte.
Come al tempo dei Romani
spingono le carogne nei pozzi
bruciando di vendetta dopo anni.
Ora si cuce il piombo
che fa dritto l’orlo
del vestito a lutto.
(da «Salva con nome», in Salva con nome, p. 41.)
Fo: Non penso che ci sia molto in comune tra la serialità dell’ultimo Calvino e le occasionali misure metriche che cerco di prendere contro l’insidia del ‘prosastico’. Ma, visto che parliamo di Calvino, cito una delle sue frasi che Berardinelli ha messo in epigrafe al suo saggio La poesia verso la prosa: «Sono convinto – dice Calvino – che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia. In entrambi i casi è ricerca di un’espressione necessaria, unica, densa, coincisa, memorabile» e si torna lì, al ‘poetico’ di cui parlava prima Prete.
Stefano Carrai: La mia impressione è che l’opposizione prosa-poesia sia un falso problema, come mostra il passo di Leopardi citato da Prete. Del resto le prose di Anedda, Dal Bianco e Prete sono poesia, perché il ritmo, le immagini e i suoni che le caratterizzano appartengono alla sfera del poetico, anche se la definizione di poetico non è di per sé chiara. Nei quattro interventi, mi ha molto colpito, seppur in maniera diversa, la presenza di una sorta di libertà condizionata che si manifesta per esempio nelle poesie di Fo nell’acrostico, nell’attenersi a una prosodia canonica, in Anedda in un legame con le immagini che è in fondo un aggancio con il reale, così come nella poesia di Dal Bianco c’è una cornice della scala musicale che condiziona la libertà dell’ispirazione. Forse il poetico è questo: una libertà vincolata.
Prete: Secondo me in futuro bisognerebbe riflettere sul ‘poetico’ più di quanto non si stia facendo adesso. La riflessione sul poetico è stata aperta nel primo Ottocento da Novalis e da Leopardi, poi questa via è stata bistrattata, e la parola è andata a far parte di una sorta di uso linguistico degradato, il poetico è diventato aggettivo e ha smesso di essere sostantivo. Mentre l’uso sostantivato della parola è molto importante: Leopardi parlava di abbandono del poetico nella modernità e Novalis parlava di cercare, superando il romanzo e la poesia romantica, l’assoluto poetico.
Questa ricerca è stata abbandonata e bisognerebbe, secondo me, all’altezza della nostra epoca capire in cosa consiste il poetico, quale lingua può avere e come può manifestarsi. Certamente ha a che fare con una specie di orizzonte, di limite che ciascuno si dà; però, detto questo, c’è la questione del ritmo e del silenzio, dell’intensità espressiva della parola, perché alla parola si affida un compito forte che non è quello della comunicazione. In epoca di comunicazione diffusa, di massa e di consenso, in cui tutto è dicibile, rappresentabile e omologabile, il poetico avrebbe una sua funzione critica molto forte perché rappresenterebbe una istanza d’intensità espressiva immaginale e immaginosa che si opporrebbe alla fluidificazione costante della comunicazione.
Barile: Tornando all’inizio del nostro discorso, chiedo ad Alessandro Fo: perché non hai tradotto l’Eneide in prosa?
Fo: La prima scelta che ho fatto pensando di tra durre l’Eneide è stata quella di mantenere la veste formale. Un poema così importante anche sotto l’aspetto delle tessiture musicali, dell’embricarsi dei suoni e dei nastri verbali, ne avrebbe scapitato a essere tradotto in prosa. Questo tipo di scelta sarebbe stata una traduzione di servizio che spiega i significati, ma qui sono in gioco molti valori, molto stratificati, che naturalmente non possono essere tutti raggiunti con il gesto di una traduzione; talvolta possono essere surrogati, talvolta sostituiti altrove, dove la lingua d’arrivo lo consente. È chiaro che il traduttore tenta di giocare la carta che ritiene abbia più valore per l’autore che sta traducendo. Virgilio ha scritto in versi, e in questa forma ha investito tanto del suo mondo: perché tradurlo in prosa? Sarebbe stato come scegliere subito una menomazione.
Barile: Per quanto riguarda invece la produzione di Dal Bianco, è come se ogni volta volesse impedirsi il lirismo, come se ci fosse un limite, una sorta di lotta contro un’ipotesi di retorica. Quando dice che non vuole ripetersi per non diventare la maniera di se stesso, forse c’è anche la paura di debordare e che la forma diventi informe.
Prete: Credo che in questo limite si giochi il rapporto che ognuno ha con la tradizione. Inoltre dipende cosa s’intende per tradizione. C’è anche una tradizione avanguardistica, gridata, che considera la poesia divisa in lirica e antilirica, separazione che non ha senso perché ci può essere il massimo di liricità nello sperimentale e il massimo di sperimentalità nella lirica. Dunque la tradizione può essere sentita da un lato come incombente, quindi come un ostacolo, e dall’altro come orizzonte che un poeta ha bisogno di dare alla parola e alla campitura che questa ha nel bianco della pagina e nella voce. La parola che noi usiamo è prima di tutto vocale, e anche se resta scritta, in questa vocalità mantiene un rapporto con la musica, con il ritmo, con il suono-senso, congiunto, che sta nella parola cercando il massimo di espressività, profondità e significazione non contenutistica della parola.
Maria Rosa Tabellini: Il punto individuato da Prete è secondo me il cuore della poesia lirica. La poesia narrativa è sempre esistita, a partire dall’epica per la quale non ci si poneva il problema tra l’oralità e la scrittura, perché era una poesia orale e come tale intrisa di una musicalità che era già un ritmo intero. Mentre mi chiedo se l’incidenza della retorica (e può essere, nell’acrostico, il limite che intercorre nel momento in cui l’apparente prosa diventa verso) non sia il paradosso tra voce della parola parlata e voce della parola scritta, nella lirica. Perché la lirica nel momento stesso in cui trascura di essere eccessivamente effusiva per non diventare retorica fine a se stessa deve ricorrere a degli espedienti che ne facciano ugualmente una lirica e non una poesia di narrazione. Non penso che Dante si sia posto il problema di per sé di come il suo poema sarebbe stato detto. Quello che invece io mi chiedo sempre è: che cosa il poeta pensa della propria poesia nel momento in cui essa viene fruita e non appartiene più alla sua voce intima, cioè una volta che è divenuta parola scritta, di come viene trasmessa e condivisa?
Dal Bianco: Prima ho parlato dell’arbitrarietà. Cosa resta se non c’è una griglia, una gabbia? Cosa distingue una poesia da una non-poesia? L’unica cosa che possiamo nominare è l’intonazione. Questo è il criterio minimo che possiamo mantenere e su cui si fonda quel sapere della poesia e dei poeti che è difficile da trasmettere. Distinguere una poesia intonata da una che non lo è, è difficile. Io l’ho imparato grazie ai poeti che mi hanno preceduto, da Dante, Petrarca, Ariosto a quelli che mi stanno vicini.
Quello che contraddistingue una lirica che funziona rispetto a una lirica che non funziona è l’autoritarismo nell’intonazione. Quanto più un autore è ‘nazista’ nel costruire un testo, per cui impone un certo tipo di lettura e di esecuzione ad alta voce, senza lasciare spazio alle derive soggettive dell’esecutore, tanto più un testo funziona. Fortini diceva scherzando che per capire se le sue poesie funzionavano provava a recitarle in bergamasco e se la tenuta era la stessa il testo aveva vinto.
Prete: Sono d’accordo sull’intonazione, ma per quanto mi riguarda è importante anche che colui che legge silenziosamente la poesia senta, nel silenzio, una voce, e la senta attraverso una sua propria ricomposizione intonativa, per dir così. Insomma conta anche l’ascolto, il modo dell’ascolto, il soggetto dell’ascolto, soprattutto nella lettura silenziosa della poesia. Inoltre nella vera poesia sentiamo che dall’intonazione scaturisce un pensiero. L’intonazione non è solo formale ma è anche di pensiero: di qui la forza dell’immagine, della metafora che preserva il pensiero e che lo svolge e rivolge. La lingua, e il ritmo, devono essere intonati col pensiero.
Anedda: Dopo la pubblicazione abbandono il testo ai lettori. Non mi appartiene più, in un certo senso mi diventa indifferente. Certo, quando la poesia viene letta in maniera retorica e – essendo donna questo capita – ‘ingentilita’, soffro, ma questo fa parte delle circostanze. Il mio lavoro è scrivere e spero che nella lettura anche silenziosa si conservi un brivido, qualcosa che c’era nell’originale. Il lettore traduce, a volte benissimo. E come lettrice nella poesia, ma anche nella prosa, cerco e riconosco quando c’è un difficile equilibrio tra rigore architettonico e spifferi tra i mattoni, tra sorpresa e solidità. Architettura, rigore, ma anche un elemento leggermente dissonante. La poesia di Saffo, la così detta «ode della gelosia», traduce il desiderio, chi legge viene tradotto da chi ha scritto davanti allo spazio in cui due persone si desiderano e percepisce il crampo fisico dell’esclusione, quel livore reso da Saffo con quel diventare «più verde dell’erba».
Fo: Credo che chiunque scriva lo faccia per comunicare e per destare una reazione. Se una persona pensa a quale sarà la sorte della propria scrittura, credo che cerchi di proporsi due orizzonti: il primo è quello di essere compreso per ciò che effettivamente ha voluto dire, e il secondo poter ridestare qualcosa di ciò che gli è sembrato di capire di un angolo della vita nel momento in cui ha cercato di metterlo su pagina; e quindi di poter ridestare questo sentimento che lo ha ispirato. Entrambi questi fattori in realtà sono molto meno soggetti al controllo di chi destina un testo rispetto a quanto lui non si attenda. Un testo – per esempio – chiarissimo viene regolarmente frainteso, un’intenzione tecnica viene interpretata in un altro modo. Insomma è quasi una specie di fortuna se riesci a commuovere qualcuno tramite i mezzi e secondo le intenzioni che ti eri prefissato.
Barile: Moltissime cose ci sarebbero ancora da dire, ma purtroppo è già ora di chiudere questo incontro, denso di elementi di riflessione e pieno di poesie lette e ascoltate. Vorrei dunque salutare amici e studenti accostando a queste parole di Alessandro Fo quanto Vittorio Sereni ha frequentemente detto e scritto sull’energia che una poesia deve possedere: un’energia che riesca a riprodurre nel lettore quell’emozione che ha spinto l’autore, in un determinato momento della propria esistenza, a scrivere quei versi. Una sorta, in somma, di circolazione di energia emotiva: sarebbe questo il leopardiano ‘poetico’?
Lasciamo naturalmente apertissima la questione, salvo ancora ricordare una straordinaria osservazione di Auden, che inseriva alcune poesie da lui tradotte in un libretto di poesie di Kavafis in inglese di Rae Dalven del 1948. Non sapendo il greco, Auden aveva utilizzato le traduzioni in francese, in prosa, di Marguerite Yourcenar: cosa che un po’ lo disturbava, diceva, avendo egli sempre considerato la poesia come intraducibile.
Cosa c’è allora, si chiedeva, che invece resta comunque, della poesia di Kavafis, anche nelle peggiori traduzioni, per cui sentendole diciamo subito: questo è Kavafis! Cos’è che resta, e rende la sua poesia sempre così eccitante e così toccante? È il tono della voce, rispondeva allora questo grande poeta inglese, ricorrendo a un elemento assolutamente indefinibile e imponderabile: il tono della voce.
E su questa non-conclusione, che rimanda anch’essa al ‘poetico’ leopardiano, concludiamo il nostro interessante incontro, ringraziando gli amici poeti, i colleghi e i cari studenti: arrivederci a tutti.
NOTE
[1] A. Berardinelli, La poesia verso la prosa: controversie sulla lirica moderna, Torino, Bollati Boringhieri, 1994. [2] Prosa in prosa, intr. P. Giovannetti, Firenze, Le Lettere, 2009. [3] A. Anedda, Residenze invernali, Milano, Crocetti Editore, 1992. [4] A. Anedda, La vita dei dettagli, Roma, Donzelli Editore, 2009. [5] A. Anedda, Salva con nome, Milano, Mondadori, 2012. [6] D. Arasse, Le détail. Pour une histoire rapprochée de la peinture, Paris, Flammarion, 1996. [7] A. Fo, Corpuscolo, Torino, Einaudi, 2004. [8] A. Fo, Giorni di scuola, Città di Castello, Edimond, 2000. [9] E. Montale, Satura, Xenia I, 9, edizione a cura di R. Castellana, Milano, Mondadori, 2009, p. 38. [10] S. Dal Bianco, Prove di libertà, Milano, Mondadori 2012. [11] S. Dal Bianco, Tradire per amore. La metrica del primo Zanzotto, Pisa, Pacini, 1997. [12] S. Dal Bianco, L’endecasillabo del Furioso, Pisa, Pacini, 2007. [13] S. Dal Bianco, Ritorno a Planaval, Milano, Mondadori 2001. [14] A. Prete, Menhir, Roma, Donzelli, 2007. [15] A. Prete, Se la pietra fiorisce, Roma, Donzelli, 2012. [16] A. Prete, Prosodia della natura: frammenti di una fisica poetica, Milano, Feltrinelli, 1993. ¬ top of page |
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