« indietro ALESSANDRO CENI, Mattoni per l’altare del fuoco, Milano, Jaca Book 2002, pp. 72, € 9,00.
Summa delle tre plaquettes uscite dal 1993 al 1996, Mattoni per l’altare del fuoco riunisce in un unico corpo i trentatré ‘passaggi’ componenti le sezioni della nuova opera di Ceni: Nel regno; La realtà prima; Ossa incise e dipinte. Cristologica cifra (conforme d’altra parte al modulo numerico dei tre passaggi ultraterreni danteschi), per una serie di trasmigrazioni terrene che rispondono a un pensiero orientale pervadente l’intera raccolta, a cominciare dalle epigrafi tratte da Tao Tê Ching e Chuang-Tzu, dall’Ashtasakasrika come dalla Leggenda di Thrimikund. L’unità dell’opera, pur costruita a posteriori con demiurgica sapienza, come da poema antico, è sottolineata, soprattutto nella prima sezione, da vere e proprie coblas capfinidas, catenelle di un mistico rosario che si sgrana capitolo dopo capitolo. Quanto alla substantia dei mattoni forgiati a innalzare «l’altare del fuoco» – ara, cioè, per numi superiori – consiste esclusivamente in epifanie del divino nelle umili forme degli innocenti per eccellenza: «bambini e animali»; ovvero in impossibili colloqui con ombre parentali. Dunque tanto il Pascoli più sperimentale, quanto quello più ossessivo soccorrono a lessico e immaginario del poeta. Presenze tutte ‘autorizzate’ dall’ornitologia in versi del poeta sanmaurese, quelle di tordi, passere (il femminile è tratto che ne conferma la matrice pascoliana), merle, chiurli (altri uccelli nei confronti dei più celebri chiù, pure, nominalmente affini), procellarie e mortifere civette. Oracolare sicuramente il ruolo rivestito dagli alati del XXXIII capitolo: «...perché gli uccelli credono / col loro canto di far sorgere il sole», virtù condivisa con gli aedi, che, messa in dubbio, conduce – come si narra nel Fringuello cieco (Canti di Castelvecchio), e come mostra di saper bene Ceni – a immediata perdita della vista, ossia del potenziale immaginifico. Aristofanesco- esiodeo il planare dall’alto dei cieli di passera, merle e chiurlo del II capitolo, che, tuttavia, essendo ormai spiriti discendenti in un mondo evangelicamente rovesciato, giungono piuttosto a confermare la mancanza di certezze, che dal Montale degli Ossi in poi, è divenuta per i poeti legge di silenzio: «hai visto il figlio discendere sul padre / e aprirsi alle parole / per dirgli la parola che non salva...». Non resta dunque che indossare vesti francescane, per passare direttamente, con atto ieratico, la parola alle creature, attendendone un miracolo: «ridestarsi ad un tuo gesto di monaco / tutto il regno animale» (X). Mediterraneo il paesaggio, dominato dalla presenza del mare; dunque luogo deputato a porre in scena paniche metamorfosi dannunziane, seppur ridotto all’essenzialità tenacemente ricercata da Arsenio. Desolati sterpai danteschi – «nella selva secca della terrestre salina / che schiocca sotto il suo grave peso di bimbo» – ripopolati di «alcioni in bonaccia » (VI), costituiscono quasi il manifesto di un’intima fedeltà al poeta delle Laudi (anche effetti di armonia imitativa come l’esempio or ora citato, o altro passo dell’XI capitolo: «...che raso sull’erba / scocchi festuche marine alla terra e / al passo dei tordi proietti la prua di pigne / del promontorio nel ceduo del mare aperto » stanno a dimostrare l’assimilata lezione di questo d’Annunzio), come a certo Pascoli marinaresco, maestri entrambi di una koinè già decantata al filtro della montaliana trilogia di Ossi-Occasioni-Bufera. Una pur veloce analisi del lessico dimostra perfettamente questa linea di discendenza, quasi si privilegino il Pascoli, il d’Annunzio e il Montale più linguaioli, che procedono nei loro esperimenti con squadernato e rubricato il Guglielmotti presso lo scrittoio; così, accanto a nuovi tecnicismi da vocabolario portuale (remeria, cabrare, draga), si sciorinano termini già tutti impiegati da queste tre corone: tolda (Pascoli, Il ritorno di colombo di Odi e inni; d’Annunzio, A Roma in Elettra; Montale, Fuscello teso dal muro degli Ossi), orzare (d’Annunzio, La canzone dei Dardanelli in Merope), alzaia (Pascoli, Gli emigranti nella Luna dei Nuovi poemetti; d’Annunzio, Il commiato in Alcyone), lampara (Montale, Dov’era il tennis di La bufera e altro). Analogamente l’impronta di queste autorità linguistiche, insieme a quella dantesca o carducciana (e non mancano neppure esempi di riesumazione filologica da calepini soderiniani, si pensi alla voce pacciume) è testimoniata tramite lemmi naturalistici quali: glutine (Pascoli, Il vischio nei Primi poemetti), elitre (Pascoli, L’uccellino del freddo nei Canti di Castelvecchio; Montale, Gli orecchini di La bufera), lentischio (Pascoli, Tolstoi in Poemi italici e altrove; d’Annunzio, Il fanciullo in Alcyone), aliare (Pascoli, Alba di Myricae e altrove; Montale, Vecchi versi in Le occasioni – resta da osservare come la canonica dieresi della forma alïare, inaugurata dal Foscolo delle Grazie, sia nel contempo allusa e sostituta qui da Ceni, tramite variata e neologica accentazione, nell’alìavo del IV capitolo); festuche (Dante, Inferno, XXXIV), ilice (Carducci, Alle fonti del Clitumno in Odi barbare; Montale, Il gallo cedrone in La bufera), ecc. Di contro a queste epifanie dell’oltremondo, a cui è teatro il riarso paesaggio campestre e costiero, gli umili interni, l’«angolo oscuro della casa» (XVII), divengono naturale palcoscenico per l’aggallare di larve familiari. I defunti visitano nelle pagine poetiche di Ceni quotidianamente i mortali, che, dal canto loro, lungi dall’orripilare con sacra meraviglia a tali apparizioni, sembrano accettare come consueta la permanenza delle ombre tra i vivi. Così è proprio alle speciali facoltà del poeta visionnaire, «Io vedo e non vedo» (XX), che le anime si appellano per avere la loro voce di testimonianza, fino a rilasciare dei veri e propri imperativi ai figli, invitati a un ‘banchetto della vita’, che riunisca superstiti e trapassati: «Non mancare alla presenza dei convitati, / agli antichi e svaniti amici che giunsero in sogno / assieme alla voce del padre...» (V), riconfermando ciascuno nel ruolo di un tempo, quasi la morte non avesse potuto niente contro la primeva famiglia, indissolubile cellula terrena: «Tu che non sei di questo mondo e sei nella polvere / e siedi alla parte breve del tavolo...» (XI).
(Francesca Latini)
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