« indietro TRADURRE CONVERSANDO (CON) JAMIE McKENDRICK
di Luca Guerneri
nisi quia tendit non esse Agostino, Confessioni
La traduzione è divenire, pratica che abita la fessura che si apre nel pensiero tra il riconoscimento dell’originale e la sua ricreazione in una lingua di arrivo. Di fatto non abita nessun luogo, diviene, si crea, sfugge e si fissa in modo simile al fotogramma di un film, alla nota legata a quella successiva. La conosciamo, come diceva Agostino, solo nisi quia tendit non esse. Occorre dunque pensare la traduzione esattamente in questo divenire di tensioni, struttura liquida che prende la forma del contenitore, ripensarla come territorio di frontiera che si presta a riflessioni molteplici, che si apre dentro allo spazio di quella riflessione. Un pugno di citazioni di cui riprendere le fila poi:
Empson colloca i sette tipi di ambiguità che crede di potere riconoscere secondo una serie indicante nei suoi vari stadi ‘un progressivo disordine logico’ vale a dire una rinuncia sempre più radicale ad aver rapporto con il discorso verificabile della razionalità. (Giorgio Manganelli, Incorporei felini)
«Si potrebbe affermare che le culture riproducono, con strategie e modalità diverse, lo sforzo per tenere gli individui ancorati a una realtà comune e per distribuire in diverse zone di compensazione consentita extra-vaganze, deliri». E poco dopo «Le società, i linguaggi creano un’ortodossia della realtà». (Remo Bodei, Le logiche del delirio)
Si tratterebbe di cominciare a pensare con l’aiuto di una logica ‘paradossale’, e sembra poi che un aiuto di questo genere lo abbiamo proprio dalla pratica delle cornici, se riusciamo in qualche modo a farla nostra rubando un poco del loro mestiere al comico e allo psicotico». (Pier Aldo Rovatti, Il Paiolo Bucato)
La poesia è nelle parole di Empson ambiguità, tentativo di forzare il linguaggio, di portarlo a indicare una qualche zona d’ombra dove il castello di vetro che esso stesso ha contribuito a costruire frange la luce in mille componenti. Disancorato il linguaggio dalla sua necessità di dire, eccolo trasformarsi in un non luogo di gioco (serissimo gioco), gioco di riflessi, allusioni e illusioni. La poesia nasce da questa pratica e la traduzione che voglia in qualche modo seguirla deve porsi in ascolto. Come scrive Nancy: «Essere all’ascolto è essere allo stesso tempo fuori e dentro, essere aperti dal di fuori e dal di dentro, dall’uno all’altro e dall’altro nell’altro». La traduzione è una contemplazione di rovine, le parole del poeta rimangono sepolte pronte a farsi ricordo del traduttore. «Ricordo – nelle parole di Marc Augé – che per quanto esatto nei suoi particolari, non è mai stato la verità di nessuno: né di colui che scrive, perché egli ha bisogno di un temporaneo arretramento per riuscire a vederlo, né di coloro che egli descrive, perché quel ricordo è tutt’al più il disegno inconscio della loro evoluzione, l’architettura segreta che viene scoperta solo a distanza». È esattamente questa «architettura segreta» ciò che interessa il traduttore posto di fronte a un testo poetico. Un’eco di «ricordo» e «rovina» da intercettare con altre strutture in movimento per raccontarne, in empatia, un’ipotesi, una suggestione. Occorre evitare con cura allora quell’ortodossia della realtà cui fa riferimento Bodei nella citazione poco sopra. Quella patina di cliché, di già detto che imbelletta il cadavere prima della sepoltura definitiva. O, per seguire Rovatti, ecco il traduttore che ruba il mestiere al comico e allo psicotico, inventando un nuovo linguaggio, ricreando, a modo suo, il linguaggio. Se la traduzione possiede un valore dovrebbe trovare dimora da queste parti, nel racconto di un atto creativo. E, come si sa, ci sono cose che possono essere solamente raccontate. Il racconto può infatti astenersi dal dire, o anche permettersi di dire troppo salvo poi portare una mano al viso e dovere nascondere il sorriso imbarazzato che ne consegue. Il racconto nasce come valenza non saturata, abita con agio la creazione di quel continuum sfuggente su cui l’ansia da classificazione tipica dell’entomologo si incaponisce con pazienza certosina senza trovare un limite, senza riuscire a fare cemento dello strano nulla che agisce e mutarlo in detto da sezionare sotto la lente del microscopio. Sarebbe come voler cristallizzare le conversazioni che intratteniamo al telefono nel resoconto che ci manda la compagnia telefonica con il riepilogo di minuti e costi. Pensare di ricavarci qualcosa che definisca o valga per la nostra esperienza quotidiana. Conosco Jamie McKendrick da diversi anni ormai; credo di poterlo dire, lo considero uno dei miei amici più cari, non c’è stata volta in cui io abbia parlato con lui senza che poi me ne tornassi a casa (anche metaforicamente, nella mia lingua) con qualcosa su cui ragionare, riflettere, fosse anche qualcosa da rubacchiare in termini di idee. La nostra è nata come amicizia telefonica, lui sta a Oxford e io a qualche migliaia di chilometri di distanza, tra la pianura e il mare. Ci siamo incontrati, di persona, un bel numero di volte in questi anni, qualche volta in Italia, qualche volta in Inghilterra e una volta pure in territorio neutro, in Spagna. Ciò non toglie che la maggiore parte della nostra amicizia noi, per ovvi motivi, l’abbiamo costruita al telefono. Si sa, il telefono economizza sulle onde sonore, taglia il superfluo, crea un costrutto vocale utile alla comunicazione senza sperperare energie in sfumature non strettamente necessarie. Mi sembra che anche di questo abbiamo fatto un motivo di ricchezza e non di mancanza: condividiamo il piacere dell’essenziale, dello spazio bianco della pagina quando la parola non può arrivare oltre. E tutto questo senza che vada perduto un certo gusto per il tirato in lungo, per tutto ciò che è umoristicamente fuorviante, antieconomico. La British Telecom e la Telecom prendono atto, registrano e ci inviano periodicamente il resoconto di tanto sperperare; non sanno infatti che dietro a quei numeretti pretenziosi si costruiscono le mappe essenziali (almeno per me) di un universo poetico. Appare chiaro dunque che tradurre la poesia di Jamie McKendrick (in un volume dal titolo Chiodi di Cielo, uscito per l’editore Donzelli nel 2003) è stato qualcosa più di un semplice rapporto a tre, autore, testo, traduttore. La traduzione, infatti, ha assunto quella dimensione conversazionale e quasi mai strettamente comunicativa di cui parla Rocco Ronchi in Teoria Critica della Comunicazione. Scrive:
Conversazione sarà dunque per noi sinonimo di quella comunicazione maggiore di cui parlava George Bataille in opposizione alla comunicazione minore che è fatta oggetto della comunicazione. Essa implicherà anche un’altra economia dei beni discorsivi, non riducibile alla dimensione asfittica e avara dello scambio, una economia generale che ha nello squilibrio di un dono asimmetrico il suo primo motore.
Squilibrio, asimmetria e dono sono parole che designano un universo semantico intertestuale ricchissimo per chi si occupa di traduzione poetica. Devo dire la verità: mi si sono aperti gli occhi. Raramente mi era capitato di trovare definito in maniera migliore lo «scambio di doni» che avviene costantemente nella traduzione. Quel dare e ricevere continuo e mai terminato (la pagina stampata quasi mai evita che il traduttore torni sui propri passi e ripensi che un verso qua e un altro là potevano essere resi diversamente) tipico del conversare, il prendere la parola (il proprio turno) basandosi su quanto è stato detto, quanto ci si aspetta verrà detto, quanto non è detto ma rimane sottinteso. Mi sembra davvero un discorrere in grado di sganciare la traduzione da quel perenne affanno di rincorrere teoria e prassi, fedeltà e infedeltà, le categorie classiche, insomma, ma anche logore come lo zerbino all’ingresso di un condominio molto frequentato. Portare la discussione fuori, oltre, su altre dimensioni. Gioisco quando leggo: «La struttura del turno in atto è estatica: nel suo presente convergono, agostinianamente, la presenza del passato e la presenza del futuro. Ogni turno continua il turno precedente in senso meramente cronologico perché lo rielabora a un altro livello ». L’eco della trilogia di Agostino, tra attenzione, memoria e attesa. Tradurre come protendersi? Tradurre come extensio animae? L’idea insomma è quella di un andare e venire del linguaggio senza grandi punti fissi, un gioire di sensi in perenne ricostruzione all’interno però di competenze ricche, nebulose di conoscenze costruite in anni di letture e pratica. Giustamente Ronchi evoca la figura del jazzista che conosce il momento in cui intervenire sovrapponendo solo per un attimo la sua parola musicale a quella dell’altro per poi lanciarsi a esplorare l’argomento della conversazione, fletterlo sino quasi a spezzarlo e poi tornare a casa nella ripetizione comune del tema. Abita un’etica dell’ascolto da quelle parti che sa di civiltà e comunità, un file sharing di idee che scavalca la multinazionale linguistica e costruisce una rete di rapporti e corrispondenze. Nebulose di conoscenze si è detto, ma non per mancanza di definizione, bensì per ricchezza di confini mobili, elettroni capaci di muoversi in salti quantici tra le mille derive dei significati. Il jazzista capace ha elaborato la propria libertà su una disciplina ferrea di esercizi ripetitivi, la tecnica di base non deve avere per lui segreto alcuno. E non è la vecchia questione dell’innatismo, altra perenne diatriba romantica sulle qualità che non si possono apprendere dell’ispirazione e della creatività. È chiaro che non tutti possono arrivare sul K2 senza ossigeno, altrettanto chiaro è però che l’abitudine all’alta quota la si apprende solo frequentandola con assiduità. La conversazione rappresenta la cifra stilistica ricorrente di tutto il cinema di Abbas Kiarostami. Celebri poi, sono i dialoghi all’interno dell’abitacolo di un’auto. Sono «luoghi» spesso disturbati dove la povertà degli strumenti tecnici a disposizione del cineasta iraniano traballa e manca un colpo (un po’ come i walkman prima dell’introduzione dell’anti-shock); conversazioni che riecheggiano continuamente nella speranza mai tramontata di costruire un rapporto. Interlocutori più forti e risoluti del «rumore» di fondo della vita che non si lasciano scoraggiare dall’irruzione del non detto e proseguono nella ricreazione. Nel 1990 un terremoto fortissimo colpisce la regione del Gilan causando la morte di cinquantamila persone. Kiarostami convoca la sua troupe e parte verso i luoghi dove cinque anni prima aveva girato Dov’è la casa del mio amico? La trama del film diventa la quest del regista alla ricerca dei due ragazzini che avevano fatto parte del cast di Dov’è la casa del mio amico? Nasce così E la vita continua che instaura con il film precedente una conversazione fatta di riferimenti, ricostruzioni non solo metaforiche, immagini che aiutano, o cercano di farlo, un paese che vuole tornare a vivere. Nelle parole di Marco Dalla Gassa, la spiegazione di un metodo di lavoro (anche la traduzione, mi sembra, si muove da quelle parti): «Il regista si avvicina agli argomenti trattati non attraverso l’improvvisazione o le facili emozioni. Lavorando con una sceneggiatura flessibile, è costretto a misurare sul campo le forze divergenti della sua ispirazione, affrontando un’operazione intellettuale non di poco conto... Più volte assistiamo a scene dove l’automobile sbaglia strada, torna indietro, si ferma, riprende. L’itinerario non è razionale». Aggiungiamo un altro tassello: Jamie conosce benissimo l’italiano. È perfettamente in grado di cogliere minimali variazioni di significato e ritmo. La consueta pratica che vede il traduttore sovrano della lingua d’arrivo in questo caso non vale; e allora funziona così: traduco i testi, glieli spedisco, ne discutiamo al telefono. Risaltano fuori le bollette. Jamie suggerisce, abbozza, disegna possibili percorsi semantici che sta a me cogliere, variare, riconoscere o disconoscere. Riesco spesso a intuire la direzione delle sue osservazioni, rielaboro, ritorno sulla conversazione, la ricostruisco, ridisegno il passato che abbiamo appena tratteggiato. Le conversazioni scivolano dall’italiano all’inglese, dall’inglese all’italiano. L’osmosi avviene contemporaneamente nella lingua d’arrivo e in quella di partenza, salvo che in questo caso partire significa talvolta arrivare e, ovviamente, viceversa. Qualche esempio a caso: da Lock, l’inglese di At the crank of the windlass in the racks, passa all’italiano di Cigola l’argano sulla cremagliera che rigenera il testo in chiave montaliana, descrive la passione (conosciuta e discussa di Jamie per Montale), la mia personale visione della poesia, l’eco di un ritmo. A un certo punto di Gainful Employment si parla di four angelic wing-nuts che traduco con quattro angelici dadi ad alette, qui traduzione tecnica e tentativo di rendere l’immagine si rincorrono, è in ballo la movable beast, la bestia mobile di qualche verso poco oltre, la scrivania di Jamie (di cui si parla nel testo), il mio ricordo di quella scrivania (credo di averla vista, non sono sicuro), gli anni venti a Parigi tra Hemingway e Fitzgerald (quelli di A movable feast), un certo modo di prendere la vita (descritto in quel libro), ecc. ecc. Pensare che si possa rendere conto delle mille scosse telluriche che agitano anche il più banale dei versi (e dunque sua relativa traduzione) sembra davvero impossibile. Meglio tornare allora in direzione di quel campo instabile ma definito conversazione, quella calibratissima mosca cieca del senso dagli opposti poli: mani brancolanti e benda sugli occhi da una parte, le regole ferree del gioco dall’altra. Mi sembra che ci si muova, come dondolando, tra due delle folgoranti definizioni che trovo in uno dei più bei libri sulla traduzione che mi sia capitato di leggere. Il libro è quello di Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza; le due definizioni riguardano la traduzione come esitazione tra suono e senso e traduzione come educazione alla stranezza. È la parola esitazione a risultare vincente, perché mi racconta di un’etica del sentire, dell’andare con i piedi di piombo, dell’esitazione pensante che precede l’affermazione rivestendola dell’incertezza dell’ora e adesso. Perché esitazione è quella sensazione che ci coglie davanti all’abisso, abisso anche etimologico come caduta del significato dentro al significato. L’esitazione di Jamie prima di proporre una sua soluzione, l’esitazione del ‘panico controllato’ di cui avevo scritto proprio a proposito della poesia di McKendrick – «Spingersi al limitare di uno strapiombo, di un abisso genera la vertigine della fine: sia esso visto dall’alto (Sul Vulcano), dal basso (Sotto il Vulcano), verso l’interno (I Ricordi Prenatali di Frankenstein), nel gioco di specchi delle citazioni (Voi Ch’Entrate). Quello che incontriamo in queste pagine è un McKendrick che tesse la trama intertestuale di fitti rimandi letterari. Senza che questo ne faccia un poeta necessariamente «letterario». Sono alcuni tra i campioni dell’abisso: la vertigine ubriaca di stanchezza e male di vivere di Malcom Lowry, lo sberleffo cinicamente e dogmaticamente interpretato di Dante, la stolta tenerezza di Shakespeare- Gloucester-King Lear intrappolato nell’impudicizia della vecchiaia e della follia». Lo squadernarsi di riferimenti e mondi, di aperture. L’esitazione prevede uno sguardo che contempla allo stesso tempo andate e ritorni, pensieri e ripensamenti. L’esitazione è quella del traduttore che rilegge il proprio lavoro e vorrebbe cambiarlo ogni volta, limare quella filettatura che impedisce alla vite, al chiodo per dirla con Jamie di «unire qualunque cosa al nulla e farcelo stare».
E poi, l’educazione alla stranezza. Scrive Berman:
Ebbene, la traduzione, appartiene originariamente alla dimensione etica. Essa è, nella sua stessa essenza, animata dal desiderio di aprire l’Estraneo in quanto Estraneo al proprio spazio di lingua. Il che non vuol dire affatto che storicamente sia andata spesso così. Al contrario, l’obiettivo appropriatore e annessionista che caratterizza l’Occidente ha quasi sempre soffocato la vocazione etica della traduzione. La «logica dello stesso» ha quasi sempre prevalso». Come si direbbe con una fascetta adesiva su un cd postumo del vostro cantante preferito: the ultimate fan experience. Cos’è la poesia se non questo? E di conseguenza, cos’è la traduzione se non questo alla seconda?
Apertura all’estraneo del linguaggio (e non solo della lingua) del poeta che sperimenta lo spazio bianco violato, l’atto di nominare e del traduttore che apre la propria lingua all’altra in una collisione che crea disagio e spaesamento (e quanto ci sarebbe da dire, invece, sulle traduzioni omologanti che non disturbano e non interferiscono, che scivolano via come le didascalie delle pagine di un settimanale con le foto dell’ultimo flirt alla moda). Verrebbe dunque da chiedere al traduttore (oltre ad avere condotto l’analisi della traduzione, dovrebbe avere anche analizzato se stesso) quell’atteggiamento che, in un contesto completamente diverso, Fabio Giommi definisce come mindfulness: «il prestare attenzione attraverso una modalità particolare, con intenzione, nel momento presente e in modo non giudicante». Nella definizione che Cartier- Bresson (anche lui un campione della traduzione fotografica dell’esistente in divenire) dava di se stesso, «un buddista agitato», mi sembra di trovare un corrispettivo ideale di questa immagine. Viene da pensare alla tecnica compositiva di un Morton Feldman che reitera per ore e ore la stessa frase musicale, variandola di un minimo ogni volta; scrive una frase, poi la riscrive senza tornare a controllare quanto già fatto e così via in un gioco di sovrapposizioni, ritorni, leggere modificazioni. Per ritornare a Berman si potrebbe dire che non c’è bisogno di andarlo a cercare troppo lontano l’estraneo, può stare davanti allo specchio o all’altro capo della linea telefonica.
I LIBRI DI CUI SI PARLA:
Marc Augé, Rovine e Macerie, Torino, Bollati Boringhieri 2004 Antoine Berman, La Traduzione e la Lettera o l’Albergo nella Lontananza, Macerata, Quodlibet 2003 Remo Bodei, Le logiche del delirio, Bari, Laterza 2000 Marco Dalla Gassa, Abbas Kiarostami, Genova, Le Mani 2000 Mario Gamba, Questa Sera o Mai – Storie di Musica Contemporanea, Roma, Fazi 2003 Jamie McKendrick, Chiodi di Cielo, traduzione e cura di Luca Guerneri, con sette poesie tradotte da Antonella Anedda, Roma, Donzelli 2003 Giorgio Manganelli, Incorporei Felini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2002 Jean-Luc Nancy, All’ascolto, Milano, Cortina 2004 Rocco Ronchi, Teoria Critica della Comunicazione, Milano, Bruno Mondadori 2003 Pier Aldo Rovatti, Il paiolo bucato, Milano, Cortina 1998 Vision (a cura di), Il sonno della Ragione, Milano, Reset 2004
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