« indietro TRADURRE INSIEME DALLO YIDDISH - II
COSA FARE CON SHAYLE? di Franco Bezza e Anna Linda Callow Rebe! Ikh vil aykh fregn a shayle vil ikh ayk. Rebbe! Voglio chiedervi un parere.
Così si apre il secondo dei racconti contenuti nel libro Un consiglio avveduto (Adelphi, 2003), il primo con cui si cominciò l’avventura del nostro leyenkrayz. Il termine che abbiamo tradotto con "parere" è nell’originale una parola ebraica che significa domanda e che in yiddish assume il significato di "parere rabbinico riguardo a questioni rituali". La presenza di un simile termine pone due problemi tipici per chi traduce da questa lingua: in quale misura e in quale modo è possibile rendere in italiano le differenti origini linguistiche dello yiddish? E inoltre, come offrire alla comprensione del lettore italiano il complesso mondo rituale ebraico? Per quanto riguarda la prima questione è necessario premettere alcune considerazioni. Come si è detto, nel lessico yiddish compaiono vocaboli di origine non germanica, in misura rispettivamente decrescente: semitici, slavi e latini. Vi sono però almeno due differenti modalità in cui la lingua yiddish si comporta nei confronti di questi vocaboli. Un primo caso è dato dal "prestito" per così dire "inconsapevole": shokhn per "vicino (di casa)", zshurnal per "rivista", "periodico", ad esempio. Qui il termine di origIne non germanica è l’unico disponibile e il problema della sua origine è dunque sostanzialmente dissolto nella quotidianità dell’uso. Un secondo caso, che riguarda soprattutto e in notevole misura la componente semitica dello yiddish, si riferisce invece a quei vocaboli e a quelle espressioni per cui la lingua dispone di più versioni di origini differenti: "eccesso" può rendersi con ibermos o con oydef, "in effetti" può esssere faktish, eygntlekh, ma anche leoylem; "migliorare" può corrispondere a besern o a mesakn zayn; in questi e in moltissimi altri casi, la scelta incide sul registro, talvolta impercettibilmente, talvolta in modo clamoroso e la traduzione deve cercare di darne conto. D’altro canto lo spostamento di registro non è a senso unico, l’assunzione di una versione semitica al posto di quella germanica può dar ragione di una sfumatura dotta o umoristicamente pretenziosa oppure, al contrario, di un moto dell’animo più intenso e più immediato. Traducendo in una lingua che naturalmente non possiede questo tipo di risorsa è necessario, ovunque sia possibile, rendere di volta in volta, con mezzi diversi – un’espressione colta, un termine inusuale o fuori registro oppure un’espressione popolare o altro ancora – le scelte dell’originale. In ogni caso, se è vero che la felicità della traduzione risiede soprattutto nell’equilibrio tra fedeltà e scorrevolezza, il ricorso a espedienti tipografici e redazionali (note al testo e corsivi con rimando a un glossario) va doverosamente contenuto, così come le soluzioni eccessivamente lunghe, che avrebbero forse diritto di residenza in un saggio, ma certo non in letteratura, anche se ciò comporta sovente un’inevitabile perdita di complessità e di densità semantica. Se dunque nel suo insieme il problema delle differenti origini linguistiche dello yiddish può essere affrontato con una certa adeguatezza, sia pure non priva di perdite e di sacrifici, la seconda questione a cui abbiamo accennato, la restituzione, cioè, dei riferimenti al complesso e articolato ambito rituale ebraico, rimane assai più aperta. La disposizione rituale dell’ebraismo orientale oppone infatti alla comprensione da parte del lettore non ebreo e più in generale al lettore "occidentale" degli ostacoli non facilmente sormontabili. La ragione risiede in gran parte nel rapporto tenacemente osmotico tra religione, ritualità e quotidianità domestica della tradizione yiddish (rapporto che non sembra risolversi o quanto meno sciogliersi completamente nemmeno nei casi di scrittori laici). Un’implicazione religiosa, che nel testo originale appare ovvia, può comportare problemi di comprensione se non viene sciolta nella traduzione, ma può altrimenti indurre sofferenza nel lettore obbligato a sorbirsi nel testo un breve saggio di esegesi dell’ebraismo. Si pensi all’uso del termine kaddishim per "figli maschi": il riferimento è al kaddish, la preghiera che (in primo luogo) il figlio maschio è tenuto a recitare in onore del genitore defunto durante il primo anno dalla sua morte e a ogni anniversario (la desinenza im indica il plurale). Appare chiaro che una traduzione letterale è impossibile e che un’improbabile traslazione su un parallelo piano culturale potrebbe solo produrre confusione. In questo caso la scelta possibile è tra la censura del termine in traduzione e il mantenimento della parola originale non tradotta, con conseguente rimando a una nota o al glossario. Quale criterio adottare nella scelta? Pragmaticamente sembra opportuno valutare il contesto in cui il termine venga utilizzato. Se il tenore espressivo è di medio livello, se cioè si può convenientemente supporre che l’utilizzazione sia relativamente neutra rispetto al registro comunicativo, è probabilmente lecito operare una "normalizzazione " traducendo – nel caso – con "figli maschi"; se invece il termine appare con una valenza in qualche modo aggressiva nel discorso, per un rimando umoristico o sarcastico, per esempio, alla tradizione, allora può essere più pportuno restituire almeno in parte, con il vocabolo originale, il colore dell’espressione, varcando la soglia – e soprattutto imponendo di farlo al lettore – del famigerato glossario. Vi è poi un’ultima considerazione, che appare di non poca importanza e che potremmo definire "didattica". Se giusto il testo lo consente può convenire alla felicità della traduzione una certa disposizione all’accoglienza del lettore. Lo si lasci entrare un poco nell’ambiente e cominciare a familiarizzarsi con le stranezze di un mondo a lui estraneo, porgendoglielo con il minimo di difficoltà possibile, sarà l’autore il miglior complice della traduzione, in un percorso che potrà farsi via via tanto più impegnativo quanto affascinante. ¬ top of page |
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