« indietro IVAN SCHIAVONE, Cassandra, un paesaggio, Salerno-Milano, Oèdipus, 2014, pp. 64, € 11,00.
«O Cassandra / le tue occhiaie sono le mie preferite celle di rassegnazione»: così una Variazione di Amelia Rosselli, facendo perno sulla chiusura di uno spazio metrico, catapultava nel «mare del bisogno» il sasso della profezia inascoltata. Quella Cassandra era una voce quasi nemmeno pronunciabile, come affidata al solo suggerimento delle labbra. Qualcosa di incomprensibile, che si inseriva tra il modello mentale e la scelta metrica, e si riaffermava e poi si negava di continuo, a un pelo dal proprio stabilizzarsi sulla superficie sonora. Che cos’è che non si poteva capire, in quella Cassandra? Non certo il nostro futuro, ma piuttosto il suo passato. In lei, nella figura messaggera, e in tutta la strada che aveva fatto per arrivare fin lì – in quell’estremo tentativo di parlare ancora, senza avere ormai neanche più voce – si incarnava una forma decisa, anzi intellettualmente autoimposta dalla Rosselli per smascherare, ai primi anni Sessanta, il simulacro del verso libero. Cassandra come allegoria stessa del metro, della tecnica, si potrebbe dire: profetessa del passato, costruttrice per necessità di una specie di gabbia armonica, il cui paradosso pareva l’unica via per slacciare la lingua e farla muovere. Qualche anno più tardi avrebbe scritto Elio Pagliarani, nel Rap dell’anoressia o bulimia che sia: «da quali campi sono reduci ora», quelle piccole Cassandre contemporanee, irrimediabilmente taciturne, e che nessuno sarebbe riuscito a interrogare? E ancora, all’inizio del nuovo secolo, che cos’altro si sarebbe messo a brulicare dietro la barriera di quel particolare «silenzio che sentiamo insieme», con il quale Giuliano Mesa avrebbe chiuso il Tiresia? Non è improbabile che Cassandra, un paesaggio di Ivan Schiavone (Oèdipus edizioni, collana ‘Intrecci’, giugno 2014; la sua terza raccolta, dopo Enuegz, 2010, e Strutture, 2011) abbia potuto formarsi su questo insieme stratificato di rispondenze, e che ci costringa ora, in qualche modo, a richiamarle. Senza far loro da risposta o da controcanto, ma ricominciando dallo stesso loro cratere, dalle loro risonanze tragicamente cave, svuotate. L’invito di Mesa a ripensare, appunto, il tragico si intreccia ora, nella testualità di Schiavone, con un orizzonte ascolto che richiede una nuova inclusività, un’apertura inusitata dell’angolo di percezione. Il tragico, in Schiavone, non riappare più negli schermi della guerra-videogioco, come nel grottesco ritornellino CNN che faceva da sigla alla guerra del Golfo, al paesaggio di luci verdognole, lontanissime, senza rumore, della Baghdad bombardata. Il tragico ora è più vicino: tocca ora tutti gli spigoli del senso, come farebbero le dita di chi è al buio; si ridescrive cioè dall’evidenza delle proprie dimensioni e angolature. Vi si raddensano i passati di tutte le possibili Cassandre, le loro profezie in forma di domanda, le loro urla impietrate: «che cos’è che in noi che fa noi s’è rotto? / che cos’è (le parole / che cos’è che rompe le parole?». E le forme che accolgono le parole sono ritentate, scosse, concitatamente interrogate anche loro. E ogni volta che una domanda sembra perdersi nella pagina orizzontale, in realtà si sta faticosamente ricomponendo nell’orecchio. Ogni piccola morte è ricostruttiva proprio perché è eccedente, è anarchica proprio perché è riprogettante; e in forza della propria sonorità, ogni volta ricomposta, reagisce alla continuità del foglio bianco. Così, anche il paesaggio del titolo è prima di tutto acustico, poi latamente semantico per necessità: è tutto ciò che può partire da un percepire-in-fuori genuinamente sonoro; dalla deriva, cioè, di articolazioni, di pezzi esplosi di lingua, rielaborati dallo spalancarsi delle orecchie. I versi a gradino tendono come a uscire, a prendere la tangente; le parentesi non si chiudono; i punti fermi segmentano l’intonazione della pronuncia senza delimitarne la curva. Le Cassandre si alzano all’improvviso in piedi dalla posizione accanto alla nostra, a pochissima distanza da noi, che sedevamo lungo il digradare del teatro, persuasi che la scena fosse ben oltre una certa linea di sicurezza. Una linea che era, poi, nient’altro che una soglia di simbolizzazione, da attribuire a una soluzione ritmica, a una citazione o a una figura. Invece ora, nel libro di Schiavone – diviso in quattro sezioni, che sono atti veri e propri di una dialettica tragica, e che d’altro canto agiscono pragmaticamente sul lettore, per come si sviluppano e si richiamano tra loro – lavora una pars construens degli universi simbolizzabili: un orecchio che li smonta, li riprova, li accosta senza diluirli intellettualmente, senza renderli neutri. Le domande di Cassandra sono convocate, quasi ritualmente ridisegnate su uno sfondo di sangue, da un noi che si contorna, via via, in forma di atto tragico. Il rumore intorno è assordante, ma qualcosa del flusso si ferma, e riesce a filtrare: allora, prendere una decisione su una forma, come nella Rosselli, significa salvare una certa vocalità, una grana, un impasto di tessiture eterogenee e combinabili, a costo di far risentire in certe parole qualcosa di antico, di salvabile appunto, di stratificato. Ecco: «disegnata da cedimenti strutturali. designata per l’erranza. derivata dell’attesa. / dai tumulti deprivata. delineata dai tumuli. consegnata ai famuli. ai succubi. ai doppi». Possono suonare così, per articolazioni-ponte sopra un enigma, i versi di Schiavone. La loro possibile “musica” è in realtà una serie continuamente eccedente, fatalmente dissonante, di reperti antropologici; e agisce proprio su un piano, si direbbe, stratigrafico, prima che progettuale: la si incontra per stadi, non la si abbraccia mai nella totalità, come insieme. Si può capire, così, perché Schiavone faccia in un solo libro quattro scelte diverse, che scommetta su quattro paesaggi formali, uno per sezione, uno per ciascuna di queste stratigrafie. E che ogni prova di tenuta, e ogni moltiplicazione delle voci, con ogni distinta ricaduta sonora, funzioni come il richiamo, metamorficamente variato, a una sola necessità: la presenza di qualcuno che sappia dialogare, la molteplicità vitale dei testimoni, delle Cassandre appunto, in tutto quell’errare ottuso che continua ad assordarci, a rubarci la voce, a tenerci allacciata la lingua. (Stefano Colangelo)¬ top of page |
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