« indietro Pasolini e l'antico: i Carmina Burana di Francesco Stella L'idea di una tavola rotonda, associata a letture d'attore, sulle traduzioni di testi classici e medievali di Pier Paolo Pasolini nasce sia da un interesse recente di Federico Condello e Paolo Lago per la versione pasoliniana di brani dell'Eneide, sia da un mio apprezzamento giovanile dell'Eschilo di Pasolini, che ebbi modo di incrociare quasi per caso, come parte di un Premio assegnatomi in età liceale dall'Ente del Teatro Antico di Siracusa. Trovavo quelle traduzioni finalmente parlanti, nonostante - e anzi grazie - alle libertà che si prendevano sull'originale. Al di là delle esperienze personali, negli ultimi anni le traduzioni e gli adattamenti pasoliniani dal latino e dal greco antico sono stati finalmente oggetto di studi adeguati e consolidati da un raffreddamento della distanza critica, le cui punte avanzate sono, direi, il reading curato da Umberto Todini, Pasolini e l’antico. I doni della ragione (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995), l'esplorazione di Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini: mito e cinema (Firenze, La Nuova Italia, 1996) e, più specificamente, il libro di Leopoldo Gamberale su Plauto secondo Pasolini (Urbino, QuattroVenti, 2006), il primo ad analizzare a fondo le modalità traduttologiche dell'autore friulano, fermandosi soprattutto - ma non esclusivamente - sulle commedie plautine, specialmente Il Vantone, brillante adattamento romanesco del Miles gloriosus. Comincia dunque ad esistere una letteratura critica su Pasolini traduttore, che ha già definito le polarità intorno alle quali si dipana la dialettica interpretativa, fra l'attenzione scolastica agli errori di greco e perfino di francese individuati dai filologi come Degani e il ‘fattore vudu' analizzato da Todini come capacità di reincarnazione del classico in una traduzione ‘non di parola ma di contesto', grosso modo coincidente con la versione ‘en poète' riconosciuta da Maria Grazia Bonanno. Il punto di sintesi di queste contrapposizioni giunge sempre a confermare l'autodefinizione dello stesso Pasolini, il quale, difendendosi dalla recensioni di Savioli, che su l'Unità l'aveva accusato di aver prodotto un Plauto troppo poco marxista, dichiarava che ‘dentro i limiti consentitimi dall'onestà filologica e storica, ho forzato al massimo la materia verso un modo di sentire che è nostro', dove ‘nostro' si riferisce agli intellettuali più sensibili all'aspetto sociale della letteratura, ma quel che importa è soprattutto il ‘forzato', segno della personalità dirompente fino all'irriverenza e della chiarezza di un progetto culturale. Mentre gli studi sulle traduzioni per il teatro hanno raggiunto se non un livello sofisticato almeno una chiarezza di posizioni critiche, manca quasi del tutto una riflessione sulle traduzioni di poesia non destinate al teatro: alcune sono state prodotte in friulano negli anni '40, altre sono apparse nel secondo dei due Meridiani dedicati alla poesia di Pasolini (Milano, Mondadori, 2003, pp. 13271505). Buona parte sono state ricavate dalle cartelle custodite nell'Archivio Pasolini, altre ancora sono da pubblicare, come i brani dell'Eneide non editi da Siti, o le liriche di Alceo (Appendice a I confini, in Tutte le poesie, vol. II, p. 568). Nelle traduzioni pubblicate da Siti i testi classici sono frammenti di Saffo in friulano, i primi 301 versi del libro I dell'Eneide, i Carmina Burana 62 e 69, seguiti invece da poeti moderni: francesi (molto Baudelaire), spagnoli, inglesi, tedeschi e giapponesi (dall'italiano) e anche italiani (in friulano). Quella dell'Eneide, in tre redazioni, sembra da ricondurre, secondo un ricordo di Zanzotto, a una traduzione integrale a più mani progettata da Neri Pozza poco prima del '59. Fin dall'incipit «Canto la lotta di un uomo, che, profugo da Troia, / la storia spinse per primo alle sponde del Lazio: / la violenza celeste, e il rancore di una dea nemica, / lo trascinarono da un mare all'altro, da una terra / all'altra, di guerra in guerra, prima di fondare la sua città / e di portare nel Lazio la sua religione: origine / del popolo latino, e albano, e della suprema Roma» Pasolini mostra di scegliere un registro umanizzato, che attenua il contenuto bellico di arma e osa il finto letteralismo ‘profugo' (ora tanto più apprezzabile dopo le acute interpretazioni di Alessandro Barchiesi dell'Eneide come poema della migrazione) e confermato da ‘emigrati' per coioni al verso 12. Pasolini cerca con evidenza una scorrevolezza piana a costo di rinunciare al nome di Giunone banalizzandolo in ‘dèa', ma operando la metonimia ‘religione' per deos al verso 6. Poco dopo, l'attualizzazione di Musa in ‘spirito' conferma la strategia di abbassamento del tono epico e di neutralizzazione dell'apparato erudito che si può contestare ma che risponde a una scelta coerente e, alla lettura, efficace. Finora nessuno ha fermato però la sua attenzione sulle due liriche dai Carmina Burana, la celebre raccolta di oltre 300 poesie satiriche, erotiche e conviviali in latino e tedesco medievale scoperta nel XIX secolo in un codice bavarese di inizio XIII e oggetto della celebre riscrittura musicale di Carl Orff ma ancora non integralmente tradotte in italiano. In Pasolini l'attenzione al Medioevo popolaresco e giullaresco non è inattesa, se si pensa alle sue rivisitazioni cinematografiche di Chaucer e Boccaccio, ma qui siamo di fronte a un Medioevo delicato, esile, musicale, che ha lasciato traccia in 5 fogli fitti di correzioni, senza data, su cui l'edizione critica non ci lascia molta informazione. Come è arrivato Pasolini all'interesse per i Carmina? In Italia gli ultimi tentativi di traduzione risalgono a Edoardo Bianchini che nel 2003 ha curato per la BUR i Canti morali e satirici (cioè la prima delle tre parti di cui è composta la raccolta), fermandosi dunque al volume inaugurale, pur imponente; prima di lui Pier Vittorio Rossi (1989) aveva pubblicato con Bompiani un'antologia utile ma amatoriale, tuttora oggetto di ristampe, e nel '79 lo stesso aveva fatto con maggiore cognizione di causa Eugenio Massa in un libro di minore diffusione per le Edizioni Giolitine di Roma. Nei suoi anni Pasolini poteva averli letti solo nella traduzione di Luisa Vertova limitata a 40 testi, uscita nel 1942 per Fussi, ampliata nel 1952 e ristampata nel 1981 e 1991 per Sansoni; oppure, ma non è stato il caso, nella primissima versione di Corrado Corradini, poeta de La buona novella, uscita a Torino nel 1 892 con dedica ad Arturo Graf pochi anni dopo l'edizione di Schmeller del 1883, e ristampata ancora nel 1928, in ben 4.000 copie, una tiratura certamente superiore a quelle delle traduzioni posteriori, nonostante che il pubblico alfabetizzato dell'epoca fosse notevolmente più ridotto. Ma certo fu la germanista Vertova a rilanciare la conoscenza di questo tesoro della goliardia medievale e Pasolini potrà esservi stato incuriosito dall'interesse per la leggerezza scanzonata dell'eros medievale che i film della cosiddetta «trilogia della vita» 1971-1974 (Il fiore delle mille e una notte, ma soprattutto Decamerone e I racconti di Canterbury) incarnano e che emerge anche in altra cinematografia italiana dell'epoca a soggetto medievale, come il miniciclo dell'Armata Brancaleone di Monicelli (su questo medievismo si ferma ora, dopo altri studi, anche P. Pirillo, Il Medioevo ‘popolare’ neH’Itafia al tempo di De Andrè, in Menestrelli e giullari. Il Medioevo di Fabrizio De Andrè e l’immaginario medievale nel Novecento italiano, a cura di G. Guastella e P. Pirillo, Firenze 2012). I testi scelti da Pasolini sono due liriche celebri, Dum Dianae vitrea e Estas in exilium, canti d'amore tenero e di raffinatissimi rimandi fonici. Il primo, che è stato attribuito anche ad Abelardo ma con scarso fondamento, è un'esaltazione degli effetti benefici del sonno in quattro strofe di metro molto diverso, considerato da Peter Dronke (p. 306 di Medieval Latin and the Rise of European Love Lyric, Oxford 1968), sia pure con qualche esagerazione, la più famosa delle liriche secolari latine (sottinteso: medievali) perché conquista alla poesia in lingua classica nuove aree di significato, trasmutando in modo lirico pensieri che prima vi erano estranei e creando così una nuova unità artistica. Ma è anche una lirica frequentemente fraintesa sia a livello filologico sia a livello contenutistico: le strofe 5-8 sono relegate in apparato dall'edizione Schmeller e dall'edizione Schumann (1941), le uniche esistenti al tempo di Pasolini, e dunque le uniche considerate da tutti i traduttori precedenti. Si tratta infatti di un canto che descrive con sottigliezza e leggerezza fantastica il sonno post-amorem in un ambiente bucolico, ma la perdita della seconda metà impedisce di completare la fantasia del dormiveglia, largamente basata su linguaggio medico-filosofico insospettabile nella prima metà, e di capire che si tratta di amore fisico e non di sogni. Eppure la traduzione delle strofe mancanti si trovava in Corradini, il che dimostra che questo non è stato fra le fonti di Pasolini. Le prime due strofe sono in settenari sdruccioli inframmezzati da quinari, la seconda di dodecasillabi, la terza di senari semplici o doppi e un novenario, con rima monoo bisillabica frequente ma irregolare nelle prime strofe, baciata nelle ultime due. Indipendentemente dal metro, il ritmo creato dalla successione degli accenti è trocaico, incalzante. Un testo infarcito di richiami classici, sia mitologici sia poetici, che Pasolini affronta impegnandosi a riprodurne la struttura stichica: «Come a sera vitrea / spunta la stella Diana / mentre ancora roseo / il tramonto riverbera» per Dum Diana vitrea / sero lampas oritur / et a fratis rosea / luce dum succenditur... La sua versione sembra puntare a mantenere l'evidenza di ‘vitrea' a fine verso, riconquistato dopo un iniziale ma più banale ‘nitida' e all'interpretazione facilitante di lampas come stella, ma si rassegna all'eliminazione del riferimento al fratello (Febo, il sole) come elemento forse troppo erudito: cerca cioè la facilità di comprensione senza rinunciare alla musicalità del versicolo, cedendo comunque agli iati che punteggiano anche la sua poesia maggiore. La modifica principale è però l'interpretazione comparativa (‘come') anziché temporale, che era imposta invece dal dum. La temporale è mantenuta sia nella versione di Vertova (p. 94) «Quando la vitrea lampada di Dione / a sera spunta / e del fratello la rosata luce / l'accende», che accetta scelte lessicali decisamente arcaiche e finti letteralismi (‘lampada'), sia nella precedente di Corradini in settenari alternati a endecasillabi «Quando a la sera brilla / la vitrea faccia di Diana in cielo, / Ed in un roseo velo / Di luce, tolta al fratel suo, sfavilla», che ha un andamento più impetuoso e perde qualcosa in liricità canzonettistica presentando una letteralità a rischio del ridicolo (‘la vitrea faccia'). Anche nel seguito l'attenzione di Pasolini sembra mirata, unico fra i traduttori, all'impervio mantenimento degli elementi sia metrici sia ritmici: lo sdrucciolo ricorrente alla fine dei settenari si alterna con l'accento piano dei quadrisillabi, mentre si affaccia qua e là il lessico familiare a tutta la sua opera poetica (‘smania', in assonanza con ‘rianima'; altrettanto tipica del suo lessico elegiaco sarà ‘struggente' nella quarta strofa). All'interno di questa priorità Pasolini riduce o valorizza immagini dell'originale, ove riduce a ‘una musica' i chordarum pectora che si riferiscono alle corde del liuto (di Orfeo), ma dinamizza l'inclinazione del cuore ai pesi d'amore (cor, quod nutat /ad amoris pondera), chiarendo la provenienza di questa inclinazione. Alla seconda strofa la soluzione «sparge il raggio di Vespero / giù dal cielo / un grato velo / di rugiada che alita / il sonno degli uomini» per letum iubar Hesperi / gratiorem / dat humorem / roris soporiferi / mortalium generi è raggiunta dopo due esitazioni: fra «dai cieli / foschi [...] veli», che falsificava il colore del testo, e il troppo vivace e sonante «dall'alto / uno smalto»; a priori dell'espressione è la discesa del raggio, movimento che l'originale non esprime. Indipendentemente dalla distanza traduttologica, il passo avanti è evidente rispetto al metastasiano «Allor dagli umidetti / Raggi del vespro la rugiada cade, / Ed ogni dolore contro a lui non vale» di Corradini, anche se la resa di Vertova «Lieta Vespero splende / e più gradita scende / messaggera di sonno / la rugiada / sulla stirpe mortale» è forse più corretta globalmente. Più retorica e banalizzante la terza strofa, tranne l'audace scelta di rendere surrepit con ‘insensibilmente giace', mentre alla quarta la scelta de ‘il Sonno' per Morpheus converge nella direzione di interpretazione contenutistica del dato mitologico comune all'Eneide e in genere a tutte le traduzioni classiche di Pasolini. Gli effetti più incisivi si accumulano nel finale, dove il testo latino esprime una serie di immagini di quiete, rallentando al contempo il ritmo attraverso parole plurisillabe, e dove Pasolini forza le scelte per mantenere la rima e l'equivalenza del tono delle immagini più che il loro contenuto reale: Morpheus in mentem / trahit impellentem / ventum lenem segetes maturas / murmura rivorum per harenas puras, / circulares ambitus molendinorum, / qui furantur somno lumen oculorum è tradotto con «Il Sonno nella mente / porta [corretto dopo ‘spira'] una struggente / aria leggera, covoni maturi, / mormorio di rogge, lungo cigli oscuri, / colpi di pale nel silenzio fondo, / che ai dormienti occhi rapiscono il mondo.» Il 69, Estas in exilium /iam peregrinatur, anonimo e corredato di musica spesso incisa e tuttora eseguita in concerti in tutto il mondo, è invece un canto meno controverso ma anch'esso suggestivo: un quadro dell'amore che conserva la sua temperatura anche nell'attenuarsi dei calori estivi. Tre strofe interpretate dalle edizioni come formate da 15, 12 e 21 versi, alternando tridecasillabi piani composti di un settenario sdrucciolo e di un senario piano e gli abituali quadrisillabi doppi o novenari sdruccioli a ‘spezzare' la cantilena ritmica. Dunque è una partitura soprattutto musicale che costituisce una sfida tecnica per il traduttore. E che l'obiettivo sia soprattutto musicale lo conferma la prima lettura della strofa iniziale, impegnata a salvare la rima in ‘-ina' (grazie a neologismi come boschina), ma anche a conservare la differenze fra i versi di lunghezza media e quelli brevi. Una novità interessante è la presenza di parole non finite nell'edizione: «del gelo hanno xxxxato» o «e il cielo di silenzio / xxxxato» o, più in basso, «del gelo xxxxxxxxire» che non è chiaro se siano lettere non leggibili o più probabilmente spazi lasciati per un numero di lettere o sillabe necessario a completare lo schema metrico. Riaffiora il lessico pasoliniano del momento («Amaro / smanio» per Amare crucior, che evita una facile insidia del latino, risolta da Vertova con un retorico «amaramente / soffro») e il gusto dell'ossimoro («muoio / di piaga che mi piace» per morior / vulnere quo glorior), in una soluzione che sposta all'interno del secondo verso (piaga-piace) l'assonanza, considerata impraticabile nella sede di rima, morior/glorior. Le varianti rivelano un deciso miglioramento: dall'espressione un po' maldestra «quella che il mio amore / è felice ferire» a «quella che di ferire / il mio cuore è felice» per que cor felici iaculo / gaudet vulnerare. La strofa successiva lamenta una lacuna al primo verso («Tenera» per Lasciva, blandi risus), evidenziando una volta di più l'incompiutezza dell'esercizio ma anche la difficoltà della locuzione in così breve spazio metrico, e il riapparire del pasolinismo linguistico nel passaggio da «gonfie / ma quanto madide» a «gonfie / ma quanto pure» (migliorato da una prima variante «caste»), detto delle labbra, per tumentia / sed castigate, dove invece Vertova scrive «le carnose / - ma pudiche-»). Quanto Pasolini abbia capito l'importanza delle riprese foniche immediate nei Carmina Burana lo dimostra a soluzione offerta a dant errorem / leniorem (sempre le suddette labbra), che dove Vertova aveva reso prosasticamente «danno uno smarrimento più lieve» modifica con eleganza «danno un lento /smarrimento» che, dinamizzando le posizioni ritmiche, recupera con leggerezza anche un nobile aggettivo polisemico della tradizione poetica e leopardiano/manzoniana. Meno efficace forse «io mortale non credo più a me stesso» troppo letterale per ut me mortalem negem aliquando, che allude alla divinizzazione del soggetto amante così importante nel sistema poetico del XII e XIII secolo e che merita più enfasi, come non è sfuggito al pomposo «onde talor non mi credo mortale» di Vertova e più esplicitamente a «Ch'io, meglio che un mortale, un dio mi sento» di Corradini. L'ultima strofa risente di una incompiutezza ulteriormente aggravata e dunque non può essere onestamente oggetto di analisi: l'unica osservazione che consente è il recupero di «tenera», accanto ad «ilare», per suavis e dulcis che era stato già usato per lasciva e che appartiene all'orizzonte lessicale pasoliniano, comunque migliorativa del banale ma forse più letterale «dolce» di Vertova. Niente più che un esercizio di ritmo e di lingua, ma molto simpatetico al clima e al tono dell'originale, morbido e plastico nella resa anche se incompiuto nel perfezionamento di alcune soluzioni, coerentemente pasoliniano nelle scelte lessicali ‘elegiache' e insieme molto rispettoso dell'allure musicale e della dolcezza sognante dei passaggi principali. Al confronto con le traduzioni più ‘professionali' (ma nessuna fino ad ora opera di un/una latinista) fa spiccare una sensibilità poetica evidente e un guadagno stilistico della traduzione d'autore e documenta l'interesse di Pasolini verso un medioevo sempre carnale ma più di grazia e di musica che di irriverente e popolana allegria. ¬ top of page |
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