« indietro Rassegna di poesia internazionale a cura di MARTHA CANFIELd, Università di Firenze (Poesia spagnola e ispano-americana); GREGORY DOWLING, Università di Venezia (Poesia inglese); ANTONELLA FRANCINI, Syracuse University (Poesia statunitense); MiChELA LANDI, Università di Firenze (Poesia francese); CAMILLA MiGLiO, “Sapienza” Università di Roma (Poesia tedesca); NICCOLÒ SCAFFAI, Université de Lausanne (Riviste e Strumenti di comparatistica); FABIO ZINeLLI, École Pratique des hautes Études, Paris (Poesia italiana). JOAN MARAGALL, Elogio della parola e della poesia con il Canto Spirituale, nella traduzione di Lello Voce, a cura di Nancy De Benedetto, introduzione di Francesco Ardolino, Napoli, Tullio Pironti Editore, 2011, pp. 71, €6,90. Il 2011 è stato l'anno del centenario della morte di Joan Maragall (1860-1911), il poeta che più di altri ha incarnato il modernismo catalano in letteratura. Per misura comune, come ci ricordano i curatori del volume, si tratta di quel movimento che di fatto tutti conosciamo non fosse altro per l'immagine della Sagrada família di Gaudí, un monumento con l'aria di un immenso parco-giochi che si regge su un sincero slancio spirituale, tanto più portante che si nutre di un nazionalismo allora giovane, riflesso diretto della rivoluzione industriale alla catalana, in pieno sviluppo in un paese, la Spagna, allora in profondo ritardo sulla scala dello sviluppo europeo. è uno slancio dunque che in termini di immaginario si dà i contorni di una Renaixença, di un rinascimento che trova nella rifondazione di una letteratura in catalano continuità con il proprio pas sato e una dimensione europea, quella del simbolismo post-romantico in piena sintonia, insomma, con lo Zeitgeist. è una letteratura che porta in sé l'impronta di un vitalismo con punte di un misticismo che vuol dire soprattutto fiducia nei propri mezzi. Perché, così potremmo anche immaginarci il Maragall, come una specie di Whitman catalano, con la differenza notevole che usa una lingua che per istituto metrico e retorico non può geneticamente prescindere dalla tradizione medievale della grande letteratura catalana tre e quattrocentesca. Il casting per questo piccolo omaggio napoletano al poeta barcellonino è quello bene assortito dalla curatrice Nancy De Benedetto: al centro del volume una poesia-manifesto di Maragall, il Canto spirituale, già entrato nel pantheon privato di Eugenio Montale che lo include nel suo Quaderno di Traduzioni (e si ricordi che il Cant è stato tradotto anche da Albert Camus, per dire dell'impatto ‘esistenzialista' del testo) ma qui nella nuova versione di Lello Voce, poeta e performer che lavora da sempre con musicisti e che è stato tra gli sperimentatori del rap all'italiana. L'introduzione è di uno studioso di letteratura catalana, Francesco Ardolino e la stessa De Benedetto traduce per accompagnamento del testo due ‘pubblici discorsi di Maragall', conferenze dall'andamento rapsodico in cui il poeta celebra il potere della lingua e della poesia con una freschezza e energia davanti a un mondo (e a una scena letteraria) allora pervasi da un senso generale di gioventù. Anche in queste la voce di Maragall risuona «ora argentina ora ferrosa», quasi appunto tradizione e nuovo slancio portassero a scambio reciproco di esperienze, apertura al mondo e recupero di materiali anche più vili (perché in natura non può esserci nulla che sia vile). Se torniamo alla Sagrada família, si offre l'immagine di uno slancio gotico delle strutture ma dai contorni impuri sfuocati e terrosi come di una cattedrale di sabbia bagnata. Per questo la traduzione di Lello Voce del Cant si permette non solo di eludere l'impalcatura leopardiana della versione di Montale ma di giocare con il testo, come quando opta per una leggera patina d'epoca o pascoliano/operistica (il troncamento di «il sol che dappertutto brilla») o introduce scorie di realtà, per esempio scegliendo l'aggettivo truffaldino contro la clausola solo un inganno di Montale: cioè lo spirito del testo contro la lettera del testo (ecco il passo per intero: Voce «illusione del lontano e del vicino, / computo del molto, il poco, il troppo / truffaldino, perché è già tutto il tutto?», Maragall «i la il.lusió del lluny i de l'a prop, / i el compte de lo molt, i el poc, i el massa, enganyador, perquè ja tot ho és tot», Montale: «illusione del ‘qui' e del ‘laggiù', / e il calcolo del poco e il molto e il troppo / solo un inganno, perché il tutto è il nulla?»). L'altro aspetto che fa di Voce veramente un buon traduttore di Maragall è che regge il passo di una prosodia che è fatta di ictus regolari come pulsa nel sangue di una buona metrica di tradizione ed è insieme disossata per l'urgenza di mettersi al passo delle falcate più ampie della sintassi. Ecco ancora una prova, proprio nel cuore di una certa monumentalità del testo: «E quando sarà l'ora di paura in cui si chiuderanno questi miei occhi umani, / aprimene altri, Signore, e ben più grandi / per contemplar la tua figura immensa. / Che mi sia la morte maggiore rinascenza» (Maragall: «I quan vinga aquella hora de temença / en què s'acluquin aquests ulls humans, / obriu-me'n, Senyor, uns altres de més grans / per contemplar la vostra faç immensa. / Sia'm la mort una major naixença!», Montale «E quando verrà l'ora del timore / che chiuderà questi miei occhi umani, / aprimene, Signore, altri più grandi / per contemplare la tua immensa face, / e la morte mi sia un più grande nascere)». Sono caratteristiche perfettamente rintracciabili nelle due prose tradotte (con lo stesso passo di marcia del Cant), perché la prosa è davvero in Maragall l'altra forma della poesia. è un arte della parola che ascoltando sé stessa, vuole ascoltare il mondo: «Sono qui da solo in riva al mare. Sono la Natura che sente se stessa». Il mondo, appunto, era ancora giovane, ma sono stati buoni i primi cent'anni di Maragall. (Fabio Zinelli) Poeti del Québec, a cura di Viviane Ciampi, Roma, Edizioni Fili d'Aquilone, 2011, pp. 226, € 15,90. Un rinnovato interesse per il Québec si registra negli ultimi decenni; ne testimoniano le numerose pubblicazioni (tra cui si segnala il recente: Traduire des français: des mots et des mondes, a cura di A. Farina e V. Zotti, Paris, Klincksieck, 2012, che si sofferma ampiamente sulla realtà quebecchese) e le iniziative di successo (scambi culturali, incontri, convegni, conferenze) promosse da varie istituzioni; prima tra tutte il Centro Interuniversitario di Studi Quebecchesi (CISQ) che ha sede a Bologna. Dopo l’uscita dell’Antologia della poesia contemporanea del Québec a cura di Titti Follieri (Milano, Crocetti Editore, 1998), del ricco panorama della poesia quebecchese «Semicerchio» volle rendere testimonianza nelle Antologie di poesia straniera curate per «Repubblica» nel 2004; il volume di «Poesia francese» a mia cura le riservava, appunto, una sezione, presentandovi autori quali Michel Beaulieu e Claude Beausoleil. Qui, come precisa la curatrice nell’introduzione (p. 5), «sono state scelte otto voci contemporanee di spicco, profondamente ancorate al mondo urbano», la cui lingua porta il segno di lotte e sofferenze; voci fedeli, sotto molti aspetti, alla lezione del maestro Gaston Miron, celebre autore de L’Homme rapaillé (1970) scomparso nel 1996. Più ampio spazio nel volume è concesso alla scrittura femminile, allo scopo di mettere in luce la forte incidenza, in questa realtà culturale, di un pensiero di genere già storicizzato; riflesso probabile di una società «di fatto», più fluida e meno condizionata dal fallocentrismo di matrice teocratica ancora per molti aspetti vigente in Europa. Ne testimonia l’uso corrente, non attestato in territorio francese, del femminile «auteure» (su questi specifici aspetti si rinvia agli atti del Convegno: Des mots et des femmes: rencontres linguistiques, a cura di A. Farina e R. Raus, Firenze, Firenze University Press, 2007; nonché al numero 62, giugno 2012, della rivista «Francofonia»: Femmes voyelles. Écrivaines du Québec). Écrivaines du Québec). Una condizione economico-sociale almeno simmetrica a quella della Francia pone certo il Québec in una posizione diversa, sul piano culturale, rispetto alle altre realtà francofone, in cui l’assimilazione linguistico-culturale si carica spesso di rivendicazioni politiche. Il dialogo è più disteso, e l’influenza dei paesi anglofoni in questa enclave francofona favorisce, ben più che un’aspra dialettica con le tendenze accentranti della madrepatria, uno spirito di collaborazione alla costruzione di un’identità comune. Collaborazione fruttuosa anche sul piano linguistico, essendo il Québec, come si accennava, un instancabile laboratorio di inventività terminologica con cui il francese di Francia costantemente si confronta. L’ibridazione culturale franco-anglofona incide significativamente sulla produzione poetica locale, che coniuga certe tendenze formaliste – come ricorda Bruno Roy nella sua postfazione (p. 225) – con l’eredità pop della Beat Generation. L’identità dei «poeti-traghettatori» del Québec, come li definisce Viviane Ciampi, è dunque assai più fluida e articolata di quella francese. Mentre infatti quest’ultima si è oramai assestata su posizioni antagoniste ad una tradizione culturale autoritaria (costituendo, di fatto, un paritetico regime autocratico), la poesia quebecchese si contraddistingue per certo ecumenismo di matrice anglosassone; il suo sostrato culturale di riferimento è quello popolare della canzone (che è forse il genere più rappresentativo di questo Paese), con marche più evidenti di aderenza al quotidiano, di allocutività, di oralità e colloquialità. Ma, come molti di questi autori attestano (è il caso di Nicole Brossard, Antonio d’Alfonso, o Louise Dupré), anche l’anima estroversa del Québec ripiega, da qualche tempo, in quell’autoscopia contrita e impietosa; in quell’erotismo doloroso che la poesia nostrana ha elevato oramai a principio ontologico. Se, per molti di questi autori – ricorda B. Roy – «il privato è politica», un dato in particolare appare degno di attenzione per la sua drammaticità; è il diffuso trattamento letterale, carnale, della «lingua», attraverso il quale si denuncia l’alienazione identitaria del soggetto: «la langue des uns est dans la bouche des autres», scrive Pierre Ouellet (p. 194). Si vedano, in particolare, Louise Dupré: «[…] me voici / os et muscles / […]semblable à ces langues / qu’on exhibe sur les étagères des grands marchés» (pp. 164-5); o, ancora, Pierre Ouellet: «[…] mirages / en chair, en os […] / […] Sur le visage la bouche ouverte / […] leur âme bée, leur langue pend, / les dents qui claquent dans un grand vent» (pp. 180-1). La storia del Canada francofono – a partire da quegli «acadiens» dispersi in mare per aver rifiutato il giuramento al re di Francia – può elevarsi a metafora del mondo globale in cerca di una nuova identità geopolitica e spirituale: «la langue des hommes ne se rappelle de rien / celle des dieux s’oublie dans/les cieux derrière des portes/claquées», scrive ancora Ouellet. «Les hommes mettent un temps fou à repaver les rues» (p. 206), aggiunge Élise Turcotte, con probabile riferimento alla metaforica del pavé divelto che risale alla Rivoluzione francese. Il dramma della nostra epoca quale appare oramai anche in molti di questi testi è, come già vide Benjamin, il sentimento, a seguito del ritiro di Dio dal mondo, di una morte lenta, accompagnato da quello di una catastrofe imminente. (Michela Landi) SARA ARENA, La poesia dell’oggetto nell’opera di Guillevic, con una prefazione di Fabio Scotto, Verona, Fiorini, 2011, pp. 432, € 29,00. Nella nuova vague oggettivista (si veda il recente convegno: Nuovi oggettivismi, tenutosi all’Università di Roma Tre nel maggio 2012, cui hanno partecipato studiosi e poeti) si colloca idealmente questo saggio, dedicato ad uno dei massimi esponenti della corrente che fa capo a Francis Ponge. Sul primato riconosciuto dal più maturo Guillevic (partito, con Sphère o Euclidiennes, da un’esperienza cartesiana), alla «consistenza materica» del reale si pronuncia, nella prefazione, Fabio Scotto1. La cosalità, ovvero la «problematizzazione del dato fattuale», va, come sia l’autrice sia il prefatore sottolineano, nella direzione opposta alle mire del surrealismo (interessato principalmente a forme di ricezione e interpretazione del reale). Essa consiste, anzitutto, in una capacità di sintesi e di stilizzazione percettiva del reale, il quale si presenta appunto come un «coacervo di fenomeni» (p. 8) da registrare, manipolare mentalmente, indi, astrarre. Di qui la centralità che vi assume lo spazio, inteso non come categoria bensì come campo d’azione dove hanno luogo per l’osservatore, tra pieni e vuoti, così come tra corpo e psiche, le relazioni tra le cose. E sarà questo «entre-deux» come non-luogo interstiziale tra il soggetto e l’oggetto (si veda, ad esempio, Creusement, del 1987) che il testo, precipitato plastico del lavorìo della mente, ha la vocazione, più che di abitare (in senso esistenzialistico) di occupare. Prolifico autore con almeno venti titoli al suo attivo presso Gallimard, Guillevic è considerato uno dei principali esponenti della poesia del secondo Novecento. Benché non sia stato, come ricorda Sara Arena, un «lettore abituale di testi filosofici» (p. 23), semmai un estimatore di opere di divulgazione scientifica, egli indaga in forma poetica la grande questione sollevata dalla fenomenologia; nella fattispecie, quel circuito «tra percezione, pensiero e linguaggio» (p. 19) che fu al centro degli studi di Merleau-Ponty. I tratti stilistici della poesia di Guillevic sono riconducibili, in larga parte, all’ambito della corrente minimalista o oggettivista: negazione dell’autorialità nei suoi aspetti emotivi o intellettuali; soppressione dell’articolo determinativo che, eredità di Rimbaud, segna la rinuncia all’appropriazione categoriale del mondo, cui si sostituisce un’enunciazione constativa; adozione sistematica della brevitas e di tutte le figure della detractio (ellissi, brachilogie, «ratures»); rinuncia alla metafora o all’analogia ritenute responsabili di derive impressionistiche. Se, per loro banalizzazione scolastica (riserve Guillevic stesso avanza in merito a certo manierismo rimbaldiano) queste strategie espressive non sono più di per sé portatrici di informazione, certamente, come nota Sara Arena, gli esiti della poesia di Guillevic discendono, come «immagini mentali», da «fattori legati alla sua biografia, alla sua infanzia, alla sua sensibilità e alle sue passioni politiche» (p. 21); come è il caso dell’ideologia materialista rivendicata in Choses parlées (p. 128); o della Bretagna natia stilizzata in Motifs; o di una disposizione alle cose peculiare alla cultura contadina, ch’egli sottolinea nell’intervista Vivre en poésie. Oggetti quotidiani, spesso presenti in forme irrelate, decontestualizzate – e dunque avulsi dall’esperienza affettiva del mondo – appaiono piuttosto i correlativi di un vissuto che risorge in forma enigmatica; muti segni che una crittografia traduce: «Tous les rocs/sont des points/d’interrogation» (p. 70). Il saggio di Sara Arena – della cui accurata documentazione testimonia la ricchissima bibliografia – adotta, come è consuetudine tra i contemporaneisti – una prospettiva sincronica, destoricizzata, più consona all’approccio fenomenologico che qui si richiede. Il caso-Guillevic è così esplorato come oggetto in sé; e solo sporadicamente è posto in relazione con i poeti suoi contemporanei: Ponge, Follain, Frénaud. Questa posizione di aderenza all’oggetto di studio – come l’oggetto di studio è aderente ai suoi propri oggetti ed a fatica se li aliena – rende forse poco operative le suddivisioni interne al saggio. Se la lettura critica è una messa in prospettiva – e, in senso lato, un’astrazione – un disagio sperimentano, innegabilmente, gli addetti ai lavori di fronte a questi nonluoghi del contemporaneo, trovandosi alle prese con fragili categorie, spesso reversibili: Poesia concreta? Poesia astratta? Lo segnala coraggiosamente l’autrice (p. 29), alla quale deve riconoscersi il merito di sfidare l’ostilità che la materia opaca oppone al critico; e di tentare, di fronte ad una vertigine prodotta dal circuito ossessivo: «soggetto-oggetto-percezionerelazione», una «distinzione tra astratto e concreto, […] tra generale e particolare». In questo entre-deux – tra il reale che ci cattura e il simbolo che ci trascende – si situa, infatti, come lei ben mostra, la poesia di Guillevic; erede nazionale di Cartesio, ma, come uomo della nostra epoca, figlio dello spinozismo («Je suis dedans, / Je suis dehors. // Dans le dehors dedans. / Dans le dedans-dehors» (p. 75); «Ce que tu vois, ce que tu touches, / […] c’est le réel […]. Ce que tu ne vois pas et ne sens pas non plus, / […] c’est le réel», pp. 35-6). E, infine, non scevro da certo lirismo crepuscolare che, emanato dalle cose stesse, ha un «ressentiment» sul soggetto (p. 217): «Prenez un toit de vieilles tuiles/Un peu après midi. / Placez tout à côté / Un tilleul déjà grand / Remué par le vent, / Mettez au-dessus d’eux / Un ciel de bleu, lavé / Par des nuages blancs. / Laissez-les faire / Regardez-les» (pp. 190-1). (Michela Landi) 1Fabio Scotto ha dedicato a Guillevic un capitolo nel suo recentissimo: La voce spezzata. Il frammento poetico nella modernità francese, Roma 2012, pp. 213-22.▴ KATHLEEN JAMIE, The Overhaul, London, Picador 2012, pp. 64, £ 9.99 Kathleen Jamie has had something of a charmed life as a poet. Her first short collection Black Spiders was taken up by Tom Fenton’s nascent Salamander Press while she was still at university and immediately procured her an Eric Gregory Award and a Scottish Arts Council grant, which enabled her to travel and write for a couple of years. She was early on the Writer in Residence / Creative Writing gravy-train (thinnish gravy to be sure, but modestly sustaining) which has carried her to her present eminence as Professor of Creative Writing at the University of Stirling. (One assumes that Jamie is not herself responsible for this strangely creative piece of puffery pushing her “module” on that academy’s website: “Seminars will focus on ‘creative process’, language, line, imagery, form etc. In this we will use exemplars from renowned poets. Therefore the skills of reading poetry will be developed, including reading aloud. In the workshops, students will present and discuss their own poetry. Therefore a willingness to offer (and receive) constructive criticism is essential.”) Along the way she has garnered further awards – Somerset Maugham, Geoffrey Faber Memorial (twice) and a Forward Prize for The Tree House in 2004, when she was also shortlisted, for the third time, for the T.S. Eliot Prize. Her latest collection The Overhaul is once again on the shortlist for that prestigious prize and my feeling is that this could be her year. Jamie has often acknowledged the influence of Elizabeth Bishop on her writing and the American poet’s footprint seems if anything more in evidence here than in previous volumes: Full March moon and gale-force easters, the pair of them sucking and shoving the river back into its closet in the hills, or trying to… (Springs, from “Five Tay Sonnets”) The scrupulous imprecision of that “or trying to” is surely pure EB – which is not to say that Jamie is not thoroughly her own woman. And this is not just a question of scattering the Scottishisms, though these are pervasive enough (the opening poem of this Tay sequence has “a teuchit storm”, “redd up your cradle” and “claim your teind”) and the volume indeed contains a bravura rendering of Hölderin’s An die Parzen into Scots – Tae the Fates: “Grant me, Po’ers, jist ane simmer mair / an ane maunie autumn”. Certain favourite themes and preoccupations do seem to recur – after her early success, Jamie has stayed loyal to her spiders, who are generally on the side of the angels: - have you never considered how the world sustains? - the ants by day clearing, clearing, the spiders mending endlessly. (The Spider) nothing now could touch me bar my hosts, who appeared as diffuse golden light, as tiny spiders examining my hair…. (Glamourie) The moon, too, or moons, are recurrent, either rather woozily in Moon or more bracingly in The Galilean Moons where the Jovian attendants of the title are identified with the speaker’s children … gone uncommonly far, their bodies aglow, grown, talented – become mere bright voice-motes calling from the opposite side of the world… Something of a tour-de-force this one, the short lines justifiable vocal units (elsewhere her line turns can seem arbitrary) nicely sustaining a meditative, quiet, conversational pitch. The short line is again brilliantly deployed in the title-piece The Overhaul: Look – it’s the Lively, hauled out above the tideline up on a trailer with two flat tyres… Here the ghost of the exhortation framing the first phrase lingers on behind the poem in ironic counterpoint to the boat’s stricken state, the pathos and jocularity perfectly balanced. It seems churlish to take issue at all with such a well-judged piece (with such a fine book, even), but doesn’t “the stem, taller / – like a film star – / than you’d imagine” fly directly counter to the noble tradition of vertically-challenged starlets from Alan Ladd to our very own Tom Cruise? (John Francis Phillimore) DONATELLA BISUTTI, Rosa Alchemica, con un saggio introduttivo di António Fournier, una postfazione di Mohammed Bennis, Milano, Crocetti Editore, 2011, pp. 150, € 14,00. Canto d’immortalità si chiama la lirica che conclude Rosa Alchemica, l’ultimo libro di Donatella Bisutti. Raccoglie una scelta di testi editi e inediti, scritti nell’arco di ventuno anni e organizzati sapientemente in una composizione dall’aspetto unitario, che parlano di perdita e memoria, di desiderio ed eros. Un io in lutto torna alla vita, alla «quotidiana eternità» con «la radiosa spina che s’infigge / nel suggello del palmo», là dove si concentrano i nervi del tatto, dove fa più male. La radiosa spina riesce a collegarsi a un altro essere (umano), a ricordare a modo suo, da spina sopravvissuta al fiore, la sua condizione mortale – vale a dire: di ancora vivo. Già con il titolo l’autrice ci indica un luogo di carta, di poesia: un filo invisibile ci porta ai versi di Chymisch e Psalm, testi di Die Niemandsrose [La rosa di nessuno] di Paul Celan (autore citato nel saggio introduttivo di António Fournier), in cui – come in Amor/Rosa della stessa Bisutti (nella silloge La vibrazione delle cose) – al bocciolo non è permesso fiorire. Fiorisce, invece, e continua a fiorire mentre aderisce al legno della bara su cui l’io poetico la pone nella silloge Planh , una rosa-pianta, terrena e germogliata dalla terra, che nella sua fisicità si contrappone a quella stretta tra due ossimori nella poesia che dà il titolo alla raccolta. Celan riprende più volte l’immagine del bocciolo che – fermato dalla violenza – non fiorirà. Viene in mente un altro libro importante e attuale della Bisutti Violenza (Dialogolibri 1999). E se la sua Rosa alchemica rifiutasse il carico di ennesimo simbolo nella plurimillenaria storia (letteraria), rivendicasse il proprio valore carnale da semplice pianta – essere vivente, non umano, appartenente a un altro mondo, quello botanico? Una volta entrati nel libro, oltrepassato l’esergo montaliano della prefazione, «Non serba ombra di voli il nerofumo / della spera. (E del tuo non c’è più traccia.)» e dopo uno sguardo alla carta dei Tarocchi (L’innamorato), già all’interno del primo (Eros e Persefone) dei cicli dedicati al mito ci troviamo davanti un breve testo poetico, Incontro a Filippi, che crea, sì, un nesso con Shakespeare e Plutarco, ma nel quale, rovesciandosi il senso alluso, la minaccia diventa desiderio. Non aleggia qui la consapevolezza di una resa dei conti, o, se sì, in positivo, partendo da un momento sognato, non più minaccioso, ma punto d’incontro, punto fisso che permette un collegamento al tu, all’interlocutore assente. Da subito le immagini poetiche cominciano a costruire una scenografia che ri-presenta (invece di rappresentare, come sottolinea António Fournier) la tensione tra quel punto assoluto, e il tempo che continua a scorrere. Perché oltre a essere un libro sulla perdita – le sillogi Planh (Compianto) e Hereafter – Rosa alchemica è una raccolta che contiene un mosaico di tentativi di superare tale perdita, di non accettare la separazione e il distacco, una raccolta in cui i versi vanno alla ricerca di schegge di tempo, di un ignoto, dove è possibile un ulteriore incontro. Le pagine sono immerse in una luce che abbaglia, talvolta violenta, o straniante o obliqua, una sequenza di metafore che costringono ad abbassare le palpebre: «L’ala dell’angelo ruota all’orizzonte / precipita il mondo in un’infanzia di luce» (L’angelo del giorno), «Il cavaliere in mantello di neve porta alto / il calice del liquido splendente / ventaglio fiammeggiante» (Piccola Apocalisse di neve), «specchio di fiamma al sole / fuoco d’acqua che posa» (Rosa alchemica), «La carrucola trae luce dal fondo del pozzo» (Diario di Saorge). Luce che persiste, che mantiene nitido il contorno e la memoria dei versi quando la poesia si chiude. «Il fiore dell’agave» di Bisutti fiorisce – una volta sola – e muore, semplice caratteristica del suo ciclo naturale, ma non è solo nel paesaggio poetico (gli fanno compagnia le agavi di Primo Levi e di Eugenio Montale). E così, spesso, quando la tensione tra i versi diventa difficilmente sopportabile, appare un’eco, un rimando poetico, qualcosa che si posa dall’altra parte dell’altalena, e ristabilisce l’equilibrio. C’è Montale con quegli sprazzi improvvisi su carrucole e pozzi, voli di folaga, e marine che nonostante i riferimenti al Portogallo, dove la poetessa risiede attualmente, e all’Atlantico (che dà il titolo agli ultimi Canti), contengono la memoria della Liguria montaliana, con le sue coste che ha frequentato anche Hans Christian Andersen; e tra le righe degli scritti in prosa si avverte qualcosa come una dedica agli strazianti colloqui di quest’ultimo tra piante, animali e oggetti. (Barbara Pumhösel) ALESSANDRA CAVA, rsvp, postfazione di Cecilia Bello Minciacchi, Roma, Edizioni Polìmata, 2011, pp. 60, € 10,00. Alessandra Cava (n. 1984) esordisce con una raccolta composta da cinque brevi sezioni di testi in versi lunghi introdotte e inframmezzate da brevi poesie orientate liricamente verso il frammento. Il libro sprigiona una forte energia, «tra incanto e ardore», come sottolinea Cecilia Bello nel vero e proprio saggio che analizza nel dettaglio la forma del libro scommettendo per questa sul suo valore. Sono messi in evidenza la «tessitura» fonica e retorica dei versi, il procedere, nelle sequenze ‘lunghe’, per «giustapposizioni», «accorgimenti iterativi», «onde e risacche», con residui della pronuncia di Amelia Rosselli e il pathos di Mariangela Gualtieri. Alessandra Cava ha infatti studiato recitazione presso il Teatro Valdoca di cui la Gualtieri è l’anima. Proprio questa conoscenza pratica del teatro da parte dell’autrice che (come apprendiamo dalla breve nota biografica che nel sito absolutepoetry ne accompagna alcuni testi) ha anche studiato le regie di Peter Brooks ci fa percepire come sono fatte queste poesie dove lo ‘spazio metrico’ si fa, quasi naturalmente, ‘spazio scenico’. Tagliamo qualche sequenza dall’interno del flusso dei versi: «[…] e non m’importa la distanza, meno ancora / sapere se appartiene, meno ancora la mia mano, se si / chiude, ancora, ancora, meno la mia mano -», oppure «copri lo spazio, copri per bene questo spazio a ritroso, / questo spazio sospeso, che sospende il tempo di coincidenze, / il tempo di corrispondenze […]», o, ancora «le parole rubate dal senso inaudito nella testa, per il suono / della testa: ecco, io sono qui e c’è: l’elenco d’infiniti gesti / recisi sul compiere […]». Si vede come l’accumulo di frammenti verbali o di pezzi di frase non sia una registrazione fenomenologica, quanto piuttosto un gesto sintattico, prolungato o sincopato, un’intera frase gestuale. Per di più, proprio negli esempi citati (ma non sono i soli) il gesto è tematizzato come tale: movimento della mano; scansione e possesso dello spazio contro il tempo che è sospeso, appunto come a teatro; catalogo dei gesti possibili. Tutti i processi retorici amplificativi che si possono reperire sono movimenti di testo che mimano un gesto. La realizzazione può essere come quella che accade nel brevissimo testo iniziale: «(coro che cola / io)», dove, analogamente ad alcune manipolazioni de Il colore oro di Laura Pugno, sembra mimarsi una specie di dripping vocalico, una colatura della vocale ‘o’ attraverso tutto il corpo del verso fino a sgocciolare, a capo, nel pronome io. O ancora, passando a un piano concettuale e grammaticale insieme e scegliendo tra i tanti sdoppiamenti osservabili, può essere ‘gesto’ la gemmazione dell’aggettivo che si duplica del sostantivo astratto corrispondente: «indicami quale stella storta, aprimi alla stortura della mia stella», «[…] fossi l’apertura / generosa del valicare, fossi quella generosità del confine a / schiudersi […]» (corsivi miei). Il fatto di scrivere partendo da un progetto tanto ricco quanto aperto ha come corollario che un ‘gesto’ è programmato per non finire. Infatti quasi tutti i testi sono ‘aperti’, terminano il più delle volte, senza davvero chiudersi, su una negazione, espressa direttamente («non so», «non apre» etc.) o comunque implicita («cose di niente», «mezza idea»). È così dunque che il finto ‘shibbolet’ del titolo rsvp, che sciolto vale Répondez s’il vous plait, prende il suo senso nella risposta sempre richiesta e sempre inevasa (sempre che non sia immaginata come fornita dal testo seguente). Ogni poesia è il risultato verbale di questo tracciato, chiuso nell’intensità necessaria per concepirlo e compierlo così come lo leggiamo, è un movimento in avanti che sembra non sapere dove si colloca la sua battuta di arresto, è un’improvvisazione che può compiersi allora per la sottrazione del condizionamento di dover cercare una ‘chiusura’. Tutto il libro costituisce un ottimo tentativo di esplorazione ‘dinamica’ in grado di arricchire di nuova linfa grammaticale l’attuale ricerca in atto sulle poetiche del corpo. F(abio Zinelli) LUCIANO CECCHINEL, Sanjut de stran, prefazione di Cesare Segre, Venezia, Marsilio, Biblioteca novecento, 2011, pp. 159, s.i.d.p. ‘Singhiozzi di strame’, così la traduzione del titolo, è quasi una figura di sinestesia che rivela una fase che potremmo definire gothic della poesia di Cecchinel (nato a Rèvine Lago, TV, nel 1947). Il letame, che nel contesto contadino è humus, sostanza nutritiva, è qui dotato di una voce propria, con un procedimento che può alludere ad un’epica ‘in perdita’, come nel pasoliniano Pianto della scavatrice, ma che soprattutto riporta all’universo di voci di una storia di fantasmi. Le poesie che compongono la raccolta sono state quasi tutte scritte negli anni ’90, la forma del libro come ci appare ora nel suo intero segna però un punto di novità anche rispetto all’uso del medium dialettale, proprio quando la poesia in dialetto è entrata in recessione dopo i fasti poetici e critici seguiti alla sua affermazione negli anni ’70 e ’80 (quando lo stesso Cecchinel esordisce con Al tràgol jért del 1988). La poesia di Cecchinel nasce dunque nel segno dell’’inattualità’. Questo perché alla difficoltà del tipo linguistico alto trevigiano (fatta ancora più ostica da una resa ortografica di impronta glottologica, ora semplificata), si aggiunge che l’autore svolge il proprio bilancio privato nel contesto dello svuotamento di vita e di senso delle piccole comunità montane dove è ormai difficile immaginare anche solo di porre quelle sia pure problematiche premesse all’abitazione esposte in una prosa famosa di Zanzotto. E affrettiamoci ad aggiungere, che anche la poesia in lingua di Cecchinel ha raggiunto esiti originali proprio nel segno di una certa inattualità pascoliana. Il momento in cui Cecchinel cessa di essere un ‘buon dialettale’ per candidarsi ad entrare nel canone della poesia italiana contemporanea arriva grazie a una scommessa di Martin Rueff che lo include in una pregevole antologia francese dedicata ai poeti della Penisola (nella rivista Po&sie 109-11, 2005). Segue l’ammissione nel canone di Parola plurale (2005), in parte orientato in direzione delle neoavanguardie. Prova ora a rinforzarne la posizione Cesare Segre nella sua lunga prefazione, il cui scopo, in un fitto esercizio di close reading, è appunto «di convincere i lettori che con Cecchinel siamo al livello più alto della poesia». Per complessità linguistica, per accanimento nel riproporre e smontare i temi della terra e del disastro ecologico considerato come avvenuto e, soprattutto, nel trarre potenziamento dalla nevrosi che ne consegue (Segre), Cecchinel è autore di forza e intelligenza compositiva poco comuni. Il bagliore emblematico di un lessico che nomina le ‘parole/cose’ del mondo naturale – flora, fauna e lavoro dell’uomo – ha portato, attraverso la repertoriazione e la riattivazione formulare di un tale tesoro linguistico ‘chiuso’, all’oggettivazione in blocco di un universo che in origine poteva essere ancora percepito come lirico. Si può invece ora parlare di una scrittura dotata della coerenza anti-mimetica di un canzoniere e insieme, per alcuni aspetti, post-lirica. A un canzoniere conviene anche la nota luttuosa, qui espressa dal sentimento che l’incanto naturale appartiene ad un mondo in perdita, che il simbolo, insomma, si sta dissanguando. È però completamente evacuato il registro dell’elegia, si riscontra anzi perfino qualche incursione sul registro inusuale, per Cecchinel, dell’invettiva (contro i padroni dell’Italia degli ultimi decenni, sansèr de lisp ‘sensali di viscido’, corresponsabili del disastro). Una piccola parte del libro è ancora toccata dall’umanesimo dialettale espresso da La voze del castagnèr cròt ‘la voce del castagno malato’, con dedica a Walt Whitman (che è appunto un testo degli anni ’70, ispirato al Vecchio castagno di Pascoli, come mi fa notare Francesca Latini). La contemplazione quasi mistica del dettaglio, «an susuro tel bòsc / débol fa quel de fiòc / de nef sul stran» (‘un sussurro nel bosco / debole come quello di fiocchi / di neve sullo strame’), è sovrastata dal lamentarse sfinì il ‘lamento sfinito’ dell’albero morente così da trasportarci in un universo haunted, un mondo di spiriti e fantasmi. Il letame è dotato di una voce propria (un singhiozzo ‘virgiliano’) nel testo da cui è tratto il titolo della raccolta: de là del sanjut sofegà del stran ‘di là del singhiozzo soffocato dello strame’. Il testo è fatto di una combinatoria in virtù della quale gli stessi versi, identici o quasi, si incrociano formando nuovi significati. Si pensa naturalmente alla sestina di Arnaut Daniel, la cui poesia è il picco di quel trobadorismo per niente sottotraccia che da Pasolini in poi caratterizza tanta poesia neodialettale. Soprattutto, tale combinatoria equivale, sul livello metrico/sintattico, alla trama ordita nel libro sul piano lessicale. Il ricorrere incrociato di una serie quasi fissa di lessemi legati ad alcuni campi semantici principali porta infatti alla saturazione degli atti verbali espressi dai testi e conferisce a questa poesia un carattere d’insieme spiccatamente grammaticale. È quanto accade per l’opposizione centrale tra luce/ombra (su cui si sofferma anche Segre), tutta a vantaggio di quest’ultima: «na lus malada de onbrìa» ‘una luce malata d’ombra’, lus cròta ‘luce malata’ (cròt ‘malato’ è lemma presente in una combinatoria assai varia nel libro), con ripiegamento sul primo termine: al scur orbo ‘il buio cieco’, «ombrìe che le inorbis» ‘ombre che accecano’, rinforzato dalla frequenza degli aggettivi tòrgol ‘torbido’, biso ‘grigio’, ‘cupo’. Di luce sono le stelle, però forèste ‘estranee’, o le illusioniste fiantìgole ‘scintille’ del focolare e anche le quasi pasoliniane bùbole sfinide ‘lucciole sfinite’ (le cui sorelle del buio sono le « rùmole barlumide», le ‘talpe abbagliate’). Di uguale rilievo è il campo che riguarda l’incisione delle cose e della loro superficie visiva: zendadura ‘ferita’, ‘spaccatura’, ‘ustione’, sfesa ‘fessura’, crep ‘crepaccio’; campo da cui nasce la geniale rappresentazione chirurgica del manto nevoso: «te i taj del jaz / e le fase del nef» (‘nei tagli del ghiaccio / e nelle bende della neve’). E si potrebbe continuare recensendo per es. i lemmi del ‘groviglio/labirinto’ come gen ‘gomitolo’, ingatedamènt ‘groviglio’, o ancora gli aggettivi impiegati in alternanza tra la sfera sensoriale e morale come patòc ‘marcio’, cévet ‘tiepido’, cet ‘quieto’, sbrauroso ‘spavaldo’. L’oggettivazione linguistica del mondo naturale ha portato al risultato inatteso di un animismo per niente fatato ma addirittura stregato. Esiste infatti un campo semantico e rappresentativo dell’incantesimo maligno: il rastrello si impiglia nell’erba fitta cofà cavéi ingatedadi de strighe (‘capelli aggrovigliati di streghe’), si registrano senc stròleghi e romit ‘segni stregati e solitari’. I paesi sono paesi fantasma, burigòt ‘diroccamenti’ dove vagano figure di spettri. Le case stesse abbandonate con ‘finestre e ballatoi / pencolanti come vestiti sbrindellati’, sembrano mettersi in movimento come tanti San Nicolò (il ‘babbo natale’ che porta i regali la notte del 5 dicembre). Si sentono fantasmi nella nebbia: «si, era quei de lora, / i vée sentisti» (‘sì, erano quelli di allora, / li avevo sentiti’), o emergono dal buio gli zombies con ‘il tramestio di passi di pezza / di una gente silenziosa’, per cui «al sgrisolea ‘l paese stanòt» (‘rabbrividisce il paese stanotte’). Hanno ‘i vestiti sformati / come cartocci di granoturco’ e sono simili ai putinòt (‘spaventapasseri’) di altre poesie. Va qui ricordato che scheletri e spettri riaffioranti dall’erba, vittime di giustizia sommaria in tempo di guerra, sono i protagonisti di Le voci di Bardiaga (2008, su cui Francesca Latini in «Semicerchio» 41, 2009), raccolta in lingua di orientamento, va sottolineato, niente affatto ‘revisionista’. Possiamo parlare direttamente di un universo horror, con la perfezione in digitale (la ‘nebbia’ sopra menzionata è ‘d’argento’) che caratterizza, per esempio, la storia di vampiri di Francis Ford Coppola nel recentissimo Twixt. Così che anche la poesia par quel so coat rucià do (‘per quel suo giaciglio sdrucciolato’), incubo dove il ‘giaciglio’ scivola in un ‘buio cieco’, in ‘un intrico / di festuche, radici, schegge e terriccio […] lungo le fessure / senza termine del buio’ («[…] le sfese / sterminade del scur»), non può non far pensare all’incubo della sepoltura in vita dei racconti di E.A. Poe. Il passo successivo è di notare che se gli spettri e le streghe appartengono comunque e soprattutto all’immaginario notturno del mondo contadino, sono qui strettamente associati ai fantasmi dell’autore. Alcune poesie son dedicate al tema della depressione: quei do de la soa ‘i depressi’ covano la morte e vagano «come can forèsti» (‘come cani forastici’), con la tipica reazione del «olerghe ben al so mal» (‘voler bene al proprio male’). A questi si affiancano i ciòchi ‘gli ubriachi’ «i ciòchi i ge ol ben a la nòt» (‘gli ubriachi vogliono bene alla notte’). Peraltro, nell’alcol, per la sua presenza nell’antropologia della montagna e come tema letterario che può avere un precedente nelle poesie friulane di Amedeo Giacomini, si condensa la metafora che genialmente riassume la sostanza del libro. Si tratta della metafora della ‘distillazione’, atto concreto che vediamo compiersi tra gli alambicchi difettosi di un’altra grappa da sentiero: «sfinì par an secrèto cru / le fae colar senza caljera / e nibie te ciaro de luna» (‘sfinito per un segreto crudo / le faccio colare senza caldara / e nebbie in chiaro di luna’), e che ci spiega qual’è il distillato dell’essenza del lavoro poetico, fantastica, volatile e soprattutto velenosa, quel veleno a cui chiediamo ancora di scaldarci. (Fabio Zinelli) CARLO CUPPINI, Militanza del fiore. Poesie, prefazione Adriano Sofri, Firenze, m&m maschietto editore, 2011, pp. 160, € 15,00. Il primo e il più corposo dei sette capitoli della raccolta poetica intitolato La funzione del corpo. Taccuino politico ha per protagonista o, perlomeno, vi ritorna di frequente come figura, come immagine di riferimento, come modello perduto, la «balena»: «spiaggiata», «minata», mentre «sta implodendo in fondo al mare», «lanciata nello spazio», al punto che il sottotitolo di questa stessa sezione (taccuino politico), volendo parodiare quello del capitolo successivo, stati di grazia sottaceto, potrebbe diventare in definitiva qualcosa di simile a un ‘taccuino sotto-a-cetaceo’. Non abbiamo più la nostra Moby Dick, perfino lei intossicata e arenata in e a causa di quel «mare» per il quale a lungo abbiamo continuato, per dirla con Pagliarani, «come se non avesse senso pensare che s’appassisca», e invece, come al risveglio da un incubo, lo si ritrova ammalato, addirittura marcito, radioattivo, morto. La balena è anche rispecchiamento di ognuno, non solo della perdita dei propri sogni, dei propri ideali, verrebbe da dire di un’etica. Il «ventre della balena» però contiene e fa (ai tanti o pochi Geppetto/Pinocchio?) da cielo residuale e residuato: «l’interno del cetaceo a noi cielo». Addirittura è personificazione dell’uomo stesso: «siamo noi ventre e siamo la balena / siamo cibo cancro letame siamo i calcoli renali». «Polvere e sale / passaggi dell’angelo» è la sezione, la quarta, in cui i versi e le parole si lasciano andare coinvolti e, per così dire, condizionati da uno stato di dormiveglia, restituendo, rivelando riflessioni mezze sognate, mezze pregate: «e mentre il cranio s’affossa / e la cenere va giù dal davanzale / […] / c’è il filo di fumo che sale / [… ] / luminoso ascendente nel ventre / di una notte senza fondo / materiale // questo filo di fumo è il solo modo / attualmente / per mandargli segnali / lassù» (l’anticipo di questa intonazione lo si trova in qualche componimento del capitolo precedente, il terzo, dal titolo Orale. Cinque quadri per Ustica). Tre angeli per un incontro epifanico: uno chiacchiera tranquillamente davanti a un piatto di minestra in cucina (personificando forse la propria coscienza), un altro «sta fumando / appoggiato al lampione» (l’uomo innocuo disarmato), e un terzo, infine, che «è nero ed enorme – lo so – / con grosse penne di uccello», «se ne sta disteso sul tetto / pancia all’aria». Le dimensioni fanno pensare a una balena di quelle spiaggiate già incontrate, ma poi in un pezzo del capitolo seguente, Notte splendente. Canzoni palestinesi, ci si imbatte in «una piuma / di angelo nero […] caduta / dove è stata sganciata» e il contesto è «la tazza caduta nel cesso / anche il coperchio // rimasto cratere per terra». Dunque all’interno di una metafora evacuativo-escrementizia, tramite il vocabolo di richiamo bellico ‘sganciata’, si può intuire che l’angelo nero è probabilmente affine anche a un cacciabombardiere. Certo, a giusta ragione Adriano Sofri nella prefazione rimanda il titolo «Militanza del fiore» allo Stilnovo. Eppure si ha qui la sensazione di assistere piuttosto a una ‘florealità militarizzata’, se si passa il termine, nel senso che, pensando soprattutto ai reportages delle citate Canzoni palestinesi, i ‘fiori’ incarnano gli innocenti o i più deboli attaccati, martoriati, dilaniati, giustiziati in un paese il quale, per reazione e difesa, arma se stesso a sua volta contro chi è ritenuto invasore e usurpatore. Verbalizzare disastri orridi e orrori descritti con indugio di partecipato impegno, utilizzando un medium linguistico affidabile e ‘credibile’, fa affiorare un certo gusto per il sublime civile. (Giuseppe Bertoni) ELISA DAVOGLIO, Detour, Roma, La camera verde, Visioni del cinematografo, 2012, pp. 49, € 15,00. Nella sua terza silloge, Detour, Elisa Davoglio esplora poeticamente la nozione di «deviazione», di «détour» ispirandosi all’omonimo film di Edgar G. Ulmer del 1945 e alla sua tematica centrale: la cieca forza del destino malvagio che fa deviare brutalmente gli uomini dalla linea retta di una vita sana e costruttiva. I primi cinque componimenti si concentrano su varie modalità di deviazione: il crimine (attraverso un omicidio di stampo mafioso); la guerra (fatale per un giovane fisico finito al fronte russo nel ‘43); la malattia fisica (che colpisce un individuo «anonimo»); la separazione (di una coppia che vive il crollo delle proprie amorose illusioni); la malattia mentale (dando voce a Auguste Deter, paziente di Alois Alzheimer). L’ultimo componimento invece condensa la visione che permea il libro in un trittico di forme brevissime che ribadiscono la minaccia del «détour» fatale: «finti intatti / proseguire / per accidenti». La metafora dominante è quindi quella della strada smarrita da personaggi che hanno fatto scelte sbagliate o hanno perso la propria libertà nel meccanismo degli eventi («i soldatini marciano / con la scelta in trappola»). Lo smarrimento tocca tutti (perfino l’omicida, per niente appagato) e tutto è legge cosmica legata all’impossibilità di scegliere fin in fondo la propria traiettoria, come indicano i vari riferimenti alla fisica e alla gravitazione («non si sceglie la direzione / nel moto gravitazionale»). Per tutti i personaggi, la deviazione ha segnato una frattura tra un presente di desolazione e un passato, spesso l’infanzia, che riemerge a tratti e acuisce lo stupore dell’esser lì, vittime del tragico «détour» che la vita impone. Svincolata da ogni schema rimico, strofico, grafico o discorsivo, la lingua della poetessa, senza aulicismi né tecnicismi, si caratterizza per la sua libertà formale e la forte allusività. Colpisce in particolare l’efficace ricorso al flusso di pensieri in cui tendono a mescolarsi in una sorta di simultaneità cubista osservazioni, dialoghi, lampi metaforici, ricordi, fatti e simboli – e in cui possono intrecciarsi, spesso senza punteggiatura, varie modalità di discorso (diretto, indiretto, indiretto libero), varie persone grammaticali (prima, seconda o terza persona). Tocca al lettore abbandonarsi nel prisma di parole e immagini che si dirama e costituisce il ‘mondo’, esteriore/ interiore, vissuto/pensato/sognato dei vari personaggi deviati. La forte allusività come pure l’uso di modi indefiniti («tremare come l’aureola delle candele / davanti alla statua che schiaccia la serpe») e impersonali («è una fede immaginarci vivi / a masticare») permettono di mantenere a distanza un pathos che nascerebbe da un’espressione troppo soggettiva e diretta di quelle vite straziate. L’allusività si fa suggestivamente surrealista quando mima la confusione mentale di personaggi in situazione estrema, come il giovane soldato che sta morendo sul fronte russo (e pensa di dover «uscire / quando passa un sultano con la sua tigre») o come la paziente di Alzheimer che guarda al mondo con occhio irrazionale («cammino sui vetri / dell’albero appeso al cappio / delle finestre»; «la pioggia viene da terra / si spurga in cielo / e coltiva lumache»). Detour ci pare ricco dei suoi contrasti: la lingua che può tendere all’indefinito o all’assertivo («diventare diligenti insieme alla fisica / le particelle camminano ordinate nel vuoto») ci fa entrare paradossalmente nel profondo di mondi psichici individuali; gli eserghi di ogni sezione, che danno una chiave di lettura e àncorano ogni ‘racconto’ nella ‘realtà’ (sociale per l’omicida mafioso, storica con Stalingrado, statistica per l’uomo «anonimo», medica per la malata di Alzheimer), precedono una liberazione della parola nella suggestione più spinta; l’organizzazione della raccolta, precisa, supporta l’idea generale della deviazione e dello smarrimento cosmico – uno smarrimento sottolineato e rafforzato dalla forte allusività del verso. L’ultimo e proficuo contrasto, fondamentale, ci pare consistere nel fatto che il pessimismo tende ad essere illuminato dall’energia decisa di una scrittura che punta alla folgorazione. Così la penultima poesia: «direzione / montaggio / di una incessante malvagità al tornio». (Fabrice de Poli) BIANCAMARIA FRABOTTA, Da mani mortali, Mondadori, Milano, Lo specchio, 2012, pp. 165, € 15,00. Ogni distanza comporta inflessibilmente la presenza di un limite: nel moto di avvicinamento che condensa i termini dell’esperienza umana, tutto viene sottoposto alla fisica rigorosa dei vuoti e dei pieni, fino a rapprendersi intorno all’essenza di una possibilità. E la parola, come può interferire o dare voce a questo quotidiano meccanismo? Come può trasfondere la volubilità nel modo più certo, senza correre il rischio di rimanere intrappolata nell’idea stessa di una frontiera? La risposta che Biancamaria Frabotta ci offre nella sua ultima raccolta di versi, Da mani mortali, volge in direzione di una classicità esemplata dall’aderenza estrema alle cose, dalla continuità dell’esercizio dello sguardo e della ragione, dal rivolgimento dell’animo al livello più alto di chiarezza. La mente e l’animus, appunto, tendono a sovrapporsi, fino a quando la poesia si apre in forma di confessione, svelando i dispositivi della scrittura: «Sono le mie debolezze, le mie imperfezioni / a illuminare la mia oscura sintassi». Quanto alla ricerca di referenti cui affidarsi per la decifrazione dei motivi che tramano il libro, forse due risultano maggiormente accertabili: da una parte sta la riflessione condotta da Petrarca col Secretum sulle afflizioni delle vanità terrestri, sintetizzata nel monito del «Quo pede claudices agnosco», posto ad epigrafe della prima sezione del volume; dall’altra, invece, secondo l’inclinazione naturale che deriva proprio dal riconoscimento di una debolezza istintiva e primigenia (si legga in questo senso anche il poemetto intitolato Le fasi della luna), si trova la già citata percezione del limite, di una «frontiera», intesa alla maniera di Sereni. «Vive nel presente il dialogo fra le due sponde. / Tutto poteva patire ma non la verità/ non di vedersela lì davanti, stridere»: nonostante la specificità del contesto di questi versi, tradotti dal mito di Achille e Patroclo, non si può fare a meno di notare che la ricerca di «dialogo» muova esplicitamente tra «due sponde», cercando la via per accedere «Oltre la soglia», come si legge altrove, oltre la dura veste dell’insignificanza. Poesia, dunque, come necessità di una morale, di rigore e passione: su tali presupposti viene costruito l’intero impianto di Da mani mortali. Una morale fondata, secondo l’antico uso, sul rapporto tra passato e presente, tra natura e civiltà, tra l’orizzontalità del tono e la verticalità del desiderio, tra un sublime immediato e basso e il sublime che spinge le cose oltre la spazialità della loro dimensione ‘mortale’, appunto, tanto da individuare (con una certa risolutezza) i bagliori estremi di qualche verità: «Ramo legato non cresce, briga d’amore / non muta la sua forma accidentale»; «Lenti sono in questi orti i progressi / e qualche volta incorreggibili / come laggiù è il filo delle montagne / o la crescita abnorme delle zucche / che a terra si propaga in un disordine di serpe». Partendo da qui, da Gli eterni lavori della natura e della specie (umana o animale non importa, la specie è quell’insieme di esseri che aspira alla sopravvivenza), avanzando attraverso i taciti sconvolgimenti de I nuovi climi, scavallando gli intralci e «il traffico delle […] imprese/ quotidiane», si arriva infine ai prodotti dell’uomo, alla formulazione di una metafisica che è serie irrelata di dubbi e credibili certezze. Il tutto si svolge poi entro la misura del tono, modulato secondo esigenze diverse, alla stregua del verso, sotto l’insegna di una compostezza che è sinonimo della «felice combinazione» cui Frabotta ascrive l’orbita del creato. Un creato che – incidentalmente – non corrisponde ad un atto di creazione, quanto piuttosto ad un atto dovuto, ad una partenogenesi individuale e assieme collettiva, storicizzata esperita e reale, in quanto espressione del ‘miracolo’ stesso della vita: «All’inizio tutto era presente e informe / ma oggi si battezza un’opera desiderata». E sempre più spesso sono le occasioni della vita, fugaci e montaliani «pensieri di passo» che inseguono o ricalcano un evento, a prefiggere il senso della meditazione, senza tuttavia forzare dall’interno i moduli di un’espressività rivestita alfine di cadenze affabili: «Luna diventò madre in un prato/ incolto, dal nome poco noto. / Stefi, sola, posa da sposa/ in nostra compagnia». Altrove poi si incontrano note di contrappunto, che rovesciano in candore gli adagi sfioriti sulla bocca di tutti, come a rendere vigore, con un giro stretto di parole, alla fisionomia più trita del sentimento: «E nel buio è bello tacere». Perché è una discreta dote di emotività a far da guida, in fondo, assieme all’intelletto, fra le pieghe di micro-canzonieri che confermano, anche in questo Da mani mortali come nel precedente La pianta del pane (Mondadori 2003), la predisposizione di Biancamaria Frabotta a farsi voce dell’amore coniugale, della vita domestica e ammaestrata che si svolge tra gli affetti familiari (si vedano le tre suite rispettivamente dedicate al marito, all’amica Giovanna Sicari e alla madre: All’improvviso, Poesie per Giovanna e La sua ora). Non solo, con pacatezza e pristino vigore (se si risale alle prove de Il rumore bianco, Feltrinelli 1982), torna anche quella vena civile che aveva già contraddistinto la riflessione culturale e la militanza intellettuale di Frabotta, ponendoci di fronte, porgendo dal cavo di «mani mortali», alcuni esempi di poesia in cui la parola è capace di accordare sia sul ritmo disteso del racconto che sulle note della litania cantabile, alcuni dei momenti più tragici della nostra storia: il terremoto de L’Aquila (La casa dello studente) o gli echi della guerra in Iraq (Vattene, Presidente, dai cieli …). (Marco Corsi) JOLANDA INSANA, Turbativa d’incanto, Milano, Garzanti, 2012, pp. 131, € 16,60. Per inchiodare la lingua alla realtà, Jolanda Insana usa tutte le risorse della materia verbale: conia neologismi, recupera arcaismi e termini letterari, predilige verbi con prefissi intensivi o privativi, impiega forme dialettali e tecnicismi. Così è anche nel suo ultimo libro, Turbativa d’incanto. Come ricorda Maria Antonietta Grignani nella quarta di copertina, il titolo è altamente polisemico. Contiene riferimenti al linguaggio giuridico ma ribadisce anche indicazioni di poetica. ‘Turbativa’ infatti è l’impedire lo svolgimento di un’attività, in questo caso l’’incanto’ ossia una vendita all’asta. Ma ‘incanto’ significa anche magia e sortilegio, il titolo allude dunque alla volontà di turbare un incantesimo, di impedire l’ingannevole sublimazione del reale. Non a caso, nel 1982, in Fendenti fonici, una delle sue prime raccolte, la poetessa riscriveva così, con un ribaltamento scopertamente parodico, un famoso verso dantesco: «vorrei che tu ed io uscissimo dall’incantamento». Affermava cioè la necessità di uscire dal mondo autoreferenziale della poesia per caricare la parola di realtà. Turbativa d’incanto si pone in continuità con questo ostinato scavo negli inferi della vita. Per esprimere le brutture dell’esistenza, la poetessa non esita a usare un tono aspro, costellato anche da riferimenti basso corporei, a volte ripugnanti ed escrementizi. La volontà di aderire pienamente al reale è sottolineata soprattutto a livello sintattico dalle numerose serie accumulative che rendono il dettato più incisivo e interessano soprattutto i verbi («pulsa si scompiscia e rutta»; «e ti straccio strizzo e disserro la pelle»; «slecca slappa e va di corsa») e talvolta gli aggettivi («estatica strabica e lunatica»). Rispetto alle precedenti raccolte, la poetessa accentua l’uso di un altro stilema, più discreto ma senz’altro efficace. Delle forme aggettivali connotano e quasi sostituiscono il soggetto del predicato verbale («biliosa concima orti chiusi»; «corrucciata denuncia di essere perseguitata»; «impagliata si porta il vuoto dentro»), in tal modo il qualificativo che fissa una caratteristica della figura femminile è subito sostanziato dalla descrizione di un suo concreto comportamento. La caratteristica più importante di Turbativa d’incanto è però la presenza di sequenze dialogate come La bestia clandestina e L’idiota sottostante. Insana sviluppa secondo direzioni originali una caratteristica delle sue prime prove poetiche che erano fondate sulla tecnica medievale del contrasto e che vedevano affrontarsi in un acceso dibattito vita e morte, poeta e poesia. In quest’ultima raccolta il contrasto è interiorizzato: l’io è sdoppiato e litiga con se stesso. L’elemento teatrale però non è presente solo nella struttura di queste sezioni che oppongono drammaticamente due voci, ma anche a livello di contenuto. «Parte» e «recita» sono infatti termini che puntellano tutta la raccolta e indicano come il soggetto resti impigliato in un sistema di maschere da cui gli è difficile liberarsi. L’alternanza tra monologhi e sequenze dialogate serve forse ad esprimere proprio questo continuo vacillare del soggetto tra l’illusione o, appunto, l’’incanto’ di un’identità in qualche modo solida e coerente e la perturbante scoperta della lacerazione dell’io, del suo essere instabile e contraddittorio. La dimensione psicologica ed esistenziale è fondamentale nella raccolta, ma la riflessione si apre costantemente anche al mondo contemporaneo, al contesto storico e sociale. Il soggetto si confronta con il proprio lato oscuro. La voce etica e pura della coscienza denuncia la parte superficiale dell’io che si lascia anestetizzare dal consumismo quotidiano o che dimentica che «a Baghdad schizzano via / maciullati / 27 bambini / in fila / per le caramelle». La raccolta mostra però che i ruoli possono invertirsi. L’angelica difesa di ideali e l’esibizione di compassione possono rivelarsi tutt’altro che pure in quanto forse manifestazioni di narcisismo. L’acceso ragionare si complica ulteriormente inglobando anche riferimenti all’ambito naturale, in particolare a quello animale. La poetessa identifica somiglianze tra comportamenti umani e animali come nel caso del politico che simile alla «gallina madre» becca per primo e solo dopo pensa che «se resta un chicco sarà per gli altri». Ma i paragoni possono far emergere anche differenze a svantaggio degli umani e del loro essere ottusi: «C’è un’orca nelle fredde acque canadesi / che rimasta orfana e sola / da più di un anno parla con i leoni marini / ma tu non impari nessun dialetto / non canti nessun canto». Non si sa più con certezza se sia più naturale la lotta per la vita dominata dall’egoismo e dalla legge del più forte o l’apertura all’altro guidata dalla ricerca di calore e dal bisogno di uscire dalla solitudine. La poetessa mette a nudo tensioni e contraddizioni che non sono astratte ma attraversano la vita di ogni giorno e turbano, scuotono il soggetto. Se alla fine del libro «esce di scena l’azzoppata iena / muta e scriteriata / e più non urla ti faccio guerra ti spacco», forse si tratta solo di una momentanea tregua, prima della guerra, della sciarra (secondo il memorabile titolo, Sciarra amara, della rccolta di esordio della poetessa) della prossima raccolta. (Ambra Zorat) GIOVANNA MARMO, Occhio da cui tutto ride, Milano, No Replay, 2009, pp. 128, € 12,00. Nel piacere di guardare e di esibire – suggerisce Sigmund Freud – l’occhio si comporta come una zona erogena. Vale a dire: si comporta sotto ogni punto di vista come una parte dell’apparato sessuale. Ciò che più colpisce nella nevrosi ossessiva – spiega Freud applicando il metodo analitico alla dimensione sessuale dell’esistenza – è l’importanza di impulsi che creano nuove mete sessuali, presentandosi indipendentemente da zone erogene. Cosa ha a che fare tutto questo con la poesia di Giovanna Marmo? È stato Giancarlo Alfano a chiarire, in una recensione apparsa qualche tempo fa sul «Corriere del Mezzogiorno», che Fata morta (Edizioni d’if, 2006), lavoro precedente di questa autrice, «ruota intorno a temi e motivi francamente legati al mondo fiabesco […], il che vuol dire intimamente connessi a una profonda dimensione psicotica: dove lo stretto rapporto tra i due universi in apparenza così distanti sta nella rappresentazione frammentaria del corpo umano e nella netta separazione tra l’organo e la sua funzione». Ebbene, da questo punto di vista il nuovo libro è perfettamente in sintonia con il lavoro precedente, che nel 2005 è valso all’autrice il premio Antonio Delfini. Ne faccia fede, come esempio, La mia ragazza II, in cui ritornano tra l’altro un paio di versi (nell’apertura dell’esempio) dal Fiume di Fata morta. E si noti la cruda ‘esibizione’ del corpo offerta al lettore. «Nel mio culo cresce un albero, / lì c’è sempre acqua. Succhia un dito, / ed è dolce. // I miei piedi sono appesi a un filo, / e non si spezza. // Le mie braccia sono lunghe, / non si piegano mai. // La testa, le unghie, gli occhi: / sono in una busta». La novità, in Occhio da cui tutto ride, sta semmai nella natura compiuta dell’organismo, e nella presenza di pregevoli disegni (della stessa Marmo) che accompagnano (pur senza illustrare) i nuovi versi. Oggi, quello di Giovanna Marmo, è un dettato nitido e fermo, e, soprattutto, ossificato: armonioso ma segnato dall’uso sempre più eversivo della punteggiatura, che contribuisce alla stupita intonazione fiabesca. Si leggano i versi di Cane e orso. «Ghiaccio: // verso sera, decido / di attraversare il lago. // Seguo le mani / viste in sogno. // Vuoto. / Cammino con il cane / e con l’orso. // Sulla diga: // a volte cammino io / davanti, / a volte l’orso. // Ora. / Il cane corre per raggiungere i lupi». Il fascino di questi versi sta esattamente nell’energia simbolica (in senso davvero freudiano) della raffigurazione. L’obiettivo è quello di restituire in forma lineare il materiale ideativo più illogico: così da offrire un quadro straniato. È anche un invito ad assumere uno ‘sguardo’ impassibile e duro, e, in fin dei conti, ‘cattivo’: «Non parlava perché, / non aveva mai parlato. // Un giorno le era caduto / un armadio addosso. / Non aveva parlato, // aveva ingoiato. // […]»: dove naturalmente ad essere ingoiato è, come si dice, ‘il rospo’. D’altra parte occorre notare l’azione eversiva della punteggiatura: qui si tratta di una virgola, apparentemente pausa innocua, tra i due versi dell’attacco. E violentissimo è l’incipit della poesia eponima del libro: «Campi vuoti da tennis», con frattura della polirematica nominale per l’inserimento ‘sbagliato’ di un aggettivo. Ma qual è il senso profondo della presenza dei misteriosi animali (lupi ed orsi, ad esempio) che si aggirano in questa nuova raccolta? Dal nostro punto di vista e per riprendere le idee di Freud riportate in apertura, si può aggiungere ciò che lo stesso Freud sostiene nello scritto noto come Il piccolo Hans. «Gli animali debbono buona parte dell’importanza che hanno nel mito e nella favola al fatto che offrono apertamente allo sguardo dei piccoli figli dell’uomo, avidi di conoscere, i loro genitali e le loro funzioni sessuali». (Daniele Claudi) Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini, Torino, Einaudi, 2012, pp. 302, € 16,00. Giunta al sesto volume, l’insolita ed episodica (ma ormai più che trentennale) esperienza dei ‘Nuovi poeti italiani’ Einaudi intende rimediare a una grave lacuna delle tradizionali antologie novecentesche, proponendo, come segnala la curatrice Giovanna Rosadini, un canone di sole donne. Decisione, ci sembra, giustificata non solo da un senso di equità (quella che nel passato poteva considerarsi una lacuna rischia di apparire, nelle crestomazie del nuovo millennio, come un vero e proprio atto discriminatorio), ma anche dall’evidenza che molte delle più interessanti voci della poesia contemporanea sono voci femminili. Si tratta in particolare di poetesse non esordienti e, al contempo, non ancora approdate alle maggiori collane italiane di poesia; l’obiettivo di fondo che, stando alle parole della curatrice, presiede all’intera operazione, è pertanto quello di portare queste autrici all’attenzione del grande pubblico, sfruttando il notevole asset rappresentato dalla pubblicazione in una collana di grande prestigio e visibilità come la ‘bianca’ Einaudi. Ma proprio qui, ci sembra, è da rinvenire il punto debole dell’intera operazione, legato al problema nodale dei parametri selettivi. Scartato il criterio generazionale (delle dodici poetesse, sei sono nate negli anni Sessanta, ma le altre sei nascono in decenni diversi, dalla fine dei Quaranta fino ai primi Ottanta), scartato il criterio della data d’esordio, esplicitamente e programmaticamente rifiutato ogni inquadramento di scuola, tendenza ecc., il volume viene presentato come «una ricognizione quanto più possibile ampia e differenziata sulla scrittura della poesia femminile», intendendo per ‘differenziata’ «non orientata in base a un’idea precostituita di poesia». Tale nonorientamento tuttavia finisce per risolversi nell’enunciazione di un criterio di ‘qualità’ totalmente indefinito nei suoi presupposti. Il fatto che si tratti, stando a quanto scrive Rosadini, di «un criterio qualitativo più che di gusto personale», non fa che palesare una vaghezza metodologica che ci pare rappresentare un pericolo strisciante nella pratica editoriale (se non nell’industria culturale tout court) dei nostri tempi: quella di deporre le armi della critica (che passano inevitabilmente per una giustificazione ragionata delle selezioni operate) rinviando tacitamente all’auctoritas di chi (Einaudi, nella fattispecie) confeziona il prodotto e, in uno col supporto materiale, ne smercia, facendosene implicito garante, anche il ‘valore’. L’ideologia strutturale (l’idea precostituita), cacciata dalla porta, rientra insomma subdolamente dalla finestra sotto forma di criterio veritativo ineffabile (la qualità), imposto, in assenza di altri riferimenti, non per via dialettica ma tautologica (‘la qualità è ciò che l’editore di qualità certifica essere qualità’). Posta questa non marginale riserva di fondo, non ci sembra che Rosadini sia nel torto quando parla di «un sostrato di sensibilità comune» che avvicina tra loro queste poetesse, riunite sotto le insegne della forte tensione conoscitiva, del legame tra scrittura e vita e della concretezza di riferimenti e fedeltà all’esperienza. Categorie, queste, che ci paiono accettabili ma di per sé insufficienti a decidere le sorti di una partita creativa che si gioca, oggi, soprattutto sul terreno del rapporto tradizione/innovazione. Al di là del magistero di Amelia Rosselli, «maestra di tutte», il legame sia tematico che stilistico con il Novecento si rivela in tutte queste autrici profondo e ineludibile, nel bene e nel male. Dal Novecento ancora non si esce, non siamo attrezzati per uscirne: la cattiva infinità del secolo breve ci tiene come in una morsa, e il salto verso nuove forme di scrittura (ma, diciamo più in generale, di intelligenza del mondo), è ancora di là da venire. Le voci più interessanti saranno allora quelle che, misurandosi in tensione agonistica con l’incombente passato, lavorino per evitare i sentieri già battuti dalle varie ortodossie elegiache novecentesche, ridotte ormai a sbiaditi repertori di occasioni patetico-descrittive, fino a far cortocircuitare vissuto e scrittura e «stringersi all’osso dei propri pensieri», per citare una formula di sapore cattafiano che Anedda mutua da Merini. Da questo punto di vista, l’attuale scrittura femminile è sicuramente un passo avanti rispetto a quella maschile, come esemplarmente testimoniato dal tema del corpo, autentico crocevia etico-stilistico che travalica i ristretti orizzonti dell’io lirico per aprirsi all’instabile triangolazione tra identità, componente fisica del vivere e linguaggio. Identità, in primis, come legame con l’ambiente e il territorio: dai luoghi dell’infanzia (centrali nell’esperienza di Leardini) alle piccole e grandi patrie («[…] la geografia che porto / tatuata sotto la pianta dei piedi», scrive Bukovaz, mentre Calandrone e Frene portano sulla pagina i corpi straziati e insieme sacralizzati dagli orrori della storia), fino alla casa-prigione, la cellule à la Louise Bourgeois, che rinvia alla categoria di ‘domestico che atterrisce’ formulata qualche anno fa da Paolo Zublena (interessanti, in tal senso, testi come I vetri, Il pavimento, Il muro, Il lenzuolo, Il cuscino di Candiani, ma il tema è comune anche ad alcune liriche di Fantato). Identità, poi, come instabile accettazione, o franco rifiuto, di formalizzarsi in uno stabile ruolo genetico-biologico, a partire da quelli di figlia e/o madre. Vanno in questa direzione, ad esempio, Frene, segnata dal difficile rapporto con il corpo della madre; Fantato, con la sua attenzione per la fisicità e il mondo degli affetti chiusi entro le gabbie del perimetro domestico; Liberale, sospesa tra ruolo materno e ruolo filiale, entrambi intesi come condizioni di scambio e pedagogia del reale, dove la donna si trova ancora una volta presa nell’eterno dissidio tra empatia e fedeltà al ruolo. Circa la componente fisica del vivere, nelle dodici poetesse antologizzate la dimensione fisica si declina spesso come processo di metamorfosi o fusione con gli elementi del mondo animale e vegetale (dato che accomuna due autrici generazionalmente distanti tra loro come Attanasio e Mancinelli, ma anche mondi autoriali lontanissimi quali quelli di Calandrone e Candiani), fino a conformarsi come struttura machinique, di stampo tra glamour e meccanicista, nelle prove di Pugno (dove il corpo è una macchina che richiede costante manutenzione – la performance, il cibo – e che al contempo produce immaginario erotizzato-erotizzante – l’elemento acquatico). Per quanto riguarda infine l’elemento linguistico, nelle voci più avvertite l’idea del poeta come ‘creatore ispirato’, come mero emittente, lascia il posto all’urgenza di sperimentare nuove modalità di pronuncia, abbracciando una pratica polimorfica di poesia dove la mano che scrive funge da stazione ricevente, cosicché più che agire viene agita dalla propria condizione esistenziale e linguistica («non sono io a parlarle / sono loro che parlano me», scrive Bukovaz). Nel faticoso, doloroso tentativo di forgiarsi una lingua che cerchi di dire questa intersezione tra identità, componente fisica del vivere e linguaggio mi pare risiedere il dato più interessante della scrittura femminile attuale, di cui questa antologia fornisce, sia pur in modo intermittente, alcuni esempi di sicuro interesse. (Riccardo Donati) LEO PAOLAZZI - ANTONIO PORTA, Poesie in forma di cosa. Opere 1959-1964, a cura di Rosemary Liedl P., con un testo di Mario Bertoni, Catalogo della mostra Poesie in forma di cosa, 14 settembre-13 ottobre 2012, Galleria Spazio Fisico, Modena, Edizioni del Foglio Clandestino, 2012, pp. 48, € 18,00. Sembrava conclusa nel 2009, con l’uscita di Tutte le poesie per i tipi degli Elefanti Garzanti, la divulgazione al pubblico dell’intera opera poetica pubblicata in vita di Antonio Porta, esponente di spicco della neoavanguardia e del Gruppo ’63, forse il più schivo dei novissimi, il più ‘assente’ quanto a presenza fisica nella sua scrittura, la più ‘impersonale’ e ‘oggettiva’. Sembrava la sua poesia non avere più segreti o, per usare un’espressione tanto ‘forte’ quanto devitalizzata dall’uso, sembrava non nascondere più ‘scheletri nell’armadio’, mentre alcuni di essi si annidavano placidamente statici in una «valigetta di pelle conservata da Antonio» e custodita dalla moglie Rosemary Liedl Porta. Forse aspettavano quell’occasione, fornita dalla mostra Poesia in forma di cosa. Opere 1959-1964 tenutasi a Modena dal 14 settembre al 13 ottobre 2012 presso la Galleria Spazio Fisico – curata con sobrietà dalla stessa Rosemary, allestita con astuta eleganza dal gallerista Giancarlo Guidotti e indagata nel saggio teso e profondo del catalogo dal critico d’arte Mario Ber toni). «IL POTERE / parodie / e altre novità»; giustapposto di fianco: «È scoppiato / come una / bomba»; di sotto: «i buffoni di corte»; di fianco: «UNA NUBE DI CLORO»; e sotto a entrambe le colonne: «una grande parata militare»; più sotto: «Insieme sulla Luna»; ancora più sotto: «UNA GENERAZIONE DI AUTOMI […]». Il brano di «Cronaca» riportato, non senza difficoltà nel traslitterarlo con perdita conseguente di effetto visivo dell’oggetto fabbricato di parole, non ha bisogno di commento, a livello puramente testuale, per trasmettere all’osservatore l’attualità sconcertante dei fatti e delle ‘cose’ estrapolati, ritagliati dalla vita quotidiana non di oggi, ma di circa mezzo secolo fa, rimasti da allora quasi ‘congelati’ («Poesia congelata» è l’incipit di un’altra «Cronaca»). Passando alle inedite tavole «Senza parole», una in particolare propone la fotografia a colori di un affresco di Raffaello, Adorazione del vitello d’oro, e un reggiseno in bianco e nero in primo piano. «Venereremo (Venere remo, direbbe Bartezzaghi) il reggiseno al posto del vitello o stiamo cercando Raffaello come sponsor per la ditta di reggiseni?» si chiede sardonico Mario Bertoni, indirizzando così la lettura secondo un percorso dell’arte di ascesa/ discesa demistificatoria dell’aura sacrale che avvolge il ‘grande’ Raffaello, citato metonimicamente per tramite di un suo dipinto, nel momento in cui è accostato a un prodotto anonimo di consumo di massa. Ma, pensiamo, la tensione della tavola offre anche altri spunti, da risolvere in una sorta di ascesa/ascesi analogico-concettuale delle due immagini giustapposte in quanto ‘cose’, indipendentemente da chi le ha prodotte. L’erigersi allora verso l’alto del cielo di braccia e occhi idolatrici in atto di adorazione del vitello biblico, simbolo di culto orgiastico, fanno sovvenire per ripetizione paronomastica l’erezione eventuale provocata da un attillato reggiseno di pizzo qualsiasi, che modella e viene esaltato dalle forme piene, sode e carnose di cui è ricolmo, senza le quali l’indumento intimo rimane privo di contenuto proprio come un vitello d’oro: vuoto simulacro. Difatti a indossare il reggiseno è solo un busto di femmina senza volto né nome. «Provocare molte forme» era intento basilare della poetica di Porta. Il commento di Sanguineti ai primi testi poetici lineari di Porta proseguiva richiamando «quelle tali vignette da completarsi, appunto, dove quel che pare un albero è poi un veliero sopra un mare in tempesta, e le nuvole diventano tutte balene». Sorprendentemente la figura utilizzata si adatta a una lettura interattiva anche di queste tavole. Senza contare che circa un ventennio dopo, in tutt’altro contesto (è trascorsa l’esperienza della poesia concreta), con tutt’altro trattamento della parola (in essa Porta vi si immerge con lo scafandro del palombaro, Sanguineti la traveste e vi si camuffa manipolandola), con tutt’altro atteggiamento poetico (ad esempio la crudeltà implosiva della parola in Porta non è l’ironia caustica e esplosiva di quella sanguinetiana) Rebus e Cose saranno i titoli di raccolte di versi di Sanguineti, a riprova di un gusto per un ambito enigmatico/enigmistico della poesia, e, forse, a chiusura di un cerchio di un’epoca. (Giuseppe Bertoni) Poesia contemporanea. Undicesimo quaderno, a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2012, pp. 285, € 20,00. A voler vedere un proverbiale filo rosso dipanarsi tra le poesie dell’Undicesimo quaderno – come gli altri della serie, una raccolta di raccolte più che un’antologia – potremmo trovarlo nella definizione di identità, che impegna in modi distinti ognuno dei sette autori convocati: Yari Bernasconi, Azzurra D’Agostino, Fabio Donalisio, Vincenzo Frungillo, Eleonora Pinzuti, Marco Simonelli, Mariagiorgia Ulbar (tra i prefatori, poeti come Fabio Pusterla, Rosaria Lo Russo e lo stesso Buffoni; e critici come Giancarlo Alfano, Uberto Motta, Fabio Zinelli). La definizione d’identità agisce tanto sul piano tematico, quanto su quello formale o, più precisamente, enunciativo. Da un lato, infatti, il fuoco di queste poesie consiste nella ricerca di un rapporto con la realtà (con la storia, con le esistenze intercettate), che le sospinge quasi spontaneamente verso una soglia etica. Dall’altro lato, l’identità si esprime nella grammatica del soggetto, che spesso non è un ‘io’ liricamente inteso: è una terza persona, o un soggetto collettivo, o ancora un io che mette la voce in maschera per spersonalizzarsi. Non si tratta però, in genere, di strategie di fuoruscita dalla lirica (riconoscibili piuttosto nel Decimo quaderno, dove spiccavano le forme poematiche e i generi d’incrocio, dal memoriale al racconto in versi, al dialogo). Qui invece c’è come la volontà di riuscire postlirici senza essere antilirici (anzi, accentuando le movenze liriche fino allo studio, o alla maniera: non si rinuncia al lirico ma si estende l’ambito di sua competenza anche a uno spazio oggettivo, fuori dell’‘io’; o alle periferie di un immaginario che gli affetti e il pathos sottraggono al degrado). Quella del ticinese Yari Bernasconi, e dei protagonisti della sua poesia, è un’identità di confine: tra Italia e Svizzera, innanzitutto; ma anche tra l’‘io’ e gli altri, che abitano le storie di una comunità, di una generazione che ha patito il trauma esistenziale e storico-sociale dell’emigrazione. È plurale, infatti, la voce del lamento che si alza dai cantieri: «Non è lontana, l’Italia, ma noi siamo bloccati / in questi gorghi di pietraie, incollati a questi attrezzi / logori e scuri, sporchi di detriti e di sangue, le mani / e le braccia incrostate da piccole ferite». Il tema del lavoro, come spesso accade, è qui un veicolo di valori civili; ma il racconto di un’umanità dolorosa si addensa anche intorno al tema padri/figli (in una poesia quasi verghiana, come Una conversazione con T.: «Alla fine, sporca e ricoperta di terra, / chiamai mio padre. / Non avevamo ritrovato nulla»; o in L’uomo che corre, nella serie intitolata La montagna di fuoco). I contrasti che Benasconi rappresenta, per esempio riguardo alla società e alla storia recente della Svizzera, sembrano trovare un’applicazione formale nell’insediamento della metrica entro il corpo prosastico della poesia, regola e grazia sbalzata a forza da una superficie dura: così, per esempio, in Cartolina da Herisau, l’endecasillabo risalta contro lo sfondo dei versi lunghi e nonostante le ipermetrie: «È strano che in un bosco, proprio qui, / ci sia il corpo senza vita di una bambina. / Così stonato. È strano che una terra come questa / dia anche, ogni tanto, di che morire». Nei versi di Azzurra D’Agostino si può osservare un fenomeno quasi di spersonalizzazione dell’‘io’ che si riconosce e si fonde nel ‘noi’, il soggetto che assume la responsabilità dell’enunciazione: «attraverso una terra di chi / passiamo noi, noi la schiera / del coro scrostato del dipinto». Ma il ‘noi’ di D’Agostino non si erge mai al ruolo di istanza retorica, anche quando si avvicina a un’intonazione civile, azzardando la parola «nazione» (proprio in Attraverso una terra di chi). Più spesso, invece, ‘noi’ è il segno umile della volontà di umanizzare e condividere il paesaggio con i ‘simili’, con le creature, altrettanti personaggi di un’avventura senza trama. Questa disposizione verso le cose vale a riscattarle dalla semplice funzione di correlativi oggettivi (a cui pure si avvicinano, ma solo al livello retorico): «Quanta sete tra i nostri simili, che lunga malattia / ci affligge – questo è chiaro nel vedere come sta / composta la zolla riversa, il passero arruffato annodato / al ramo spoglio, il vaglio delle ore che fa il gatto alla finestra». Il motivo del paesaggio suscita, per antitesi, la rappresentazione disforica di una periferia «su cui ci sfianchiamo». D’altra parte, natura e paesaggio non appartengono a una dimensione esclusivamente consolatoria; possono infatti rivestirsi dei colori perturbanti dell’ansia, della perdita, espresse attraverso la forma del catalogo – figura di una ricerca senza esito: «E c’è questo salice immenso, e il cielo strozzato / nei monti e poi il gelo dove i passeri stanno vicini / […] / ti volti guardi non c’è nessuno solo tu incorniciato / da scogli cortili palazzi vitigni strade nuvole anni». Nei versi di Fabio Donalisio il soggetto porta in maschera la propria identità, frastagliando l’espressione lirica del sé attraverso un gioco allusivo di citazioni poetiche e musicali di altezze diverse (il Leopardi di A se stesso e La ginestra, innanzitutto; poi Saba e Montale – «rubo montale, nel mio pieno diritto», dichiara l’autore – fino a Leonard Cohen e Young Marble Giants di Colossal Youth). I frammenti ‘colti’ incastonati nei versi di Donalisio non puntellano le rovine di una civiltà, ma assomigliano piuttosto a omaggi agli idoli di una contestazione che attende ancora di trovare una direzione autonoma in cui incanalare la propria energia. In questo senso, il ritmo e il metro fortemente sincopati e la rima martellante traducono in forma il senso di rivolta, come in un rap: «rivendico il diritto all’incostanza / alla linea interrotta al buco / alla danza / l’indisciplina come forma e sostanza / di una cosa poetica» (manifestino). L’identità lirica nella poesia di Vincenzo Frungillo assume un risvolto filosofico, mescolando al côté esperienziale quello sapienziale. Ciò avviene soprattutto nella silloge La fine di Lucrezio, ispirata ai modi e ai contenuti del poema didascalico. Proviene dal De rerum natura, infatti, il motivo del clinamen: la meccanica che presiede alla variabilità dell’esistere e ne provoca la mutazione costante: «Ma adesso cosa avrò da dire, / cosa avrò da raccontare, / come rivelare il sublime, / l’iridescenza del clinamen». La ricerca del sublime non produce un atteggiamento di rinuncia crepuscolare o di paradossale canzonatura (come in Giudici, per intendersi), ma si esercita nella tensione che trasmette altezza tragica anche ai fatti contemporanei. Penso in particolare al Coro dei dispersi: «Siamo annegati vicino Lampedusa, / altri sono dispersi al largo della Puglia, / siamo una falla della Storia, / solo questo ci accomuna». Eleonora Pinzuti si misura con il difficile compito di estendere il dicibile lirico alla dimensione del domestico. La sua è una ricerca della parola famigliare, da portare alla luce attraverso il racconto per frammenti di una formazione a ritroso: dagli anni dell’università a quelli all’infanzia. Il nesso tra le due stagioni sta nella memoria e nel linguaggio, anzi nella memoria del linguaggio, condizione per la conquista di un luogo nel mondo e per la tenuta del sé nonostante quel mondo. Il personaggio che, nella poesia di Pinzuti, meglio incarna la funzione di custode affettiva delle parole è quello della nonna, a cui sono dedicati i versi più intensamente effusivi. L’idioletto dell’infanzia si proietta nell’esperienza successiva, non solo attraverso la rievocazione, ma anche per mezzo di una fusione di linguaggi: quello di Eleonora nipote bambina, e quello di Eleonora formata nella letteratura. È esemplare, in questo senso, la fine della poesia inziale: «Come quando, in un bar per la strada, / suggeristi a noi, davanti al primo cappuccino, / ‘Bimbe, rumatelo bene’» – dove la situazione e il tratto lessicale, che rimandano alla dimensione larica, si contaminano con la memoria letteraria: il Montale della poesia La bufera, che proprio all’inizio dell’omonima raccolta celebra tutt’altro congedo («Come quando / ti rivolgesti e con la mano, sgombra / la fronte dalla nube dei capelli, // mi salutasti – per entrar nel buio). I montalismi nei poeti dei Quaderni italiani: potrebbe essere il tema di uno studio anche cospicuo. Nel caso di Pinzuti, però, Montale non fa solo parte di un’araldica letteraria, ma è attratto nell’orbita dell’esperienza e degli affetti, come rivelano i versi di Philos («L’aula dove / commentavi Montale / dietro il filtro delle Philip Morris blu / è deserta alle cinque del pomeriggio»), dedicati a un altro nume femminile: la filologa fiorentina che curò l’edizione critica dell’opera in versi montaliana. Fiorentino è anche Marco Simonelli, che disegna un percorso di formazione d’identità, parallelo alla costruzione di una prospettiva socio-morale. Il soggetto di queste poesie esercita una sorta di ‘doppia vista’, che abbraccia soprattutto le esperienze passate (infantili, adolescenziali) con l’occhio straniante del bambino o dell’adolescente di allora, ma rinarrandole con l’umorismo della maturità. Umorismo anche formale, affidato a una metrica vistosa e arguta (penso ad esempio alla combinazione di misure settenarie e endecasillabiche nei primi versi di Pretty Picture: «Si sciolsero i Soft Cell nel millenovecentottantaquattro / e questo è confermabile, lo dice wikipedia, è un fatto vero»), alle callidae iuncturae, all’allusività. Nelle forme c’è forse a volte un ricordo rosselliano (come pensa la prefatrice, Rosaria Lo Russo), ma la ‘postura’ del soggetto sembra piuttosto tondelliana: elegia che assimila nella memoria, in forma non necessariamente ironica, l’alto e il basso, il modello e la sua attualizzazione. L’effetto elegiaco riesce a una messa del presente in prospettiva, facendolo apparire postumo a sé stesso; è un pathos in falsetto ma mai inautentico (vanno ben oltre la parodia di Luzi, Presso il Bisenzio, i versi in chiave transgender di Alle CascineBattuage: «Loro sono tre, non so se donne e uomini. / Uno la più smaniante del notturno lavorio, / mi si pianta davanti e sibila: ‘Tu? Tu non sei dei nostri’»). Difficile equilibrio – e forse ancor più difficile tenuta, sulla lunga distanza – in cui Simonelli riesce però a stare con consapevolezza. Quella di Mariagiorgia Ulbar è una poesia ‘in viaggio’ (si veda l’epigrafe oraziana premessa alla silloge Su pietre tagliate e smosse: «Caelum non animum mutant qui trans mare currunt»; si leggano, soprattutto, i molti versi che disegnano una geografia più o meno lontana punteggiata di nomi evocativi, «parole che mi piacciono… Fossa delle Marianne e Finisterre») che racconta un transito attraverso gli oggetti, res extensa a cui l’io delega una parte della propria identità, affidandole la responsabilità di esistere senza farne strumento al proprio servizio. Ulbar, tra i poeti più promettenti di questo quaderno (e già in possesso di una discreta ma consistente misura formale, specialmente a livello strofico), preferisce indagare il reale con curiosità o sospetto; senza fare dell’oggetto un simbolo, ma una sineddoche – parte di un tutto a cui appartiene la stessa voce che alterna l’io al noi: «I ricci del castagno / la tua mano sinistra / non li tocca perché pungono / e pensa allora in gola // messi in gola a noi / che siamo troppi e troppo grandi / per una strada di bosco ondulata / che non svolta quasi mai». (Niccolò Scaffai) MARILENA RENDA, Ruggine, con una prefazione di Maria Grazia Calandrone, postfazione di Manuel Cohen, Sasso Marconi (BO), Circolo culturale Le voci della luna, Buccinasco (MI), Edizioni Dot. com press, 2012, pp. 88, € 10,00. A partire dal Tiresia di Giuliano Mesa (2001), la scrittura poematica ha vissuto una rinascita nella letteratura italiana del nuovo secolo. Nell’arco di dieci anni si sono susseguiti, per fare solo alcuni esempi, Cefalonia di Luigi Ballerini (2005), Le api migratori di Andrea Raos (2007), Ogni cinque bracciate di Vincenzo Frungillo (2008), e da ultimo Ruggine di Marilena Renda. Intento della Renda è quello di ‘narrare’ le vicende accadute a Gibellina, sua città natale, a seguito del terremoto del Belice nel ’68. Se il tema si presterebbe facilmente a stilemi neorealisti, la poetessa sfuma la storia e il linguaggio, parlando con una «lingua cieca» (tipica degli indovini) e dando così l’impressione di affrontare l’argomento come una profezia retrospettiva. Gibellina, centro nevralgico del poema, viene sfumata anch’essa: per ‘denominarla’ si utilizza sempre un ‘sinonimo favolistico’, Gibilterra, come per collocare la città in uno spazio sì più distante, ma anche più carico di significati storico-mitologici, in modo da conferirle maggiore autorevolezza letteraria. Gibilterra è dipinta come uno spazio che, se in un ‘prima’ solo accennato appariva una tranquilla città del sud Italia, dopo il terremoto diviene un luogo dalle tinte cupe, le cui caratteristiche non possono più mutare. Gibilterra sembra essere condannata ad una condizione ontologicamente purgatoriale. Non è certo un caso che nel poema non si usi affatto l’imperfetto narrativo. Il tempo di Ruggine è solo il tempo presente. Che si tratti di ‘presente storico’ è indubbio, ma la sostanza è molto più profonda: la Renda descrive le azioni, utilizzando solo il verbo presente, per significare che il male purgatoriale è ormai connaturato nella città di cui sta scrivendo. In questo modo le condizioni della città appaiono come immutabili e senza possibilità di rivincita. Il male è nella storia «che siamo noi quella tempesta, che tempesta // è questa storia». Questa tempesta, che implica anche il perenne stato di ‘tremore’ in cui si trova quella terra, è storia corale: «l’io ricostruito è un pomo secco, smangiato», e l’unica alternativa per rifuggire dalla scrittura diaristica degli eventi è dare spazio al ‘noi’. Nello scontro titanico con la physis non ci sono né eroi né colpevoli ma i ‘personaggi’ che popolano il poema sembrano delle semplici comparse, le cui vite vengono appena accennate: compaiono per pochi versi, molto spesso non più di una strofa pentastica, e poi svaniscono. Già Elio Pagliarani, ne La ballata di Rudi, ad esempio, aveva dato prova dell’entropia dei protagonisti: nel secondo poema del poeta di Viserba, infatti, vi sono delle sezioni in cui, nel giro di poche righe, si trovano, secondo la tecnica dell’accumulo, più di dieci attori. Nel lavoro della Renda l’entropia e l’assenza di un personaggio centrale, oltre ad avere una loro pregnanza strutturale, hanno significato ‘allegorico’. La dispersione dei nomi nell’arco del poema può infatti significare sia un dato esperienzale, in quanto l’autrice quei personaggi e quei nomi li conosce e li conosceva davvero, sia, allegoricamente, lo stato di confusione e di dispersione degli abitanti della città dopo l’intervento del terremoto, unico vero ‘protagonista agens’. È il terremoto infatti che, quasi umanizzato, secondo uno schema ‘tragico’, agisce, modificando il paesaggio in cinque fasi, descritte con una perizia che ricorda le trattazioni antiche sulle metamorfosi degli uomini in bestie. Una volta che il terremoto ha agito su quel ‘noi’ prima unitario e ora disperso, non c’è più spazio che sia integro e familiare. Le baracche stesse, chiamate a supplire ‘temporaneamente’ l’assenza di dimore dopo la catastrofe, ed il cui ruolo è tematizzato nella terza parte del poema, hanno un carattere ambiguo. Nido apparente e fonte di meraviglia per la «bambina» i cui occhi, quasi fossero «crisoliti», si illuminano al loro interno, le case di amianto non concedono fuga dal purgatorio: esse sono «casa che offende e difende», o ancora casa che «non protegge e non punisce». Lo stato purgatoriale ineluttabile della città, inoltre, rende eccezionali i protagonisti di quella «bufera»: incolpevoli e passivi nei confronti della ‘natura-agente’, gli abitanti di quel purgatorio sentono la colpa nei confronti delle vittime, in quanto solo a loro è concessa la possibilità di camminare ancora «la terra che non trema». (Luciano Mazziotta) FEDERICO SANGUINETI, 1-23, postfazione di Tommaso Ottonieri, Napoli, d’if, 2011, pp. 45, € 10,00. Argomento scabroso ha la prima parte del canzoniere nuovo, nuovissimo, che Federico Sanguineti sta componendo: il buio fitto di un’età che avrebbe potuto (dovuto) essere d’oro, edenica – l’infanzia –, e che appare invece nel ricordo come «una vita da lager». Scabroso e durissimo è l’argomento, in senso etimologico osceno, da non poter essere proposto sulla scena, e invece qui esposto, con tutto il suo bravo e letteratissimo giuoco di vergogna della vergogna. «canzone canta tu l’età dell’oro / quando a manna cade come pioggia / che mamma ogni mia gioia mi spense / e la rabbia da allora in me si accense / se perdo fin il filo dove poggia / perché tenuto sono a fare onore / con ossequio di incenso e con alloro / a genitori che mi voller ombra / il cui peso per sempre a me mi ingombra»: così suona il congedo dell’ultima canzone, il testo 23, di una silloge che ha titolo numerico, all’apparenza semplicemente denotativo, 1-23. Non c’è bisogno di chiamarlo «Canzoniere», infatti, anche se lo è; per garantirci un atteggiamento di debita, originaria distanza, e insieme per slittare in fraudolenza, ottimamente potremmo ricorrere a Rerum vulgarium fragmenta. Le parole in rima sono le stesse: esattamente le stesse e nell’ordine in cui si presentano nei R.V.F. di Petrarca, con soluzioni spesso virtuosistiche e assai inventive (si pensi ai tanti «rai» di sole dell’archetipo petrarchesco e alla soluzione sanguinetiana della «rai» emittente, oppure all’«aitarme» risolto in un «ahi tarme», o ancora al «fore» che diventa «… uff… ore»). Qui il rapporto con l’io è lirico e insieme ironicamente mediato, ma la cifra analogamente, artificiosamente narrativa e il disegno unitario è stabilito a priori, in prospettiva, non in retrospettiva come nel modello. Il tono è quello della confessione, però non solo effusiva (se non in sguincio ironico), piuttosto teatralizzata in terapia psicoanalitica; e psicoanalista è senz’altro una donna, a ricreare una tensione di ruoli (innamoramento del soggetto che scrive) onestamente prevedibile – come si potrebbe attendere, prevedibile con onestà, appunto, l’elaborazione di una delle opere esemplari e fondative della nostra tradizione. Ciò che qui prevedibile non è, invece, è il suo incunearsi spietato, il suo scendere a testaprima nel rapporto dell’io poetico con un io bambino, nella rievocazione degli eventi traumatici che l’hanno segnato e nella problematica ed esibita relazione tra «es io super-io incerto e vago» e «sotto-io». Per il lettore c’è un turbamento diverso e nuovo, qui, rispetto al turbamento di Petrarca: lì il desiderio fisico nutrito da Francesco «quand’era in parte altr’uom» da quel che poi è diventato; qui il dolore dell’infanzia, il racconto delle punizioni che «spezza[vano] dentro l’io ogni desire», la «carne» di bambino che se ne andava «malmenata e sbattuta lacrimando / piena di botte», e infine la «libertade / di criticare chi non ha e non ebbe / per me nessun amore anzi a me increbbe» (23). A questo punto bisogna dir meglio, con maggiore chiarezza: il lettore, ai cui occhi è evocato non solo un simile interno familiare, ma questo interno familiare, finisce per dover fronteggiare intellettualmente, e propriamente, un ‘perturbante’ (l’Unheimlich incarnato da una «famiglia piazza d’arme»). Poi tuttavia soccorre il dominio letterario, la consapevolezza del quantum d’artificio, la curvatura, le pliche che assumono le scritture (auto)biografiche, in specie – come in questo caso – se si calano nel lirismo ma sanno fargli abilmente il verso, se mettono in scena procedimenti (e baratri) narcissici in vertiginoso equilibrio su un filo teso tra il serio e il faceto. Se praticano il tragico e riescono addirittura a enuclearlo, a farlo brillare di smalto denso e lucente: «dentro la testa tengo congelati / i miei pensieri duri come smalto / e verso me non sento alcun affetto» (23). Splendido, delicato e in sé più pudico di altri, il sonetto dell’amore fraterno: «tua camicia di forza a me si appoggia» (10). O ancora, nel segno del tragico: «e sono trasformato in chi non spera / di sciogliere sua prognosi ma splende / di fuoco incontenibile che incende / la febbre che mi unisce a questa schiera» (19). Tommaso Ottonieri ha parlato, nella postfazione, di una «scena scivolosa, sempre spalancantesi, d’un romanzo familiare sinceramente fantasmato» e poi di una «ilarizzata scena d’ossessioni» riconoscendo al testo «un carattere dissimulatorio all’infinito». Soccorre, dunque, rispetto al perturbante familiare (di una famiglia nota), tutta la gran macchina della retorica: funzionale qui come non mai. (O forse soccorre e insieme incrudelisce). Allitterazioni virtuose: «per perso penso perduto il perdono» (18); figure etimologiche estroverse, paronomasie, poliptoti e bisticci: «fra morti smorto muoio la mia morte / desiderando non desio desio / e solo fra i miei soli non ho sole» (18, che peraltro si cola nell’orma strutturale di un sonetto petrarchesco con inusuale tessuto ossessivo di parole-rima in abbinamento equivoco). L’elaborazione testuale è complessa e letterariamente multivaria, attraversata da echi con un’incidenza di sorriso, come l’attacco del Furioso dimidiato a fare singolarissima capfinidad letteraria tra due stanze di sestina: «le donne e i cavalier sotto le stelle // l’arme e gli amori sono le mie stelle» (22). Lo scenario dell’(auto)analisi, dell’autoterapia e della ricerca di identità scarta, nel lessico, dall’eleganza costante e priva di impennate del modello: conosce una deriva linguistica impura e niente affatto media in cui possono convivere la scrittura raccorciata di messaggi sintetici, «cmq l’sms te lo invio» (6), il tecnicismo inglese, di uso comune, «di borderline era il mio umore» (9), e «non so chi fui» (23), rivisitazione in tono abbassato e dubitoso di uno sfogo foscoliano (pure di matrice petrarchesca) in irresoluta tentazione di suicidio: «Non son chi fui, perì di noi gran parte», il sonetto amaro che diceva ormai «cieca la mente e guasto il cuore». Poi, che attraverso la rievocazione dell’infanzia e degli «amorosi affanni» (12) quello dell’identità – e della vera vita dell’io – sia tema centrale di 1-23 è ulteriormente confermato dal lavoro psicoanalitico, «ritrovarmi me in me» (8), e da una terzina conclusiva ed esemplare, quella di 16, che nell’originale da tenere in filigrana, si badi, è il notissimo Movesi il vecchierel canuto et biancho: «e spero che fra io e sotto-io / in sogno dove l’io non è più altrui / chissà si possa viver vita vera». Le parole in rima dell’originale sono puntelli inaggirabili: un’eletta ‘prigione’ che però fa scattare la liberazione del dettato poetico e insieme del nodo di dolore. L’invenzione letteraria è, con ogni evidenza, nello scarto tra una contrainte severa, rigorosa, e la molteplicità di soluzioni adottate. Entro un’ossatura ferma – medesime strutture metriche (sonetti ma anche, dove ricorrono, ballata grande monostrofica, sestina e canzone) e parole in rima dei R.V.F. – si collocano singolari versi con ritmo percussivo, «e dàlle dàlle dàlle dàlle dàlle», che dicono l’ossessione dei colpi o dei «martiri» patiti, ossessione spesso reiterata e di-vertita da monosillabi a distanza, in eco ritmica e in poliptoto – «a tu per tu con te per me» (23), oppure rimandano – «chi va chi sa chi qui chi stato»; «e qui né giù né su né so mio nome» (23) – a soluzioni dantesche per bufere infernali che mai non restano. La dichiarazione d’apertura, d’altro canto, aveva subito preteso ed esibito la distanza dall’ipotesto: «il mio è rumore non è mica suono», non cerca armonia. È per lo più l’inversione al basso o al buio, qui, a dominare; talvolta il rovesciamento esatto del lirismo offerto dall’archetipo, talvolta una riscrittura al negativo, come quella che chiude la canzone 23 – quella in cui, secondo Bernardino Daniello l’intendimento di Petrarca era «narrare la propria vita» ma «sotto il velame di favole» dalle Metamorfosi ovidiane. Nell’originale la «dolce ombra» ogni «bel piacer del cor mi sgombra», nel testo di Sanguineti i genitori che lo vollero «ombra» hanno un peso che «per sempre a me mi ingombra». Altra interessante spia è nella sostituzione (forse l’unica di 1-23) di una parola in rima: «valore», in Petrarca, diventa qui «dolore» in un sintomatico dialogo con la dottoressa: «le botte prese da bambino e poi… / e poi? e poi! lei spiega che il dolore / io me lo invento?» (5). Al di là dell’evidenza biografica messa in aperta, in bella (e manieristica) mostra nei versi, il dato biografico più complesso e meno teatralizzato si può scorgere meglio in alcuni frammenti di citazioni: una tramatura fitta qui disseminata, puntualissima e meticolosa, di parole o sintagmi-emblema tratti dalle notissime poesie che Edoardo Sanguineti ha dedicato al figlio, ai bambini («dormendo io fibroma», poi la «magra tenia», e poi il deglutire e l’urinare, e il nichel, il filo spinato, lo spillo di sicurezza, le medaglie, lo Spirito Santo e il lecco lecco, il fango alle spalle – ma si veda la bella recensione di Marco Berisso in puntocritico.eu). A queste vanno aggiunte altre citazioni da un testo forse insospettabile, sintomatico di un’intera stagione: Aprire di Antonio Porta, tra i Novissimi quello che ha avuto, in brevi anni, il percorso più mosso e vario. Sono frantumi da leggersi insieme a tutto l’ipotesto preso nella sua interezza, pur essendo citazioni puntillistiche sparse: «dietro la porta dorma / nulla dietro la tenda il giorno / e calze infila e sfila il raggio / il corpo sullo scoglio e l’occhio e il freno / la finestra e gli uccelli e il sole parve / sotto l’impronta alla fine disparve» (corsivi miei per le coincidenze perfette, e si noti che in Aprire, in luoghi diversi, compare anche «giorno» e «il figlio, sotto la scrivania, [che] dorme nella stanza», unico personaggio nominato di quella poesia). C’è forse la scena di un crimine dietro Aprire, un oscuro e ossessionante fatto di sangue, ha ipotizzato Stefano Colangelo. E c’è una narrazione spezzata, bloccata, ha detto più volte Niva Lorenzini. Una poesia, quella che per antifrasi chiudeva I novissimi, franta per sua propria e violenta necessità, e tutta in re, cadenzata in focalizzazioni minute e pausate; i dettagli spaziali, i ricorrenti segni di esclusione (la «tenda», il «muro») o di orrore (la «punta della lama», il «taglio nel ventre») sono tutti gesti in assenza, ma compiuti e sinistri, e còlti solo dopo, a posteriori, quando sono tutti già avvenuti, e tutti tremendamente carichi di senso. (Cecilia Bello Minciacchi) A.E. STALLINGS, Olives, Evanston, IL, Triquarterly Books, Northwestern University Press, pp. 70, $16.95 I have to admit to an instinctive sympathy with Alicia (or A.E.) Stallings. Both of us have lived a good while in historic cities in another language culture, away from the centres of whatever may be thought to be ‘going on’ in our own national poetries. Of course, in these internet days no-one is really washed up in a backwater, unless they choose to be, and Ms Stallings is besides a regular at the Formalists’ annual jamboree at West Chester (wcupoetrycenter.com). Her journey has a pleasant symmetry to it: from Athens, Georgia, where she took her degree in Classsics (subsequently proceeding to Oxford for a Master’s) to Athens, Greece, where she now lives. Olives is her third collection, following on Archaic Smile (1999) and Hapax (2006). What my grandmother would have called an unhealthy preoccupation with female Classical figures dragged to the Underworld, somewhat in abeyance in Hapax (both Persephone and Eurydice loomed large in her first volume), has returned to the fore here with Three Poems to Psyche, though to be fair that put-upon eye-turner was ‘just visiting’ down under, and in due course lived happily (literally) ever after. The first of the trio is a ‘specular’ – one of those poems where the lines of the second half ‘mirror’ the lines in the first, hopefully with some shift of meaning. If I had my way this particular form would be reserved for Julia Copus, who does it best. Stallings has a fair stab at it, but her second half fails to surprise. This is not the only occasion that I found myself secretly wishing that A.E. would throw forms to the winds a little more often and dance veil-less. I counted, for example nine sonnets among these fortyone poems, which is a little sonnet-rich for a slim volume. She is a past winner of the Howard Nemerov Sonnet Award and clearly feels at home in this ‘dialectical construct’ (www.sonnets.org), though the most successful one here is perhaps not really a sonnet at all – a fourteen-liner but arranged in couplets: Extinction of Silence, a delightfully light-footed whimsical piece, despite its rather clunking title: «That it was shy when alive goes without saying. / We know it vanished at the sound of voices…». The title (and opening) poem is very much the Stallings we have come to know and love, the one her public expects. It’s tightly rhymed and learned – I confess I had to look up both ‘indehiscent’ («remaining closed at maturity») and perhaps less excusably ‘drupes’ («a one-seeded indehiscent fruit» – both definitions courtesy of Mr Webster: one is tempted to wonder whether she found ‘indehiscent’ herself while checking on ‘drupe’). The latter is a typical Stallings trouvé, seeming at first sight dragged in for the rhyme, but, deriving via the vulgar Latin «drupa» from the Greek δρύππα, an olive, bringing us in fact neatly back to base. Paradigmatic summers that decline Like singular archaic nouns, the troops Of hours in retreat. These fruits are mine – Small bitter drupes Full of the golden past and cured in brine. Perfectly formed, and, dare we say, a tad inconsequential. But there are poems in this book that reach further, notably On Visiting a Borrowed Country House in Arcadia. If Stallings has yet to write her Whitsun Weddings, an undisputed for-all-time anthology staple, this piece comes pretty close to it, and my choice of comparison is not accidental. The movement from quotidian opening, risking the low colloquialism “shitty”, to the opened-out philosophising ending is very Larkinesque, and the gloomer of Hull would I think have been proud to have written the last verse himself. Here are the first and last verses: To leave the city Always takes a quarrel. Without warning, Rancors that have gathered half the morning Like things to pack, or a migraine, or a cloud. Are suddenly allowed To strike. They strike the same place twice. We start by straining to be nice, Then say something shitty. * * * * * Call it Nature if you will, Though everything that is is natural – The lignite-bearing earth, the factory, A darkness taller than the sky – This out-of-doors that wins us our release And temporary peace – Not because it is pristine or pretty, But because it has no pity or selfpity. Everything comes together here, from the tone finding its (formal) form, right down to the small but pleasing detail that the poem closes on its opening rhyme. If in general I am inclined to suggest ungallantly that Olives represents no advance on Hapax it is in the full awareness that a section of her fan base would hold that the very idea of such an advance is a pesky modernist myth, and neither desirable nor, perhaps, possible – but not I hope the poet herself, because On Visiting.. proves that further flight is both likely and, it may be, imminent. (Philip Morre) MARINA GASPARINI LAGRANGE, Exilios. Poesía latinoamericana del siglo XX, Caracas, Sociedad de amigos de la cultura urbana, 2012, pp. 147. Ogni antologia corrisponde a un progetto di selezione soggettivo con cui un antologista propone ai lettori una sua scelta personale che avviene nel rispetto di uno o diversi tipi di criteri. Questo si verifica anche nel caso di Exilios. Poesía latinoamericana del siglo XX, raccolta curata da Marina Gasparini Lagrange. L’antologia è accompagnata inoltre da un’introduzione, intitolata El reino del exilio, in cui la curatrice compie per l’occasione una rivisitazione di un articolo pubblicato precedentemente in Colombia nella «Revista Universidad de Antioquia». La ricercatrice venezuelana ripercorre la storia poetica del suo continente di origine identificando in diversi tipi di esilio il respiro poetico degli scrittori presentati. Probabilmente la sensibilità verso questo tema è stata accentuata dalle sue vicissitudini biografiche: da una decina d’anni la studiosa vive lontano dal suo paese, a Venezia, dove porta avanti anche studi di psicologia analitica. Lei stessa accompagna la selezione poetica con un prologo in cui sottolinea la soggettività che ha dato origine a tale antologia, nata per l’appunto dalle «resonancias que en mí dejaba la poesía» per continuare affermando che «ahondar en el tema y en el sentimiento de ese extrañamiento ha sido un impulso, también una necesidad; una motivación vital que me impelía a establecer un diálogo con el exilio desde la experiencia de la imagen y la resonancia poética. Durante años ese coloquio formó parte de mi cotidianidad y Exilios, necesariamente en plural, son voces que dan cuenta de ese diálogo» (p. X). Accennavamo precedentemente ai criteri da rispettare al momento di comporre un’antologia. La studiosa venezuelana denuncia i parametri da lei prescelti sin nel titolo dato alla raccolta. Si orienta inizialmente seguendo un principio estetico: gli autori scelti sono tutti poeti, o comunque autori di una prosa spiccatamente poetica, come ad esempio nel caso dei poeti venezuelani José Antonio Ramos Sucre e Guillermo Sucre. Altro parametro rispettato dalla studiosa è quello spazio-temporale: la sessantina di autori antologizzati proviene dal continente latinoamericano (le poesie sono inoltre tutte scritte in spagnolo) e attraversa con la propria biografia e la propria arte il secolo breve. Non sono inclusi pertanto i poeti spagnoli che trascorsero gli anni dell’esilio dalla dittatura franchista in America Latina. Bisogna però dire che non tutti i paesi del continente sono presenti: tra le lacune spicca il Guatemala, che avrebbe potuto ben essere rappresentato con le liriche dell’esule Miguel Ángel Asturias, o altri paesi, come ad esempio il Costa Rica, la Repubblica Dominicana, l’Honduras, il Panamá, il Paraguay e Porto Rico. Si segnala anche uno sbilanciamento in favore del Venezuela, soprattutto per i poeti nati nella seconda metà del XX secolo, più vicini probabilmente ai riferimenti culturali della curatrice a discapito di zone a lei più distanti, fisicamente e culturalmente. Sorprende inoltre l’assenza di autori importanti, come per esempio Mario Benedetti, per il quale l’exilio e ancor più il desexilio rappresentano assi tematici fondamentali della propria produzione poetica. Le liriche si susseguono nel rispetto di un criterio cronologico che da Gabriela Mistral, nata nel 1889, autrice con cui esordisce la raccolta, porta a includere nella selezione anche alcuni poeti delle ultime generazioni latinoamericane, come abbiamo visto legati prevalentemente al paese di origine della studiosa (l’ultimo e quindi il più giovane poeta dell’antologia è il venezuelano Luis Enrique Belmonte, classe 1971). A prescindere dai dati comuni appena messi in luce – scrittura poetica, l’America latina e il Novecento – e dalle ovvie differenze e specificità che allontanano ogni singolo autore da tutti gli altri, i contributi di quest’opera antologica sono accomunati da un ulteriore e intenso filo rosso che li unisce tutti indistintamente: la condizione di esilio, ma anche, e soprattutto, di straniamento, di non appartenenza, di marginalità. Dal titolo si desume, infatti, come affermava Gasparini Lagrange nel passaggio prima citato dell’introduzione, che non di un solo esilio si parla in questa antologia, ma di diversi tipi di ‘exilios’. L’esilio non è inteso dalla studiosa venezuelana esclusivamente come allontanamento dalla propria patria, volontario o a seguito di una condanna forzata per non conformità politica o ideologica con il regime al potere, come nel caso di Juan Gelman («soy una planta mostruosa. Mis raíces están a miles de kilómetros de mí y no nos ata un tallo, nos separan dos mares y un océano. El sol me mira cuando ellas respiran en la noche, duelen de noche bajo el sol») o di Reinaldo Arenas («Dos patrias tengo yo: Cuba y la noche / sumidas ambas en un solo abismo»). Esilio non è solo un processo di andata, un moto a luogo quindi, ma anche, continuando a ragionare sintatticamente, uno stato in luogo o un moto da luogo. È detta esilio infatti la condizione dell’esule, di chi è partito per andare altrove, chi si è fatto marchiare il proprio stato esistenziale dalla partenza («No miro ya sino la gran distancia. / Negra estela de humo, / blanca estela de agua», metafore della partenza in treno e in nave di tanti emigranti secondo Ida Gramko), dal viaggio («Viajero cuello torcido. Oleaje y desierto / Extranjero, ojo con cicatrices», Rosamel del Valle, o «América, / a mí también debes oírme. / Yo soy el estudiante / que tiene un solo traje y muchas penas. / Yo soy el desterrado / que no encuentra la puerta de las pensiones», Manuel Scorza) e dalla fuga. È esilio anche il luogo in cui si è costretti a stare, ed è ancora esilio il tempo che perdura l’impossibilità di far ritorno in quello che viene a rappresentare per l’esiliato l’eterogeneo e sfaccettato concetto di patria («en cada hora, en cada día de ausencia / que lleno con asuntos y con seres / cuya extranjera condición me empuja / hacia la cal definitiva», Álvaro Mutis). La lingua sarà un’ulteriore concausa di questo sentimento di esclusione («Tendré que dormir en alemán, aletear, / respirar si puedo en alemán entre / tranvía y tranvía, a diez kilómetros / de estridencia amarilla por hora, con esta pena / a las 5.03, / ser exacto», Gonzalo Rojas). Esilio come luogo subito in un tempo illimitato, quindi, e come terrore a perdere, insieme alla propria lingua l’essenza più intima della propria identità («Nunca salí del habla que el Liceo Alemán / me infligió en sus dos patios como en un regimiento / mordiendo en ella el polvo de un exilio imposible / Otras lenguas me inspiran un sagrado rencor: / el miedo de perder con la lengua materna / toda la realidad. Nunca salí de nada.», Enrique Lihn). La memoria diventa in questi casi l’unico escamotage per crearsi una patria ideale in cui potersi rifugiare per sentirsi a casa («si ahora en este cuarto gris de día / en medio de Florencia ya desencantada / sobre mi corazón enfermo de dolores / viene a volcarse en mil figuras / el mundo que perdimos / que a un pueblo entero le fuera arrebatado / has de saber así muy llanamente / que tu rostro sonriendo con veinte años menos es la estación dulcísima adonde me detengo», Martha Canfield, o «Guardo de Lima una botella / Llena de lluvia / Y un puñado de arena / En el pañuelo. A veces recuerdo / La luz de su nublado cielo / Y la acaricio / Como se acaricia una perla / En el bolsillo», Jorge Eduardo Eielson, entrambi i poeti esiliati in Italia), ma allo stesso tempo la memoria può essere interpretata come uno specchio insopportabile che riflette una condanna eterna («Puñal siempre en el pecho es la memoria. / Callar consuelo ha sido», Fernando Charry Lara), quando l’unica cosa che si auspica è di poter raggiungere una rassegnata accettazione del presente. C’è anche chi sembra abbia messo da parte l’esilio ed essersi integrato nel paese di accoglienza provando a cancellare le tracce delle proprie origini, che tornano però a farsi vivide come un incubo ossessivo o come un monito impellente da parte di chi è rimasto o di chi non dimentica («un mismo espejo es todos los espejos, / y el pasaporte dice que naciste y que eres / y cutis color blanco, nariz de dorso recto, Buenos Aires, septiembre», Julio Cortázar). Esiliato però è anche colui che ritorna nella sua terra (come ad esempio ne El esperado di José Lezama Lima), ma capita che non la riconosca più o che da lei non sia più riconosciuto (si veda El extranjero, di Eduardo Carranza), e da qui ancora la condanna a ricercare nel passato la propria identità ormai perduta per sempre. La sensibilità di Gasparini Lagrange la spinge ad allargare i punti di vista fino a rivolgersi anche a sguardi estranei che guardano l’escluso e la sua condizione di impossibilità di inserimento in una comunità omogenea che lo riconosca; da qui deriva la condanna a essere straniero («Dios mío, ten piedad del errante, / pues en lo errante está el dolor. / Saltimbanquis, viajeros, vagabundos, adiós. Mi amor va con vosotros», Heberto Padilla) e soprattutto a esserlo per sempre («Vivirá entre nosotros ochenta años, / pero siempre como si llega, / hablando lengua que jadea y gime / y que le entienden solo bestezuelas», Gabriela Mistral). L’esilio può però essere anche interiore e mentale, come ricorda Gasparini Lagrange nel prologo: «En el origen de Exilios está la distancia», che è anche «una desemejanza, una diferencia, un alejamiento, un desafecto». Quello che unisce i vari tipi di esili e di esiliati è l’estraneità all’hic et nunc in cui si trovano a dover vivere, uno strappo, una distanza incolmabile, un’emarginazione. Esso può riguardare anche chi auspica partire, chi desidera di poter rimpiangere da lontano la propria terra, chi lo sogna ma non riesce ad avere la forza di farlo «Entonces quisiera ser extranjero / para regresarme a mi patria / Entonces oigo el rumor feliz / de las ciudades que no son mías / Oigo la noche llena de exilios / Debo partir, me digo / Y mi sueño es un viaje bajo la tutela / de los astros», Pablo Antonio Cuadra). E quando ci riesce, il suo è un esilio felice («Quiero decir, entonces, / que me fue necesario crecer pronto / (antes de que el horror me devorase) / y partir y poner la mano firme / sobre el timón y gobernar la vida», Rosario Castellanos). r In questo aspetto riscontriamo a nostro parere la novità e l’originalità della selezione di Gasparini Lagrange: la curiosità della raccolta è che in essa sono comprese anche liriche in cui il concetto di esilio si estende fino a includere anche uno stato mentale: l’esilio viene interpretato quindi come un non riconoscimento nel luogo in cui ci si trova, è l’interpretazione di un’identità dai confini stracciati, di un disagio, di una mancata accettazione da parte del mondo («Siempre me siento extraño. / Apenas / Sobrevivo / Al pánico de las noches», Juan Sánchez Peláez), anche se a volte tutto questo può essere la risposta a una necessità interiore di non appartenenza. Dall’estraniamento, dalla distanza, la studiosa venezuelana è riuscita a creare un dialogo con una comunità poetica di esili, di diversità, di sradicamenti, e tutto ciò ha in questo caso un valore importante: è la poesia che si fa patria, patria senza confini e barriere, luogo letterario in cui è possibile essere accettati e riconosciuti. L’esilio poetico di Gasparini Lagrange diventa quindi condizione esistenziale in cui tutti possiamo riconoscerci. (Arianna Fiore) MICHI STRAUSFELD (a cura di), Dunkle Tiger. Lateinamerikanische Lyrik, Frankfurt am Main, S. Fisher, 2012, pp. 384, € 24,99. Michi Strausfeld, nota studiosa e divulgatrice della letteratura iberoamericana nella Repubblica Federale, ha recentemente pubblicato un’interessante antologia poetica, intitolata Dunkle Tiger. Lateinamerikanische Lyrik, che riunisce le poesie più rappresentative del secondo Novecento latinoamericano. Le prime miscellanee di poesia latinoamericana stampate nella Republik risalgono a un periodo storico e socio-economico particolare che coincide con la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. In effetti, il ricordo delle imprese colonizzatrici spagnole in Ispanoamerica si convertono nell’immaginario collettivo in un espediente storico dietro il quale le grandi potenze europee credono di poter giustificare le loro imprese coloniali. Così, non è un caso che le prime opere letterarie ispanoamericane a ricevere una considerevole attenzione siano quelle che riguardano la Conquista, come sostiene H.-O. Dill nel suo studio Die lateinamerikanische Literatur in Deutschland. Bausteine zur Geschichte ihrer Rezeption (2009). Dopo la parentesi del Colonialismo, e soprattutto nella seconda metà del Novecento, la critica letteraria tedesca scopre i capolavori del Modernismo e delle Avanguardie che nel corso dei primi anni del secolo si erano originate nella fucina culturale latinoamericana. Ciò giustifica la scelta editoriale degli anni Sessanta, dedita alla stampa di antologie poetiche di carattere modernista, che oltre a includere capofila quali José Martí e Rubén Darío, dedica intere pagine a poetesse come Gabriela Mistral, Delmira Agustini, Alfonsina Storni, Juana de Ibarbourou, o a poeti più sperimentali come, ad esempio, Vicente Huidobro. Se da un lato la narrativa del boom degli anni Settanta e Ottanta ha riscosso un’attenzione piuttosto notevole da parte del pubblico tedesco, l’interesse per la parola poetica non si è mai affievolito totalmente; al contrario, nel corso degli ultimi anni in Germania, così come in altri paesi di lingua tedesca, sono state pubblicate diverse raccolte di poesia latinoamericana: Rose aus Asche, a cura di E. W. Palm (1981); Poesie der Welt: Lateinamerika, a cura di H. Köhler (1986); Lyrik aus Lateinamerika, a cura di C. Meyer-Clason (1988); Die lateinamerikanische Lyrik 1892-1992, a cura di G. Siebenmann (1993); Poesía entre dos mundos: antología, a cura di W. Ratz (2004); Spanischsprachige Lyrik aus sechs Jahrhunderten, a cura di U. Daum (2007). Dunkle Tiger, l’antologia curata da Michi Strausfeld, è dello stesso filone letterario e raccoglie alcune delle più belle poesie di alcuni dei poeti più significativi del secondo Novecento, i quali, in ordine alfabetico per paese d’origine sono: Juan Gelman e Olga Orozco (Argentina); Nicanor Parra e Gonzalo Rojas (Cile); Álvaro Mutis e Giovanni Quessep (Colombia); Eliseo Diego e José Kozer (Cuba); Enrique Lizalde, José Emilio Pacheco e Gerardo Deniz (Messico); Carlos Martí- nez Rivas (Nicaragua); Blanca Varela e Jorge Eduardo Eielson (Perù); Ida Vitale (Uruguay); Rafael Cadenas (Venezuela). La scelta della casa editrice S. Fisher di pubblicare i versi antologizzati con testo a fronte non è assolutamente convenzionale in un mercato editoriale in cui i costi di stampa tendono sempre più ad essere dimezzati con risultati spesso mediocri. Di grande prestigio è, inoltre, la traduzione degli ispanisti e dei traduttori impiegati che sono riusciti a rendere le liriche in un tedesco molto fedele all’originale spagnolo, sia da un punto di vista semantico che stilistico. È il caso delle poesie di Juan Gelman in cui l’estro creativo del poeta è stato rispettato malgrado le difficoltà cui il traduttore va incontro. Ad esempio, nella poesia Arte poética (pp. 28-29), la polisemia del verbo «tirar», dell’ultimo verso, che in spagnolo vuol dire sì sparare, ma anche tirare nel significato di buttare via, di gettare e di scendere di prezzo, è stato tradotto in tedesco con «schössen», ovvero «sparare», scegliendo il significato più adeguato al contesto. Oppure, si potrebbe citare la lirica Gotán (pp. 28-31), in cui il traduttore ha fedelmente reso la versione tedesca con il medesimo titolo per ovvie ragioni di intraducibilità. In effetti, come è noto, nel gergo familiare rioplatense, la parola «tango» diventa «gotán» con l’inversione sillabica. Inoltre, nella stessa poesia, è interessante notare come l’accostamento tra il soggetto «la señora» e il verbo impersonale «llovía» sia stato tradotto fedelmente in tedesco con «die Dame regnete», rispettando sia la trasgressione sintattica che il senso metaforico dell’originale. Nello specifico, le poesie sono state tradotte da A. Ammar per Á. Mutis e I. Vitale, T. Brovot per N. Parra, L. Federmair per J. E. Pacheco, C. Hansen per E. Lizalde, M. von Koppenfels per J. E. Eielson, S. Lange per G. Deniz, J. Kozer e B. Varela, G. Poppenberg per E. Diego, A. Rogel Alberdi per J. E. Pacheco, K. Scharf per R. Cadenas e P. Strien per J. Gelman, C. Martínez Rivas, O. Orozco, G. Quessep e G. Rojas. Nel complesso, Dunkle Tiger è sicuramente riuscita; si tratta di un lavoro meticoloso e di alta qualità organizzativa e traduttiva. Tuttavia, e senza dimenticare che ogni antologia dipende dai gusti personali del curatore, nonché dal mercato editoriale cui è destinata, resta sconcertante il fatto che autori altamente rappresentativi e per di più creatori di correnti poetiche nuove, non siano stati considerati. Pensiamo soprattutto a Mario Benedetti e a Ernesto Cardenal. Un altro dubbio che rimane – questo condiviso con la stessa Strausfeld – è se un’antologia poetica sulla seconda metà del Ventesimo secolo, fatta all’inizio del Ventunesimo, non sia un «Wagnis», un affare rischioso legittimato dalla mancanza di una critica ben cristallizzata. Sarà il tempo a dare una risposta all’arcana e affascinante Tigre Nera, poderosa forza emblematica qual è la poesia. (Andrea Spadola) Atti di IncontroTesto. Ciclo di incontri su e con scrittori del Novecento e contemporanei. Siena, ottobre-novembre 2011, a cura di Giulia Romanin Jacur, Elena Stefanelli, Martina Tarasco, Pisa, Pacini Editore, 2012, pp. 149. Il volumetto, richiedibile presso l’editore (www.pacinieditore.it) sotto forma di e-book gratuito, raccoglie, secondo una formula che sopporta assai bene il passaggio alla forma del volume un’esperienza viva fatta di incontri con autori e studiosi. Degli scrittori si pubblicano qui le interviste rilasciate in occasione delle loro letture: quella, a due voci, di Antonella Anedda, Franco Buffoni, e quelle di Nanni Balestrini e Walter Siti. Insieme, si leggono interventi critici su Sereni (S. Carrai), Zanzotto (L. Gambino, S. Dal Bianco), Primo Levi (A. Cavaglion, A. Baldini, V. Cavalloro), Giudici (D. Frasca, R. Zucco), il Sanguineti di Laborintus (A. Godioli), Elsa Morante (G. Zagra, C. Fontanella, A. Landolfi, G. Magrini). (Fabio Zinelli) GIACOMO LEOPARDI, Volgarizzamenti in prosa 1822-1827, edizione critica di Franco D’Intino,Venezia, Marsilio, 2012, pp. 516, € 40,00. IMMAGINE Contrariamente a ciò che potrebbe lasciar supporre il titolo, l’edizione critica dei Volgarizzamenti in prosa 1822-1827 di Leopardi allestita da Franco D’Intino non ha un valore strettamente filologico-erudito ma getta nuova luce su tutto il percorso letterario del nostro massimo poeta-pensatore moderno, e specialmente sul progetto delle Operette morali (già al centro del precedente e importante volume saggistico dello studioso romano, L’immagine della voce, edito sempre da Marsilio nel 2009). Che non si tratti di una semplice edizione critica emerge chiaramente dall’impianto stesso del volume: i volgarizzamenti leopardiani – corredati da un ricchissimo commento e da un rigoroso apparato filologico – sono preceduti da sette ampi capitoli introduttivi, che occupano da soli ben 180 pagine (quasi un libro nel libro). Ma quali sono i volgarizzamenti in oggetto e come sono disposti? Distinguendosi dagli editori precedenti, i quali avevano ordinato i volgarizzamenti in prosa secondo un criterio di compiutezza, D’Intino pubblica, nella prima sezione, i volgarizzamenti editi in vita dell’autore: il Martirio de’ Santi Padri (pubblicato nel 1826), il Frammento di una traduzione in volgare della Impresa di Ciro descritta da Senofonte (1825) e l’Orazione in morte della Imperatrice Elena Paleologina di Giorgio Gemisto Pletone (1827); nella seconda sezione, invece, le traduzioni postume che Leopardi progettava di raccogliere in una collana espressamente dedicata ai Moralisti greci (che sarebbe dovuta uscire presso l’editore milanese Antonio Fortunato Stella, ma non vide mai la luce): quattro orazioni di Isocrate designate significativamente da Leopardi come Operette morali, il Manuale di Epitteto, la favola di Prodico intitolata a Ercole e altri saggi traduttori, di carattere più frammentario, tratti rispettivamente da Iseo, Isocrate, Teofrasto e dal trattato Del Sublime dello Pseudo-Longino; la terza e ultima sezione, che è da considerarsi un’appendice, comprende infine due frammenti di traduzione da Luciano risalenti a un periodo antecedente all’arco cronologico indicato nel titolo. Il volume comprende inoltre i preamboli e discorsi introduttivi, spesso di fondamentale rilievo, che Leopardi stesso accompagnò ad alcuni dei propri volgarizzamenti, e la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (originariamente edita nel 1824, in appendice all’edizione bolognese delle Canzoni), che D’Intino riconduce al progetto dei Moralisti greci, in quanto «saggio [...] ‘alla maniera antica’, e dunque, in un certo senso, se non una traduzione vera e propria, una ‘imitazione’ senza uno specifico palinsesto, ovvero, si potrebbe dire, un pastiche». In ogni caso la Comparazione non è l’unica traduzione, per così dire, di tipo speciale, inclusa in questi Volgarizzamenti, che sono anzi inaugurati dal singolarissimo opuscolo Martirio de’ santi padri, a suo tempo definito dal grande filologo leopardiano Francesco Moroncini (cui si deve la precedente edizione critica dei volgarizzamenti leopardiani, risalente al 1931), come «opera originale» tout-court. La definizione di Moroncini è impropria, dal momento che il Martirio si basa su un palinsesto preciso: la versione di una leggenda riportata in latino (con il testo greco a fronte) in un regesto secentesco di François Combefis, presente nella Biblioteca Leopardi; d’altra parte, la traduzione leopardiana è concepita come una sofisticatissima falsificazione, dato che Giacomo (il quale fin da giovanissimo si era efficacemente cimentato nell’arte della falsificazione letteraria nell’Inno a Nettuno e nelle Odae adespotae) finge di pubblicare la trascrizione di un manoscritto medievale: «Ho tratto questo Volgarizzamento da un codice a penna in cartapecora, che si conserva nel monastero di Farfa, e mostra essere scritto circa il trecentocinquanta, di molto buona lettera, contenente, oltre a questa, parecchie altre Leggende di San ti in lingua toscana […]». In questa stessa cornice di filologia fantastica che non sarebbe dispiaciuta a Borges risiede parte del fascino letterario del Martirio: come scrive D’Intino, ricapitolando, ci troviamo di fronte ad un autore che nasconde se stesso dietro «uno scrittore del Trecento, che ne traduce uno latino, che ne traduce uno greco, che ne traduce a sua volta uno copto». Tuttavia, dietro questo virtuosistico gioco di finizioni, c’è qualcosa di più decisivo: la ricerca di un fondamento morale in un mondo, quale quello moderno, caratterizzato, come scrive Leopardi nel Discorso sui costumi degli italiani, dalla «quasi universale estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possano fondare i principii morali». Se per Leopardi l’etica, così come l’estetica, aveva conosciuto il suo massimo splendore nell’antichità greca, dopodiché era cominciato un processo di inarrestabile decadenza, fomentato anche dall’avvento della stessa religione cristiana, d’altro lato, i primi martiri cristiani (protagonisti del volgarizzamento leopardiano) avevano rappresentato, come sembra suggerire un appunto zibaldoniano del 21 luglio 1822, opportunamente citato da D’Intino, uno degli ultimi sussulti dell’etica prima del trionfo del nichilismo moderno. La paradossale ricerca di un fondamento morale in un’epoca che sembra aver abolito ogni forma di moralità è, del resto, il fulcro del progetto delle Operette morali, con le quali questi volgarizzamenti sono pienamente solidali. Si noti che le orazioni di Isocrate che avrebbero dovuto confluire nel primo volume dei Moralisti greci furono tradotte nel dicembre del 1824, lo stesso anno in cui fu composto il primo e maggiore nucleo delle Operette morali (si è già ricordato che Leopardi assegnò alle proprie traduzioni isocratee il medesimo titolo). Secondo D’Intino, Isocrate rappresentò per Leopardi una sorta di anti-Platone, in quanto campione esemplare di una mezza filosofia, alimentata dalla poesia e dalle illusioni. D’altronde, Giacomo si era identificato con Isocrate fin dal marzo 1819, allorché confessò a Pietro Giordani di esser «fatto proprio un Isocrate» per l’abitudine a scrivere poco e con grande fatica. Si direbbe che in Leopardi ogni esercizio traduttorio lungi dall’esaurirsi in se stesso investa sempre aspetti letterari e filosofici essenziali per la sua scrittura e il suo pensiero. Tutti (o quasi) gli autori volgarizzati avranno un’incidenza più o meno durevole sul tragitto letterario leopardiano, anche quelli di cui il poeta traduce appena un frammento (si pensi allo Pseudo-Longino, il cui trattato Del sublime è una delle fonti più decisive del pensiero estetico leopardiano). Le ricognizioni filologiche di D’Intino ripercorrono puntualmente il rapporto tra Leopardi e gli autori greci tradotti, non di rado correggendo alcune tesi della critica precedente. Ad esempio, occupandosi della traduzione del Manuale di Epitteto, D’Intino estende di molto, sia indietro sia in avanti, il periodo in cui Leopardi nutrì interesse per la filosofia stoica (non solo per Epitteto, ma anche per Marco Aurelio e altri autori), che Timpanaro limitava sostanzialmente al triennio 1825-1827. Nel 1829 Leopardi progetta addirittura un «Manuale di filosofia pratica: cioè un Epitteto a mio modo»: il progetto non troverà mai compimento, eppure un suo Epitteto Leopardi ce l’ha, in certo modo, lasciato proprio con questa versione del Manuale, che è forse la più bella tra le sue traduzioni. (Raoul Bruni) MICHELA MANCINI, Vedere il progresso. Mostri, bambole e alieni nel romanzo illustrato dell’Ottocento, Palermo, duepunti Edizioni, 2012, € 15,00 . Il saggio di Michela Mancini è un brillante esempio di analisi sociologica della letteratura, che svela le interrelazioni tra contesto storico-culturale e pratiche letterarie e tendenze narrative. Oggetto primario dell’analisi è il romanzo industrialista ottocentesco, e chiave della sua comprensione è l’insieme dei miti e delle inquietudini legati all’industrializzazione, che sono all’origine delle immagini e delle icone del progresso che la letteratura ha prodotto e veicolato, e a loro volta guidano l’interpretazione e comprensione delle rappresentazioni letterarie determinate dalla temperie industrialista stessa. Mostri, bambole e alieni sono identificati come icone letterarie della fiducia nel progresso, da un lato, e delle sue ambiguità, dall’altro: la fiducia nella forza creativa e creatrice, mista all’ambiguità della creazione stessa e dell’artificio, al tempo via verso l’emancipazione e l’indipendenza e pratica meccanico-scientifica per porre in essere nuove forme di potere e possesso. Le tre figure incarnano entrambe le tensioni: le bambole, creature perfette, ma niente più che automi; i mostri, creature eccezionali, ma inaccettabili; gli alieni, creature cercate, ma temute. Necessitano rispettivamente di chi le metta in movimento, o le accetti, o le combatta. Sono creature nate per essere dominate, quasi metafore di come la società industrialista, che attraverso la produzione seriale ha creduto di sottrarsi al potere delle élites politiche e culturali, abbia reso necessarie quelle tecniche (ed economiche): l’editoria stessa ne rappresenta un esempio, e la letteratura le romanza. Il saggio evidenzia come le rappresentazioni letterario-romanzesche del progresso industriale variamente si riconducano al mito di Prometeo, dall’esplicito Frankestein. Or the Modern Prometheus (1818) di Mary Shelley, ai meno scontati Le Château des Carpathes (1892) di Verne e The War of the Worlds (1898) di Herbert George Wells, per citare solo alcuni esempi, rispettivamente riconducibili alle tre icone di mostri, bambole e alieni. La Mancini ci guida così in un affascinante viaggio attraverso le immagini inquietanti, strane o meravigliose, del progresso, rintracciando nel romanzo illustrato ottocentesco le origini del genere fantascientifico, e «smascherando» un format narrativo che dal mito di Prometeo è giunto fino a noi, per ribadire l’esigenza, umana prima che letteraria, di creare ed esplorare mondi Altri per comprendere e tentare di dominare il reale. (Daniela Sideri) GABRIELE FRASCA, Un quanto di erotia. Gadda con Freud e Schrödinger, Napoli, Edizioni D’If, 2011, pp. 312, € 22,00. Come il titolo annuncia a chiare lettere, l’ultimo lavoro di Gabriele Frasca è una lettura del Pasticciaccio alla luce delle due maggiori rivoluzioni epistemologiche novecentesche: la psicanalisi (Freud e poi Lacan, con la preziosa mediazione di Sergio Finzi) e la fisica subatomica (già al centro di una nobile tradizione saggistica che dal Debenedetti esegeta del romanzo moderno conduce al Roberto Pasini interprete della pittura surrealista). Questa doppia chiave di lettura – sorretta da un sempre più impressionante armamentario critico di natura interdisciplinare, posto al servizio di quel credo etico-euristico della «despecializzazione dei linguaggi e dei saperi» che Frasca va da tempo proclamando – consente all’autore di demolire molte delle idées reçues che da troppi anni depistano ogni indagine sull’Ingegnere. Vengono così smontati – prove alla mano, verrebbe da dire, trovandoci in ambito poliziesco – tanto il mito del ‘Gadda barocco’ (barocco non è il Gadda: e proprio perché il Gaddus, Frasca lo sostiene da tempo, è semmai mente settecentesca, di stirpe sterniana), quanto quello del Pasticciaccio come ‘romanzo incompiuto’ e quasi assemblaggio di disiecta membra narrative. Tutto il contrario, spiega l’autore: il Pasticciaccio è un ordigno romanzesco dagli ingranaggi perfettamente sincronizzati (e questa meticolosa attenzione al continuum temporale è una delle ossessioni fraschiane, come ben sanno i suoi lettori), fedele in questo alle regole del ‘genere’. Solo che il ‘genere’ si è adeguato ai tempi, ossia al nuovo contesto percettivo (il pervasivo ambiente mediale di matrice fonografica che fa dell’autore non più un’‘emittente’, ma una ‘stazione ricevente’) e soprattutto alla nuova realtà di un mondo che scopre di soggiacere alle leggi della relatività e del principio di indeterminazione. La risoluzione dell’intreccio (il ‘gliommero’, parola il cui etimo Frasca rilegge alla luce del concetto scientifico di entanglement), insomma, c’è eccome, ma stante i paradossi della fisica quantistica dipende dalla volontà, neanche a dirlo inaffidabile, ‘guasta’, dell’osservatore. Se poi si considera che qui gli osservatori sono perlomeno due, ovvero la strana accoppiata di poliziotti formata da Ingravallo e Pestalozzi, non sorprende che il Pasticciaccio sia rimasto a lungo un caso irrisolto. Ma il valore aggiunto del libro consiste nel fatto che vi figurino intrecciati (entangled, appunto), almeno due Frasca: lo studioso e lo scrittore. Non è infatti difficile individuare una comune funzione d’onda tra il Pasticciaccio d’après Frasca e i suoi romanzi, con particolare riferimento al «noir anfibio» Il fermo volere, opera che come noto ha impegnato l’autore per un ventennio. Dal tema del doppio (Ingravallo-Pestalozzi hanno parecchio in comune con Beretta/Spirit-Ebony… proprio non c’è scampo alla sindrome di don Quijote y Sancho!) a quello del desiderio (l’erotia, l’infernale rimbalzo da uno a due del ferm voler, in un mondo la cui popolazione risulta equamente ripartita fra isteriche e macchine celibi), sono numerosi i punti di contatto tra due opere i cui protagonisti condividono lo stesso destino: quello di sprofondare nella palus putredinis (mentale, pulsionale, persino molecolare) del caso che sono stati chiamati a risolvere. Né è privo di significato che Frasca definisca il Pasticciaccio un’apocalisse, se programmaticamente apocalittiche risultano le conclusioni di tutte e tre le sue opere narrative. Lettura indispensabile tanto per gli studiosi di Gadda quanto per gli estimatori di Frasca, Un quanto di erotia rappresenta dunque non solo un fondamentale saggio sul Pasticciaccio, ma anche una raffinata opera di autoesegesi e, più in generale, l’ennesimo colpo andato a segno nel multiforme percorso artistico-intellettuale di una delle personalità più vive e stimolanti dell’attuale cultura italiana. (Riccardo Donati) GËZIM HAJDARI, Nûr. Eresia e besa, Roma, Edizioni Ensemble, Erranze, 2012, pp. 137, € 15,00. Il nuovo titolo di Gëzim Hajdari, il poeta d’origine albanese che ha fornito, tra i primi in Italia, dignità letteraria alle cosiddette ‘scritture migranti’ (premio Montale nel 1997), necessita di qualche nota esplicativa. Secondo un procedimento ormai ben riconoscibile, infatti, alcuni scrittori italòfoni, dopo aver compiuto uno sforzo di integrazione non solo linguistica, registrano oggi il riaffiorare della memoria culturale d’origine. Il poema drammatico, pubblicato da una neonata ed impavida casa editrice romana, è intitolato ad un personaggio femminile – mater dolorosa dell’eroe di cui si cantano le gesta – che condivide il nome con la madre dell’autore, così come quest’ultimo si pone in relazione di omonimia con l’«ultimo guerriero», figlio di Nûr. La besa è la parola data che, secondo i protocolli di quella che Giorgio Agamben ha definito ‘archeologia del giuramento’, lega l’errante Gëzìm, per la vita e oltre, alla promessa del ritorno. La sostanza autobiografica che caratterizzava la prima maniera, lirica e frammentaria, del poeta di Lushnje torna en travesti, in forma epico-titanica, nei versi ipermetri di questi due atti. Dietro l’inattuale scelta del ‘teatro di parola’ sta certamente la parallela pratica di traduzione – anch’essa con frutto editoriale (è in libreria l’edizione de I Canti dei Nizam) – dal vasto repertorio dell’epos orale balcanico, ma anche l’inesausta vis polemica di Hajdari rispetto all’uniforme panorama della patrie lettere. Eppure non mancano nella nostra tradizione precedenti illustri, sebbene misconosciuti. Se già nel 1942 Arturo Loria annotava «Io mi sento sempre più fuori dall’odierno mondo letterario. Sogno tragedie greche», non pare risuonare nel lamento di Nûr – «dov’è il mio Gëzìm?» – l’eco del Landolfo VI, dramma in versi che Tommaso Landolfi destinava, oltre mezzo secolo fa, «al ludibrio o all’indifferenza» – «Dov’è Pandolfo, il figlio mio?…»? (Ugo Fracassa) GIACOMO LEOPARDI, Canti, traduzione di Jonathan Galassi, New York, Farrar, Straus Giroux, 2010, pp. 498 La prima traduzione integrale dei Canti di Giacomo Leopardi, uscita in lingua inglese ma con titolo italiano, ha suscitato, com’è spesso plausibile in questi casi, ammirazione e sospetto. Autore e poeta di questa sesquipedale impresa, per la mole e non soltanto per essa, Jonathan Galassi, traduttore americano che si era già fatto conoscere in Italia per le sue versioni montaliane e per una pubblicazione in lingua di sue poesie, questa volta con titolo inglese, North Street Dithyrambs, tradotte per l’occasione da Annalisa Cima. La domanda che ha da subito accompagnato l’uscita dei Canti di Galassi non ha insistito tanto sulla legittimità di una traduzione leopardiana oggi – quesito pur sempre lecito, sebbene fin troppo scontato – ma sull’aspetto ben più delicato della verifica di un modus operandi. Volendo prendere Massimo Bacigalupo e Robert Pogue Harrison come poli di due visioni antitetiche del lavoro di Galassi, sono comprensibili tanto il dubbio del primo quanto l’approvazione del secondo. Vexata quaestio: la sintassi, indubbiamente croce e delizia, assieme al lessico, di tanta produzione leopardiana. Da una parte, Bacigalupo, che non è certo digiuno di traduzione e di lingua inglese (basti ricoradare i suoi lavori su Pound, Yeats, Dickinson), afferma che «Galassi ci dà un Leopardi moderno, newyorchese neoclassico», il quale sembra aver perso un po’ troppo della sua complessità sintattico-lessicale; dall’altra parte, Harrison, italianista statunitense ben allenato alla lingua del sì e alle questioni di traduzione, che a sua volta reputa quanto critica Bacigalupo la forza della versione galassiana: «the readability of his version comes at a cost. It flattens out the original and renders it perforce more prosaic». In ogni caso, a porre una riflessione sulla sintassi e sul lessico leopardini non è soltanto una traduzione appena uscita. Della difficoltà di quei versi sanno bene anche gli italofoni, tanto che non troppo lontana nel tempo è la provocazione di una versione in lingua italiana contemporanea delle Canzoni, provata da Marco Santagata. Volendo allora dare la parola a Galassi, egli stesso afferma, nell’introduzione ai suoi Canti, che il traduttore non deve essere né servo né padrone del testo. Esattamente in questo, a mio parere, risiede l’optumum di una traduzione: dare alla lingua che ne viene una sua operatività, riaffermando che la traduzione, come già ebbe a dire Luciano Erba, è un «tertium (infine datur!) che potrebbe essere un primum». Andrà allora cercato Leopardi in Galassi o, viceversa, sarà necessario rinvenire la continuità di Galassi, della sua traduzione, in Leopardi, specie di fronte a un’opera così variegata come sono i Canti? In anni in cui si riscopre il valore filosofico della poesia leopardiana, del suo «pensiero poetante», in cui si è portato avanti il lavoro di traduzione completa dello Zibaldone a Birmingham, grazie a Franco D’Intino e Michael Caesar, il merito ulteriore di Galassi è quello di aver concesso al lettore inglese una possibilità, non solo di fruizione, ma anche di comprensione. I Canti non sono soltanto la prima edizione completa di Leopardi, ma anche la prima a essere esaustivamente commentata (ben oltre cento pagine tra note esplicative e commento). Venendo nello specifico ad alcuni esempi sulla resa di questo Leopardi «americano», è vero che la versione di Galassi segue un corso meno irto dell’originale, ma esso sembra valere come scelta stilistica, caratterizzando i Canti nella loro ampiezza. Si faccia una ricognizione di alcuni incipit, luoghi di massima consendazione stlistica leopardiana: il «Dolce e chiara è la notte e senza vento» della Sera del dì di festa si pacifica altrettanto nel ben riuscito «The night is soft and bright and without wind», dove a Galassi non sarebbe certo costata fatica anticipare i due predicati nominali rispetto alla copula, in nome di una maggiore aderenza. Ma è qui valsa, altresì, una scelta uniforme, in primis, al suo stile, con una visibile continuità dell’inglese. Anche nell’Ultimo canto di Saffo, l’inizio, «Placida notte, e verecondo raggio / Della cadente luna; e tu che spunti / Fra la tacita selva in su la rupe», è comunque ben reso in inglese, sia sotto il profilo lessicale sia prosodico: «Tranquil night, and bashful light / of the fading moon, and you, emerging / from the quiet woods above the cliff» (forse unica pecca, il mancato uso inziale di «placid» e successivamente di «tranquil» per richiamare la coppia «placida»-«tacita» dell’originale). Inoltre, a voler spezzare ancora una lancia a favore di lessico e sintassi, un’attenzione non manca: lo si vede nella scelta della parola «infinity» per «infinito» (termine che avrebbe usato un uomo di lingua inglese del secolo XIX) o nel fatto che in tutte le traduzioni dei Canti, nonostante l’amplissimo arco temporale necessario all’idea per compiersi (Galassi si cimentò, proprio con L’Infinito, nei suoi vent’anni), l’uniformità dello stile è pressoché dura da mettere in dubbio, pur non essendo e non dovendo essere la stessa dell’italiano (e non solo per un’evidente questione di incompatibilità con la metrica accentuativa). Così è opportuno guardare ai Canti di Galassi: se necessariamente si perde qualcosa, come accade in ogni traduzione, qualcos’altro si ritrova, come all’inizio e alla fine dell’Infinito; se dunque Gëzim Hajdari Giacomo Leopardi Strumenti 117 XLVII 02/2012 Maria Ventre «This lonely hill was always dear to me» sembra inciampare un poco di fronte al «Sempre caro mi fu quest’ermo colle», l’utimo verso, «and foundering is sweet in such a sea» riesce, in traduzione, a fronteggiare un verso italiano quasi impossibile come «e il naufragar m’è dolce in questo mare», adeguandosi, per altro perfettamente, al suo inizio in lingua inglese. Che poi i versi iniziali di Alla Primavera «Perchè i celesti Danni / Ristori il sole» diventino un modernissimo e pur godibilissimo «Now that the sun is working to repair / the damage in the sky», facendoci immaginare, inoltre e prima di tutto, un mattino di pioggia in Central Park, può essere anche un plus. In fondo Leopardi scriveva, in quel serbatoio geniale di pensieri che è lo Zibaldone, che « La piena e perfetta imitazione è ciò che costituisce l’essenza della perfetta traduzione». In questo senso, Galassi è stato un perfetto traduttore, imitatando uno stile che è stato ed è rimasto da subito il suo. (Ugo Fracassa) CLAUDIA POZZANA, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea, Macerata, Quodlibet, 2010, pp. 272, € 24,00. Dopo l’antologia Nuovi poeti cinesi curata congiuntamente con Alessandro Russo e pubblicata da Einaudi nel 1994, Claudia Pozzana offre al pubblico dei lettori italiani una nuova opportunità di avvicinarsi al variegato e fiorente mondo della poesia cinese contemporanea. Come suggerisce il sottotitolo, La poesia pensante è un’inchiesta sulla poesia cinese contemporanea che si compone di saggi editi e inediti con l’obiettivo di fornire un quadro sugli sviluppi del pensiero artistico e letterario (oltre che specificamente poetico) degli ultimi venti anni del XX secolo. Circoscritto tra profonde riflessioni e acute osservazioni su alcuni dei più importanti avvenimenti del Novecento cinese, quali il «4 maggio 1919» o gli eventi di piazza Tian’anmen del 1989, il nucleo del volume è dedicato alla cosiddetta «Nuova ondata di poesia». Questo spazio poetico affermatosi a partire dalla fine degli anni Settanta, viene qui riconosciuto tra le «configurazioni intellettuali» più interessanti della Cina del XX secolo, la cui caratteristica specifica è quella di comporsi di numerose soggettività artistiche accomunate dalla stessa tensione ad esplorare ed interrogare le infinite possibilità del rapporto tra poesia e pensiero. Numerose pagine sono dedicate a tre dei più rappresentativi poeti contemporanei: Yang Lian, la cui poesia stimola una continua riflessione sul pericolo a cui è esposto il poeta alle prese con una lingua di assoluta bellezza, come quella cinese; Bei Dao, nel quale la forza della scrittura poetica tende ad affermarsi assumendo una distanza intellettuale tanto nei confronti della lingua, quanto della politica, dell’amore e del sapere filologico-letterario; Zhai Yongming, donna poeta interessata non solo alla problematica femminile ma continuamente immersa nella ricerca di nuove soluzioni stilistiche, dalla costruzione del testo poetico come sceneggiatura teatrale alla sua audace interazione con le installazioni artistiche. É, infine, da ricordare l’interessante posizione che l’autrice assume nei confronti di una questione delicata per chiunque si occupi di poesia straniera: la traducibilità della poesia. Rifacendosi in particolare a Jakobson e Benjamin, Pozzana afferma che la traduzione non è una mediazione linguistica e comunicativa, bensì un incontro conoscitivo tra due «singolarità soggettive» (traduttore e opera poetica) che mette in atto un intenso lavorìo volto a far emergere il pensiero della poesia e la disposizione intellettuale del suo autore, l’intero mondo culturale da cui nasce. Affermazioni che ci ricordano l’importanza e la necessità di favorire la diffusione e la conoscenza della poesia di ogni cultura del mondo conservandone intatti i caratteri distintivi. (Maria Ventre) ANDREA AFRIBO e EMANUELE ZINATO (a cura di), Modernità italiana. Cultura, lingua e letteratura dagli anni Settanta a oggi, Roma, Carocci, pp. 326, € 27,00. Modernità italiana è un libro di cui vale la pena discutere, perché invita a porsi domande importanti. Che cosa significa ‘moderno’? Il volume si concentra sul periodo dagli anni Settanta (in realtà dal ’68) a oggi: un’epoca, cioè, che è più usuale definire ‘postmoderna’. Sennonché – lasciano intendere Afribo e Zinato nella Premessa – la modernità o la tardiva «modernizzazione» italiana interagiscono con i caratteri del postmoderno. A meno che il moderno non fosse «già postmoderno fin dall’inizio». Se è così, c’è un problema di fondo: come conciliare la consustanzialità di moderno e postmoderno con l’idea di una crisi, di una svolta collocata «a cavallo del 1970»? Da questa domanda ne discende un’altra: quando comincia il moderno in Italia? O almeno, quando si produce quella frattura tra il ciclo delle «grandi speranze del ’45» e il tempo delle illusioni spezzate? Se sul piano sociale o su quello economico la faglia corre tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, sul piano culturale e specificamente letterario la coscienza della crisi matura molto prima. Prendiamo Montale e Calvino, due ‘campioni’ novecenteschi spesso evocati nel volume. Dell’uno e dell’altro qui si citano soprattutto gli scritti a partire dagli anni Sessanta; ma se si leggono le prose montaliane della fine dei Quaranta e se si considerano, per esempio, il progetto e lo svolgimento dei Racconti calviniani nei Cinquanta, ci si rende conto che le contraddizioni del secondo dopoguerra erano evidenti già all’alba o addirittura prima del boom. I sei saggi di cui Modernità italiana si compone sono dedicati ai «Contesti» (Lingua di Giuseppe Antonelli, Filosofia di Paolo Tamassia, Editoria e critica di Emanuele Zinato) e ai «Testi» (Narrativa di Luigi Matt, Poesia di Andrea Afribo, Canzone di Paolo Giovannetti). Ogni saggio, per ricchezza e densità, è una monografia compendiaria e una voce originale nella bibliografia delle rispettive materie. Messi insieme, i capitoli non potevano né dovevano esaurire gli aspetti della cultura italiana nell’ultimo quarantennio (anche se pesa, in particolare, l’assenza del cinema), ma raggiungono un risultato forse anche più importante: indurre a riflettere su un’idea di cultura. Cultura umanistica, in primo luogo, com’era inevitabile vista la formazione linguistico-letteraria dei sei autori. Cultura alta, in secondo luogo; per quanto la restaurazione di soglie tra highbrow e low o middlebrow non fosse evidentemente tra gli obiettivi dell’impresa, la centralità dell’oggetto letterario crea un’implicita gerarchia. E se il saggio di Antonelli, dedicato alla lingua d’uso (parlata, scritta, digitata), si sottrae evidentemente a quelle polarità tracciando un ricco e preciso panorama dagli anni Sessanta a oggi e disegnando una convincente architettura della lingua contemporanea, quelli di Zinato e di Giovannetti vi alludono e contrario. Il primo, eccellente nella sezione sulla critica letteraria, è meno efficace in quella dedicata all’editoria, in cui rientra anche un elemento, la televisione, che avrebbe richiesto un capitolo a sé stante prima di essere liquidata come fenomeno deteriore. Le ragioni di perplessità sono due: l’adesione un po’ schematica al paradigma di Schiffrin («editoria senza editori»: le grandi concentrazioni sono una realtà in espansione, che non sempre però escludono l’editore-connaisseur; il rilievo dominante dell’aspetto commerciale non sopprime del tutto la medazione intellettuale, se non altro perché nel catalogo dei grandi marchi industriali convivono i titoli da battaglia e quelli di alta cultura, e le risorse procacciate attraverso i primi ricadono anche sui secondi, spesso realizzati in perdita: è il caso dei «Meridiani» Mondadori, per esempio) e un riflesso condizionato che riattiva qua e là il vecchio dualismo struttura/sovrastruttura. Il saggio di Giovannetti, d’altra parte, è una mappa preziosa in un campo importante, di per sé e nei rapporti con il genere confinante della poesia, ma pecca a volte per difetto di sprezzatura verso gli oggetti più provvisori nella rassegna (non solo De André, o Gaber, o Paolo Conte sono oggetto delle analisi, ma anche i cantanti o i gruppi meno tradizionalmente associabili all’idea di ‘poesia’ o ‘letteratura cantata’: il che da un lato è un pregio, perché il panorama che ne risulta è più esteso, dettagliato, mosso, libero da pregiudizi; dall’altro può far problema, perché gli strumenti di analisi applicati dall’interprete – la metrica ad esempio – efficaci per apprezzare la consistenza stilistica di un testo, sembrano a volte spuntarsi contro l’assenza di stile dei prodotti in esame). (Niccolò Scaffai) ¬ top of page |
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