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NICCOLÒ SCAFFAI, Il lavoro del poeta. Montale, Sereni, Caproni, Roma, Carocci, 2015, pp. 248, € 25,00.

Il lavoro del poeta riunisce saggi nati in occasioni diverse (il nucleo originario dei singoli capitoli sono relazioni in convegni e contributi per pubblicazioni collettanee), senza limitarsi ad accostarli l’uno all’altro secondo una successione cronologica. Basterebbe per avere una conferma soffermarsi sul ritornare, in diversi luoghi del volume e con intensità variate, di un componimento come Notizie dall’Amiata, analizzato in maniera distesa nel secondo capitolo (intitolato per l’appunto tematicamente Interpretazione di Notizie dall’Amiata), ma anche chiamato in causa per ragioni d’intertestualità (pp.143 e 151) nelle pagine su Sereni (è il settimo capitolo) e di intratestualità, laddove ad essere indagati sono i nessi interni all’opera di Montale (pp. 89 e ss.). Si potrebbe anche sottolineare l’uso dei titoli in alcuni snodi strategici o la continua riflessione sulla critica, sulla filologia, gli affondi sul metodo che contribuiscono alla coerenza generale. In quest’ottica il profilo dell’autore del Lavoro del poeta si sovrappone plasticamente al profilo del critico che negli ultimi anni ci ha spiegato magistralmente l’organizzazione di architetture macrotestuali come i libri di poesia (Montale e il libro di poesia e Il poeta e il suo libro). D’altronde uno dei capitoli più belli del Lavoro del poeta guarda da vicino proprio la forma libro degli Strumenti umani. Scaffai valorizza il componimento Situazione, mostrando come i versi «sono io tutto questo, il luogo / comune e il suo rovescio» (vv. 15-16) instradino verso l’ipotesi di «un’organizzazione sia formale che semantica» del terzo libro di Sereni «non univocamente orientata» (p. 138). Nel capitolo si mette ordine all’insieme di modalità enunciative negli Strumenti, un aspetto retorico su cui la critica si è spesa fin dalla pubblicazione della raccolta (i primi rilievi di peso sono di Fortini nel 1966). Qui, come scrive giustamente Scaffai, «la condivisione della parola rimane un obiettivo» (p. 168), il dialogo è comunque disatteso, perché «le voci che parlano raramente ottengono una risposta, a meno che le battute non siano quelle di un dramma interiore al soggetto o non vengano pronunciate in sogno» (p.165). Ne consegue evidentemente la persistenza in questa poesia di «un’impostazione monodica», come mostra il poemetto Una visita in fabbrica. Aggiungerei che, se si passa al parametro della rappresentazione dell’interiorità, queste riflessioni critiche trovano una sponda nella mancata restituzione, anche in Sereni (e così tipica del genere lirico), di coscienze distinte da quella del personaggio autobiografico e delle sue proiezioni. Nel Lavoro del poeta si alternano saggi con fisionomie diverse. Nel primo capitolo, Come lavorava Montale (titolo in cui ne risuona un altro, celebre, continiano), Scaffai ragiona sul rapporto tra Montale e il suo archivio, sui processi di composizione dei testi, sull’evolversi «dell’habitus variantistico tra le prime e le ultime raccolte » (p. 26), fino ad arrivare ad alcune considerazioni sulla biblioteca personale del poeta, passata, con danni, sotto un bombardamento (a Genova) e un’alluvione (a Firenze). In altri capitoli invece il critico punta su letture specifiche, come nel caso dell’analisi ravvicinata di Notizie dall’Amiata, a cui si è già accennato, o del Sogno del prigioniero, analisi esemplare che argomenta, tra l’altro, come fra le fonti del testo ci sia una pellicola di H. Hathaway del 1935. Lungo tutto il suo libro Scaffai adotta un modello di critica attenta allo stile, alle varianti, alle fonti e insieme in grado di riconoscere il modo in cui i poeti hanno abitato il «presente che gli è appartenuto, fatto di sentimenti, amicizie, persone, oggetti, libri, film, musiche » (p. 13). È un’idea di letteratura in sintonia con quanto ebbe a dire Vittorio Sereni nel 1980 nella conferenza da cui è mutuato proprio il titolo Il lavoro del poeta. L’espressione «il lavoro del poeta», infatti, rimanda alla «gestazione» e alla «messa in opera» dei componimenti, in un processo che fa i conti tanto con il codice e la tecnica, quanto con l’esperienza vissuta dall’autore. Altrove, con formule altrettanto eloquenti, Sereni definì questa scrittura dei versi, suscitata da incontri casuali e da occasioni personali, in contrapposizione a un «lavoro» fatto «a tavolino» o in «laboratorio ». Il libro di Scaffai fa tesoro di tutto questo e con coraggio prova a innestarlo nel lavoro del critico.

(Damiano Frasca)

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