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Il 1 luglio 2016 Yves Bonnefoy ci ha lasciati. Vogliamo ricordare l’attenzione e l’affetto che egli ha da sempre e costantemente testimoniato a «Semicerchio». Ne attesta la costante presenza del suo nome tra le nostre pagine e tra le nostre iniziative. Vogliamo limitarci, qui, a ricordare l’ultimo dei suoi interventi, pubblicato sul numero LII (2015/1): Une heure dans ce journal que je ne tiens pas, presentato da Chiara Elefante, accompagnato dalla traduzione in italiano (Chiara Elefante) e in inglese (Hoyt Rogers), e seguito da un entretien tra l’autore e i traduttori. Scritto poi apparso in Ensemble encore, l’ultima delle sue raccolte consegnata in limine, accanto a L’écharpe rouge, alla posterità, e di cui diamo conto qui sotto (M.L.).  


YVES BONNEFOY, Ensemble encore, suivi de Perambulans in noctem, Paris, Mercure de France, 2016, pp. 136, € 14,80.  

in: Semicerchio LVI (2017/1) (Neo)Barocco. Poesia del Seicento nella teoria contemporanea, pp. 126 - 127

L’incontro delle coordinate spazio-tempo di cui i due avverbi uniti si fanno, sin dal titolo, portatori, sembra voler indicare, nella marca ottativa che li contraddistingue, il desiderio di una consistenza: «Que ce monde demeure!», come Bonnefoy aveva più volte auspicato (si veda, ad esempio, la sezione omonima de Les planches courbes). E purtuttavia, tutto quel che ci è dato, «Tout ce que nous avons, ce sont des planches mal clouées, mal debout, déjointes» (p. 38); delle assi ricurve (Les planches courbes, 2001), che dovremo far combaciare, ricomporre, compaginare. Questa incidenza, questa congruenza, è il luogo; nient’altro che la sua apparizione costituita, qui come altrove, dall’incontro di due versanti: due tavole ed è la barca; due muri, ed è la volta; due mani, ed è l’unione. Tra queste pareti, la forma del significare si discioglie in liquida sostanza, e la lingua in parola. Ne è esempio il mistico vaso: epurato della sua leggenda (o, se si vuole, delle sue sovrastrutture teologiche, che ne fanno un oggetto di supersustanziale venerazione: si veda Le Graal sans la légende, Paris, Galilée, 2013) esso diviene il simbolo quotidiano che suggella la nostra condivisione. Il calice dove posiamo ogni giorno le labbra e le mani è infatti, come l’etimo stesso di vas ci ricorda, oggetto di pura mediazione, trasporto del senso: «La coupe est née de seulement nos paumes/ Se frôlant, se heurtant, se chevauchant/ Dans cette glaise, le désir, dans aimer, ce voeu» (p. 16). Come tale, esso può farsi garante di un’agape umana: trascendenza di Sé nell’immanenza del mondo. Al poeta, suo emissario, spetta il compito del suo trasporto; egli ne beve, e la sostanza ch’esso contiene lo guida verso una qualche nuova, provvisoria, dimora: «Que voulions nous?/Seulement préserver du sens aux mots./C’étaient eux notre coupe, le langage,/Je la lève pour vous et avec nous,/Est-ce nos voix, ce désordre d’échos/Sous une voûte, sombre, puis ce silence?» (p. 10).
La prima sezione, che reca il titolo stesso della raccolta, apre programmaticamente quest’ultima sotto l’insegna di una mutilazione qualificante, la cecità: «C’est bizarre, je ne vous reconnais pas./ Tant il fait nuit je ne vois plus votre visage » (p. 9). Se, come scrive Chestov a cui Bonnefoy si è da sempre richiamato, Dio non sa, ma crea, è il suo essere «encore aveugle» che ci riscatta: abbandonata la rivolta egoica contro il mondo e le sue leggi di chiarezza, individuazione, selezione, progressione, il soggetto torna all’increato per farsi molteplice. Solo attraverso tale trascendenza dell’Essere nella comunità («ensemble») il senso potrà essere ‘portato’ («encore») attraverso il tempo. Qui, la coppa è ancora l’Ideale dipinto, il vaso inerte della natura morta, o il sogno che sfuma dell’Oltre, come nel mistero dell’eucaristia: «Je prends la coupe, je l’élève, elle n’est plus.//Et que contenait- elle, ai-je su jamais,/Cela semblait réel, ce l’était peut-être,/Disons, ce fut un vin/Que nous avions désir de boire ensemble » (p. 9). L’inganno, il «leurre» della trascendenza, segna, nondimeno, l’inizio del viaggio, con il rianimarsi del vaso già posato sul tavolo («Le vase qui s’éveille sur la table», p. 69). Dans Perambulans in noctem, il viaggio è un brancolare del folle puro verso l’«alba dei tempi» («À l’aube des temps», p. 115), con la sua coppa saldamente tenuta «à deux mains» (p. 128), dacché è con essa soltanto che si placa qui e ora la nostra sete («J’ai touché de mes lèvres au breuvage que je transporte, j’ai même bu», p. 128). Egli la conduce fino alla «porta bassa» («La porte basse», p. 124), che sola ci costringe ad inginocchiarci: «Et je ne sais pas pour combien de temps il me faudra la porter, avant de toucher du genou à peut-être une porte basse» (p. 128). E, varcata in ginocchio la soglia dell’ultimo giorno, «la porte franchie, cette porte basse de dernier jour» (p. 125) s’incontra l’Altro, insieme al quale si comincia il viaggio in un altro mondo, ancora: «Tu viens près de moi, tu me dis “Viens”. Et il va nous falloir marcher, marcher longtemps, marcher tard, dans cet autre monde, il fera froid» (p. 125).

(Michela Landi)

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