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MARINA AGOSTINACCHIO, Statue d’acqua, illustrazioni di Elena Candeo, Venezia, Centro internazionale della grafica di Venezia, 2015, pp. 38, s.i.p.
Nei 14 quadri di Statue d’acqua Marina Agostinacchio dimostra di aver trovato un ritmo suo: un libero alternarsi di endecasillabi e doppi senari, sia pure con reiterata facoltà di deroga; un ritmo che sarebbe facile, in relazione alla materia del poemetto, paragonare se non proprio identificare al ritmo delle bracciate che servono a percorrere lo spazio di questa vasca. A una considerazione retrospettiva e ricapitolativa del poemetto, la vasca somiglierà a una piscina probatica, al luogo che purifica e risana. In quel perimetro il movimento del nuotatore non si svolge da un punto di partenza a un qualsivoglia traguardo e viceversa. Non c’è infatti gara, non c’è esibizione: la sfida consiste nel conseguire un equilibrio, e mantenerlo, fra l’abbandonarsi all’elemento – in una sorta di ipnosi prodiga di possibilità – e la tensione utile a tesaurizzare tutto ciò che del poemetto costituisce poi l’argomento. È una successione di testi che parrebbe addirittura pensata nell’acqua: fra progettazione e realizzazione dell’opera non sembra che si frapponga un intervallo di assestamento, di riflessione demandata alla razionalità. La fantasia del lettore vede anzi sull’umido bordo della piscina le ancor umide «statue», e fra tutte colei che se ne fa voce designata (Marina, autrice del poemetto), vivere immediatamente, con tuttora la pelle bagnata, il privilegio di quella immersione, di cui ho ipotizzato la virtù taumaturgica, ‘probatica’. Il privilegio consiste nel tanto di liberatorio di cui usufruisce chi crede (e cede) alla spinta, al sostegno delle acque: una libertà – inimmaginabile in altra situazione – di assemblare quel che normalmente ci si porge diviso e dissociare quel che di solito percepiamo come unitario. In altri termini, la permanenza nell’elemento ha scatenato il poetico, beninteso in chi vi si sia immerso con la necessaria fiducia e confidenza. Per questo, e in un dilagante regime d’ipnosi, nulla di realistico ci trasmettono i versi di Marina; per questo il suo codice lirico è anche e primamente un cifrario, al quale corrispondono con bravura le illustrazioni di Elena Candeo, che di quel codice deve aver capito la segretezza arcana. D’altra parte l’emotività che lo ispira e governa reclama da chi legge innanzitutto un’adesione sensibile, quell’iniziale scatto di empatia, mancando il quale (ce l’hanno insegnato i grandi poeti) si non nasce in noi il desiderio di sviscerare un testo, di farlo nostro coll’approfondirne l’interpretazione.
(Silvio Ramat)
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