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ANDREA DE ALBERTI, Dall’interno della specie, Torino, Einaudi, 2017, pp. 88, € 10,00.

Penso che il modo migliore per avvicinare il quarto libro di poesie di Andrea De Alberti (che lega palesemente coi primi due, Solo buone notizie, Interlinea 2007, e Basta che io non ci sia, Manni 2010; mentre il terzo, Litalìa, uscito nel 2011 per le edizioni d’arte La Grande Illusion, è per il momento un interessantissimo percorso laterale, che presta ad alcuni passaggi dell’opera più recente gli strali dell’invettiva), sia sospendere ogni generalizzazione concettualizzante e ogni sorvolo topografico delle sue sei sezioni e misurarsi il più attentamente possibile con qualche testo, basando semmai su queste analisi locali qualche ispezione a raggio un po’ più largo. In questa maniera si asseconda quella che mi pare una delle caratteristiche salienti dell’opera, ovvero il procedere per piccoli spostamenti successivi e non lineari, lasciando che le diverse piste di senso si traccino poco a poco, in lenta divergenza, per poi operare delle sintesi che invece di riunificare ordinatamente quelle direzioni le accavallano e le capovolgono. La lettura resterà dunque parziale, centrata com’è su alcuni procedimenti costruttivi del libro e sul loro senso più che sulla sua complessiva unità; ma questo mi pare un male minore, se consente di mettere in evidenza la varietà complessa e studiata di un’opera che, rifuggendo lo stile raziocinante, similnarrativo e parasaggistico di tanta postlirica (giusto per intenderci), e ancor più l’enfasi di una pronuncia verticale e tendenzialmente chiusa in sé stessa, rischia di sembrare al lettore frettoloso molto più semplice e meno stratificata di quanto è.
Prendiamo dunque la terz’ultima poesia del libro, L’evoluzione è altruista: «L’evoluzione è altruista, / a sopravvivere sono esseri buoni, / un bimbo di un anno ci informa di una presenza. / Leggo un articolo di giornale in un giorno qualunque / di un attimo senza destino, / tengo le braccia conserte nel caldo pomeridiano, / sfioro una luce invogliata da un domopak lampeggiante. / Io che per anni avevo creduto all’egoismo di natura, / mi trovo ad essere chiamato giraffa d’altruismo. / Mi chiedo se ho sviluppato il collo solo per guardare / meglio in faccia una persona che non conosco». Fin dai primi versi incontriamo una delle arterie tematiche più importanti del libro, quella in cui scorre il filo, o piuttosto il frondoso cespuglio, del processo di ominazione, durato milioni di anni; qui si fa riferimento alle teorie neurobiologiche e paleoantropologiche sostenute da molti scienziati secondo le quali comportamenti ‘morali’ come la generosità e la cura dei più deboli avrebbero costituito un vantaggio evolutivo per gli esseri che li mettevano in atto. Altrettanto conta, però, la maniera con cui questo tema viene presentato: la formula svelta e semplificata che mira all’effetto subitaneo, quella ‘bontà’ accattivante piazzata nella frase un po’ superficialmente, fanno pensare allo stile giornalistico, e meglio ancora ai titoli, spesso redazionali, degli articoli di quotidiani e periodici. E la poesia conferma, subito a seguire, questa impressione. C’è proprio un io che legge il giornale, e dunque l’enormità dell’argomento, che senza esitazioni si può definire fondamentale per l’esistenza stessa del genere umano come si è evoluto, si trova concentrata, anzi pressata e schiacciata nelle strette colonne di una pagina a stampa, per di più di rapido consumo (un giornale appunto, e non il volume di un paleoantropologo o di un primatologo), e offerta alla lettura di un singolo uomo, perfettamente insignificante, in quanto individuo, rispetto alla storia del genere. Tracce evidenti di linguaggio giornalistico si rilevano in quasi tutte le poesie in cui De Alberti tratta in maniera esplicita di evoluzione umana. Gli elementi in gioco, così, sono già tre: la lunghissima gittata dell’evoluzione dell’umanità a partire dalle scimmie, l’unità psicofisica di un soggetto individuale che esiste ‘adesso’ (e le due scale temporali che a questi fattori corrispondono, la profondità delle epoche e il presente-adesso), e la sfera dell’informazione che in questo caso fa da mediatrice (banalizzante quanto si vuole) tra i primi due. Ma bisogna leggere ancora: cosa vuol dire il verso 3, con quel «bambino di un anno» che «ci informa di una presenza»? Sembra che anche questa stringa verbale, come le due precedenti, sia stata prelevata dal pezzo giornalistico, ma, forse a causa del taglio, o più probabilmente per una voluta manipolazione, il suo significato rimane sfocato, sospeso. E se la scena di lettura si svolge su un fondale totalmente ordinario, un interno domestico in un pomeriggio assolato, un secondo segnale di sfasatura, stavolta cronologica, vi è subito connesso, perché il testo afferma che ci troviamo in un attimo che contiene un giorno, e non il più prevedibile contrario. Sarà pur vero, dunque, che giorno e attimo, «qualunque» e «senza destino», fanno parte del tempo privo di eventi significativi e della vita addormentata nelle sue ripetizioni (cullata dal massaggio continuo a bassa intensità dell’informazione), ma è altrettanto vero che non occorre poi molto, forse uno sguardo appena più attento, per prendere coscienza dell’enormità delle forze in gioco, in azione, in ciascuno di questi giorni-negli-attimi che ci toccano in sorte. Guardiamo poi quella formula che qualifica la luce nel verso 7, «invogliata da un domopak lampeggiante»; in un tessuto verbale fin qui aggiustato senza sussulti sul registro medio e praticamente privo di metaforicità, questa è l’unica eccezione, come una debole trazione o tensione esercitata sul panneggio grigio, quasi una piccola carezza animatrice, una ‘coccola’ fatta al linguaggio. E per finire l’explicit, dove partendo, probabilmente, da un altro segmento prelevato dall’articolo di giornale («giraffa d’altruismo»), e grazie a un altro, stavolta più sensibile, slittamento metamorfico-metaforico, il soggetto che parla nel testo arriva a formulare un’ipotesi in cui la sua (breve) storia personale entra nello stampo di una (lunga) vicenda evolutiva riconfigurandone le fattezze secondo lineamenti leggermente surreali: riuscire a sostenere lo sguardo dell’altro, a guardarlo mentre ti guarda, e dunque a conoscerlo e ad esserne conosciuto, è descritto come l’esito di un allungamento del collo, di una modifica della struttura anatomica; ma ovviamente qui viene fatto giocare anche il senso ordinario in cui si dice ‘allungare il collo’, ossia alzare la testa per vedere meglio, e a dare l’avvio a tutto lo spostamento sta, non esplicitamente nominato ma presente, il lungo collo della giraffa.
Leggiamo ora un secondo testo, intitolato Manhattan (sesto della terza sezione): «Resta il dubbio che vada bene un po’ per tutti / questa lunga cerniera di informazioni gridate / per una rubrica personale al limite dell’assurdo. / Mi fa sembrare un druido nella posizione / più sbagliata dei pianeti, non si capisce perché, / o un consiglio superficiale per non cadere / nella trappola dell’immaginazione o dello specchio. / Sono questo, guarda, / una figurina ai tempi di facebook, / una faccia senza citofono, / crescono i peli sul mio petto, / assomiglio a King Kong se mi ci metto. / Sono un uomo diviso in anima e corpo, / un terzo dell’una, due parti dell’altra, / la testa come una ciliegia nell’alcol». La poesia può essere considerata parte di una serie all’interno della sezione, e stabilisce inoltre relazioni con testi più lontani e sparsi della raccolta; potremmo definirla la serie-costellazione dello scimmione, il cui protagonista può essere il King Kong del film datato 1976 (remake dell’originale del 1933), un orango visto allo zoo, o un gorilla di cui si legge sui giornali ancora a proposito di evoluzione e parentela con l’uomo: figure dunque immaginarie o reali, presenti o passate o lette o ricordate, in maniera vaga o distinta (il tempo, in questo libro, è perennemente out of joint, e lo spazio è organizzato in zone di limpidezza, tranquilla o allucinata, e fondali sfuggenti e indeterminati). Nel caso in questione, il personaggio della grande scimmia serve a costruire un ritratto di chi dice io nella poesia. Ma se si comincia a leggere il testo sulla scorta delle convinzioni maturate attraversando i testi precedenti, e si intende quindi il titolo, Manhattan, come la zona di New York dove sorgevano le Twin Towers (sostegno dell’arrampicata di King Kong nel film di John Guillermin), ci si rende conto strada facendo che la poesia ci porta con sé in una forte traslazione di senso: la somiglianza tra io e King Kong è inscenata come inconsistente, ed è invece al cocktail chiamato Manhattan che, più seriamente, l’io arriva a paragonarsi, con tanto di testa-ciliegina in immersione (come, altra diversione analogica, la foto del viso nel box di un profilo facebook). È proprio in virtù di questi poco appariscenti scarti orizzontali, di questi depistaggi, che la catena della raccolta si inanella via via: potremmo dire che la connessione si realizza tramite anelli mancanti. E anche le frequenti riprese e variazioni dei titoli (una per tutte: la sequenza Sapiens – Oasi – Gorilla – Sapiens sapiens – Lucy, nella prima sezione), non vanno lette solo come massicci montuosi tematici, ma anche come formazioni nuvolose in costante imprevedibile cambiamento.
Dalle poesie qui analizzate si possono estrarre due ipotesi, la cui pertinenza si estende, pur se con distribuzione non uniforme, all’intera raccolta. Per prima cosa, De Alberti presenta sulla pagina un’immersione completa nell’ordinario e nel quotidiano, e negli incessanti flussi di informazione e intrattenimento che lo modellano; questo comporta l’accettazione dei linguaggi più comuni, e anche triti e stereotipi, che vengono assunti sulla pagina senza alcun distanziamento ironico, e manipolati sì ma non secondo criteri di taglio e montaggio straniante. Anziché distanziarsi da questo linguaggio, si cerca qui di muoversi al suo interno e tramite questi piccoli movimenti rimodularlo, per macchie, deboli scintillamenti discontinui. La forza motrice che opera tale rimodulazione, o ricarica, è un inappariscente pensiero associativo che basandosi sull’equivocità e la vaghezza della lingua comune lavora alla produzione di senso nuovo («Non lasciate i figli a casa a smussare l’ironia degli spigoli […], a scegliere sul divano le pietre di paragone»). Secondo: anche dei due sostantivi che troviamo nel titolo della raccolta, interno e specie, vengono attivati i numerosi sensi e usi possibili. Abbiamo a che fare con interni imbricati l’uno nell’altro, e messi in relazione con i rispettivi esterni; poesia per poesia, è compito del lettore capire su quali livelli il testo lo stia impegnando. È un interno il Sapiens, lo è la sfera della vita quotidiana, lo è l’ambiente domestico, lo è il gruppo familiare con le sue perdite e i suoi nuovi ingressi (questo è anche un libro sulla morte dei padri e la nascita dei figli, o meglio ancora sul divenire padri e figli insieme in un vortice psichico del tempo), lo è il soggetto individuale, lo è infine il singolo testo. E specie? Direi che di questo termine venga fatto valere il senso più generale, e etimologico (che ovviamente comprende anche quello tassonomico), la manifestazione di una sostanza che si offre alla vista; ed è proprio un’offerta di contatto, e anche di ospitalità (anni fa Paolo Zublena coniò per la sua poesia la categoria di «chiusura ospitale»), quella emerge dalle poesie di De Alberti: «eppure, dall’interno della specie, / ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia, / con le prove concepite fuori da ogni possibile / orizzonte di stupore».

(Federico Francucci)

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