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GABRIELE FRASCA, Lame. Rame + Lime seguite da Quarantena e Versi rispersi, postfazioni di Giancarlo Alfano e Riccardo Donati, Roma, L’Orma, 2016, pp. 468, € 32.00.

Questo volume di Gabriele Frasca esce nella nuova serie della collana «fuoriformato » dell’editore L’Orma: una collezione intelligente – diretta da Andrea Cortellessa – che accoglie, lo ricordiamo, «testi italiani irriducibili a convenzioni di genere, impaginazione, stile». In una simile prospettiva di lettura importa sottolineare subito che il titolo del volume sta a rappresentare il meccanismo dell’atto mancato studiato da Freud (il cosiddetto lapsus), con cui continua la serie di titoli ‘sbagliati’ dati da Frasca alle edizioni a stampa delle sue quattro raccolte, Rame (1984 e 1999), Lime (1995), Rive (2001), Rimi (2013), senza contare l’antologia Prime (2007). Si tratta di una sequenza ad oltranza di atti mancati, che ‘girano attorno’ all’opposizione fonematica dell’esordio: opposizione del corrosivo Rame al letterario (rimosso, naturalmente) ‘cavalcantiano’ Rime. Nel nuovo volume il lettore trova raccolti i primi due libri: appunto, Rame (pubblicato nel 1984 presso Corpo 10, poi riproposto nel ’99 da Zona in una versione rimaneggiata) e Lime (nel ’95 edito dall’Einaudi), i cui materiali testuali sono stati ora riordinati dall’autore nella prospettiva avanzata di un progetto che libera i versi dalla passata riduzione tipografica. I materiali, ora in parte perfezionati, sono stati montati assieme in modo da dare corpo a una raccolta ulteriore – ma si tratta come vedremo di una costruzione provvisoria – con altri versi accolti (o liberati) nella prospettiva mobilissima dell’archivio. È infatti un lavoro di archivio (file) – e si pensi all’archivio come modello dalle strutture dialettiche oggi costituito da Faldone, il «quadratico work in progress» a cui lavora incessantemente Ostuni (www. faldone.it), poeta da Frasca stimatissimo – articolato su quattro distinti blocchi di versi: Rame, Lime, Quarantena, Versi rispersi. Se quest’ultimo è il blocco più libero, come dice esplicitamente il titolo, che chiude e allo stesso tempo apre il volume, il blocco intitolato alla Quarantena rappresenta invece un progetto nel progetto – il primo non tipografico, spiega Giancarlo Alfano nella sua utile postfazione (a cui fa seguito quella di Riccardo Donati) –, che al momento della pubblicazione di Lame comprendeva cinque canzoni. Ma a questo proposito si consulti il sito web dell’autore, www.gabrielefrasca.it, dove ora compare l’Indice (sempre) provvisorio di una prossima ‘raccolta’ – Mire (ancora un lapsus) è il titolo del libro che raccoglierà con i testi di Lame i materiali tra l’altro delle due ultime raccolte di Frasca, Rive (2001) e Rimi (2013) –, indice provvisorio in cui è inserito un sesto testo, offerto al visitatore in formato audio. Immerso oggi nel contesto di una cultura mediale che evolve incessantemente, e in cui il prodotto a stampa sembra sul punto di essere sorpassato, Lame (come l’arduo work in progress di Faldone), funziona per ‘immagini dialettiche’, fondato com’è sul principio del montaggio teorizzato da Walter Benjamin, il quale sosteneva appunto che di fronte all’evoluzione mediale contemporanea, la forma del libro avrebbe dovuto essere completamente ripensata lavorando sul modello mobile dello ‘schedario’. Ora in Lame, come in Faldone, le poesie sono come tessere di un mosaico, frammenti di un passato, che se montati in una costruzione adeguata diventano improvvisamente ‘leggibili’, mostrando tutta la loro attualità: in modo che sia la vita stessa del materiale a presentarsi alla fine come una costruzione a priori. È, si badi, l’uso capace di rendere giustizia dei materiali testuali a renderli improvvisamente leggibili mettendoli in relazione con il presente attraverso un’immagine dialettica. E in questo senso un montaggio ben elaborato rende possibile l’attivo coinvolgimento del lettore. L’immagine è la dialettica nell’immobilità, o, per dirla con le parole del Frasca lettore di Beckett, un ‘fremito fermo’. Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini, e il luogo, in cui le incontra il lettore, è il linguaggio. Anche Alfano spiega che la «complessiva operazione di Lame […] sistema la prima storia poetica di Frasca in una ‘edizione critica d’autore’ [attenzione, non in un’ottica monumentale], ma mobilitandola nell’effettiva esperienza poetica, giacché, per riprendere un gioco di parole caro al nostro poeta almeno sin dai primi anni Novanta (si legga [nel nostro volume] ritornello: “finché i fatti / ritornano faccende, o i loro scarti”), trasforma nuovamente in “faccende” (cioè – argomenta Alfano – in valori dinamici: qualcosa che non è stato ancora definitivamente conseguito) quelli che avrebbero dovuto ormai essere considerati dei “fatti” (cioè dei valori statici) ». Occorre pertanto chiedersi che ruolo giochi esattamente il lettore in una prospettiva di (ri)costruzione come questa, che gli assegna una posizione centrale. Torniamo per un momento alla questione dell’aura cavalcantiana a cui si accennava all’inizio – questione, come vedremo, che si ricollega al compito che spetta al lettore. Riccardo Donati, nella sua postfazione a Lame, ha rintracciato quelle che egli definisce le «emozioni culturali», i modelli che agiscono alla base della scrittura poetica di Frasca, spiegando come Cavalcanti appaia decisivo per quanto riguarda i debiti del poeta napoletano nei confronti del Medioevo romanzo. Donati ci informa che lo stesso Frasca si è pronunciato sulla questione – sollevandola, in verità – con una comunicazione privata in cui ha dichiarato che Cavalcanti dev’essere considerato «il duca e maestro di Rame e di Lime». Qual è il senso esatto di queste parole? Lo studioso si spinge «a ipotizzare che Donna me prega, lirica in cui alla dolorosa caoticità del reale così come esperito dai sensi risponde la fissità senza scampo di una percezione raggelata, rappresenti una delle matrici stesse dell’opera di Gabriele Frasca». Allo stesso modo, Alfano rintraccia nella celebre canzone filosofica un «modello rigorosamente materialistico », a cui può essere ricondotto il tema erotico che circola nel nostro volume. Si tratta di un punto importante. Per approfondirlo possiamo fare un’ipotesi. Possiamo supporre che di Donna me prega Frasca abbia fatto una lettura matura nell’edizione, sempre feconda di stimoli, dell’amatissimo Contini, il quale – a proposito di una delle domande sulla natura dell’amore a cui risponde la canzone cavalcantiana – chiosa magistralmente che «non la vista in quanto tale produce l’amore, bensì la fissa immaginazione». Amore, discute Cavalcanti, «prende suo stato» in quella parte «dove sta memora», «Vèn da veduta forma che s’intende, / che prende – nel possibile intelletto, / come in subietto, – loco e dimoranza». «Amore – chiosa Contini – viene da una specie visibile, che, astratta e fatta intelligibile, s’imprime […] nell’intelletto possibile [è la zona della capacità di intendere]: il quale è subiectum o materia di siffatte forme» (il corsivo è mio). Si legga a questo punto Frasca, che interpreta Cavalcanti con Freud: «via lo sappiamo che non c’è materia che un’allucinazione non ridesti. dal sonno al sogno» (un passaggio rapido ma denso di implicazioni, in un testo che si trova nel blocco dei Versi rispersi). Tutto questo può essere colto da un altro punto di vista, se consideriamo ciò che Frasca sostiene nel corso di una lunga intervista concessa a Claudia Crocco (nella prima parte, apparsa l’11 giugno 2013) sulle pagine web di «Nuovi Argomenti» (www. nuoviargomenti.net). Il poeta, invitando alla lettura dei suoi testi ad alta voce, dichiara che il suo uso del «punto fermo – ne abbiamo appena letto un esempio – è una notazione musicale, un neuma». E precisa che «l’unica via per giungere al lettore […] non può che passare attraverso la momentanea condivisione di una parte del suo corpo. Proprio lasciando risuonare la membrana della carne. È una cosa un po’ erotica». Credo che quest’ultima affermazione possa essere intesa proprio come suggestione cavalcantiana in un’ottica avanzata (appunto freudiana). Sulla questione del punto fermo, in ogni caso, non si può che rinviare al fine contributo critico di Fabio Zinelli su Rive (in «Semicerchio», 28, 2003/1), dove si spiega che «l’addentellato del punto metrico [come] espediente prosodico/tipografico (già in Lime) […] suggerisce l’esistenza di una sorta di bip sovrasegmentale rispetto al numero, quasi appartenendo al fondo stesso della lingua ed emergente ad incontrare, nella forma, il metro». Per concludere, l’intenzione di Frasca è quella di non assumere alcuna posizione autoriale. «Non c’è soggettività possibile in poesia, se non all’impersonale. Non c’è nemmeno oggettività – portarsi dentro la cosa, il reale, è stato un mito, spiega altrove Frasca –. La posizione che occupa il poeta, se vuole fare della lirica, è quella di chi se ne sta a lato. Il punto di vista della poesia non è né oggettivo né soggettivo: è abiettivo ». E importantissimo: «Io tolgo il mio soggetto, ma non il soggetto. C’è un soggetto che non sono io».

(Daniele Claudi)

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