« indietro MIA LECOMTE, Al museo delle relazioni interrotte, Faloppio (CO), LietoColle, 2016, pp. 60, € 13,00. C’è una parola, in questo nuovo libro di Mia Lecomte, che riassume un certo modo di procedere per elencazione ed esposizione, ma che poi indica anche la propensione a sottrarre gli oggetti dalla loro storia, raffreddandoli ancora vivi, quasi per timore di scottature o per urgenza di passare oltre. Questa parola è «collezione», e la troviamo in un testo centrale per l’economia del libro, intitolato Time capsules (capsule del tempo), un contenitore in cui vengono deposti certi oggetti e testimonianze del presente, sotterrati, per essere poi eventualmente ritrovati in epoche future. Questa capsula è, dunque, il museo dei reperti/totem depositari di un clima di separazione e perdita – una crisi famigliare, la fine dell’amore (Carlo Bordini in una nota) –, ma si veda come, qui, le cose non siano totalmente abbandonate alla loro carne perché, dice Lecomte, «soltanto questa nostra morte / vedrà completata la tua collezione» (p. 33). La scrittura si pone, allora, come necessario cammino espiatorio, da percorrere con la penna in forma di vanga o di tutore, un cammino accompagnato da giaculatorie di parole che chiedono forma, prima ancora di arrivare a una eventuale meta. In fondo, lo dice la stessa Lecomte nella nota che accompagna il testo: «i luoghi [...] non sono quelli della scrittura – che avviene sempre altrove – ma quelli dove si è acceso lo spunto, sollecitato da un presunto accadere». Il tempo, come sappiamo, non è solo una dimensione dell’accadere ma anche dello spazio. Spazio/tempo che investe la poesia di una dimensione sospesa tra l’esigenza di raggelare, o rallentare, e il rischio della dispersione, la perdita della ‘cosa’, cioè della parola stessa. La poesia ha dunque la forma di un canto sospeso, di uno zenit, o di un equilibrio, in cui la parola può ancora immaginare che «quel fermo immagine ci coglierà insieme di sorpresa / mentre staremo godendo stretti dell’attimo in eccesso / tu farai in tempo a dire ci si potesse amare qui per sempre / io a dire che un secondo a volte è più che sufficiente» (p. 27). Resta il fatto che, prima della teca, della vetrina espositiva, intercorre uno spazio sospeso tra un passato prossimo ancora da definire, e un presente assai ambiguo, che forse è anche il tempo delle allucinazioni e dei fantasmi, oltre che del compito e della resa. Gli oggetti, insomma, assumono il peso drammatico degli stessi corpi, di un essere che è non in quanto pensiero, ma carne, sostanza, resistenza a s/fiorire: «Eppure le rose erano tutte bianche / una carezza ancora possibile per noi» (p. 24). (Sebastiano Aglieco) ¬ top of page |
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