« indietro GUIDO MAZZONI, La pura superficie, Roma, Donzelli, 2017, pp. 80, € 13,00. L’interesse suscitato dal libro di Mazzoni è testimoniato dal numero di recensioni ricevute. In generale, se ne è sottolineata l’esattezza quasi sociologica: «è uno di noi» sintetizza A. Cortellessa (Sole24). E questo è vero non tanto per un’intenzione empatica dei testi (che non c’è) ma soprattutto perché la scrittura creativa di M. si pone come rappresentativa di una forma di vita coincidente con quella di un gruppo socialmente riconoscibile, composto da chi pratica o è spettatore attivo di un lavoro culturale, condiviso, oltretutto, dalla quasi totalità del pubblico odierno della poesia. La recensione assai critica di R. Galaverni (la Lettura), per cui nel libro troppo pesa l’ombra della scrittura saggistica di Mazzoni, tocca dunque un aspetto costitutivo ed essenziale del libro. Lo fa però facendo appello a una categoria fuori tempo massimo, quella di poesia e non poesia, reclamando, di fatto, l’intervento di una voce lirica che nel libro è programmaticamente circoscritta. Nella saggistica di Mazzoni si trovano le regole per leggere il libro. Non bisogna però cercarvi le linee di una poetica organica. Il modulo operativo adottato prevede semmai di puntare sull’ambiguità, dall’effetto disturbante e ricercato (un po’ weird, un po’ unheimlich, diremmo, per parlare il linguaggio interno a quella forma di vita), derivante dalla sovrapposizione del piano teorico a quello che si può definire senz’altro diegetico (o narrativo) e vedremo perché. Dai saggi di Mazzoni recuperiamo dunque due chiavi di lettura fondamentali. La prima (vedi I destini generali, 2015) corrisponde alla descrizione del collasso dei legami non solo sociali ma intra-psichici (del soggetto con se stesso) conseguente alla crisi, anche politica, dei «mutamenti psichici e sociali che Internet ha generato». La seconda è estrapolabile dal saggio Teoria del romanzo (2012). Il principio di mimesis, pilastro portante del genere, è ripensato nei termini dello scioglimento del racconto su livelli distinti di realtà. Il referente concreto, sociologico, risiede nella mimesis di una forma di vita data storicamente e regionalmente in un sistema di «pratiche, rapporti sociali, istituzioni, giochi linguistici, discipline». Su un piano ‘conoscitivo’, nel discorso narrativo – che compete modernamente in esattezza, col discorso scientifico – «gli esseri umani prendono coscienza di sé in quanto esseri particolari, gettati nel tempo, collocati in un mondo e posti in mezzo agli altri». Il romanzo parla di «esseri particolari [...] esseri inquieti, perché esposti al divenire e al desiderio; esseri che incrociano le proprie vite con le vite degli altri». Succedendo al narratore tradizionale onnisciente, il narratore post-moderno, saturo dei destini delle storie raccontate e da raccontare, finisce per sapere poco di più dei personaggi. È appena il caso di ricordare come per F. Jameson il paradigma post-modernista si definisca in termini di superficie (vs. il paradigma della profondità). È dunque in sintonia generazionale e citazionista con questo paradigma che l’autore del libro di poesia può dire della vita, tanto di sé che dei suoi personaggi, «che esiste e scivola, ogni giorno, sulla pura superficie». Separato dagli altri per alterità ontologica costitutiva non gli resta che aderire alla formula corrispondente al titolo di un noto romanzo di Emmanuel Carrère: Vite che non sono la mia. La pura superficie traduce in atto tali postulati. Le carte sono mescolate in modo che i testi in versi e in prosa che si alternano nella composizione del libro moltiplicano i punti di vista (deboli, anche razzisti e qualunquisti, a volte volenterosi ma spaesati etc.) e le esistenze: una prima persona maschile o femminile può essere e non essere l’autore, una terza persona non è ma potrebbe essere l’autore. Le vite minuscole e frammentate dei personaggi (secondo un procedimento straniante già sperimentato da Alessandro Broggi nelle ‘interviste’ di nuovo paesaggio italiano, 2009), proprio perché si tratta di un libro di poesia e quindi di un genere da cui, per quanto possa volersi oggettivizzante, è insopprimibile la ‘funzione dell’autore’, si lasciano inevitabilmente assorbire da procedimenti di autodiegesi illusionistica. L’io «cerca riparo in una prima persona plurale» ma l’incontro non è mai luogo della conoscenza: «Quando provo a raccontarla agli altri, mi sembra chiaro che nessuna vita può essere compresa», «penso agli sconosciuti che dormono sopra il soffitto, ai loro corpi pieni di sangue e di monologhi»; una notte di sesso è senza desiderio (come già nel modello modernista del Fire Sermon della Waste Land): «Questa persona non significa nulla per te. La penetri per inerzia, per la logica della serata». La formula Essere con gli altri che ricorre, come titolo e nei testi, allude al Mitsein heideggeriano, ma svuotandolo di ogni contenuto empatico e sottolineando come la relazione essenziale tra alterità e intersoggettività sia bloccata nella forma del proprio Dasein. Lo stesso personaggio/poeta, nel testo chiamato heideggerianamente eigentlich (‘in realtà, di fatto’), si espone, scendendo da un treno con le cuffie da cui sente i New Order, a nudo nel proprio Dasein: «Sono quello che vedete». Del resto, il confine del soggetto è definito proprio dall’Essere con gli altri: «L’opacità degli altri mentre vi vengono incontro / per porre limiti, per definirvi, letteralmente». È un assioma a cui non sfugge soprattutto il testo stesso come estensione simbolica dell’autore: «Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti. Ho scritto un testo che rimane in superficie». Si noterà come risuona in questa proposizione (e altrove nel libro: Mamma come tante), un mantra narrativo noto, riconoscibile nel recente «Mi chiamo Walter Siti, come tutti». Le tecniche dell’autofiction così evocate, pensate come risposta neo-modernista a un postmodernismo ormai assimilato, prevedono che il détournement di sé sia comunque governato dalla regia forte dell’autore. In poesia, l’autofiction serve invece a promuovere la marginalizzazione dell’autore che si rappresenta come indebolito proprio nella funzione primaria e identificativa del poeta: quella dello stile. L’indebolimento della rappresentazione è per sua parte ribadito in termini onirici mediante tecniche ossessivamente ripetute di montaggio (categoria novecentesca per eccellenza) e di sovrapposizione o shifting di immagini in riferimento tanto al cinema che alla videoart: «poi si addormenta, sogna un esame, entra in un’aula piena di alberi e di cani», «quando il movimento del corpo lacera il sogno e lo riporta nel letto, da questo lato del vero», in un avanti e indietro tra sogno e realtà («Lo psicanalista gli consiglia di non guardare immagini al risveglio, di svegliarsi lentamente “per recuperare il significato della sua propria presenza”»). Naturalmente il sogno si continua nella veglia spinto dal fatto che la presenza delle immagini generate da internet formano ormai un inconscio collettivo fantasmatico onnipresente. È una foresta di schermi: «Si siede sul divano e guarda la propria epoca venirgli incontro nel plasma», dove i paesaggi globali e glocal si fondono (in un testo fortunato e paradigmatico, I destini generali) nel replay dell’attacco alle Twin Towers e alla «forma di vita che questa nazione ha imposto al mondo» di cui è complice passivo l’intellettuale che «può scrivere le parole che state leggendo grazie alla forma di vita che questa nazione ha imposto al mondo nella seconda metà del XX secolo». L’iniziativa rimasta al soggetto è del resto tutta dal lato del voyeurismo (lo sgozzamento dei Sedici soldati siriani «È un video orribile. È un video molto bello»), dell’uso della pornografia («Dentro il computer c’è la quantità enorme dei porno, come se internet poggiasse su un fondo che tutti conoscono e che nessuno nomina ») e dei videogiochi («gioca col telefono, si stanca / di uccidere gli alieni»). Come in un film di Haneke la situazione può essere senza uscita: la conversazione a tavola sul futuro politico dell’America si svolge in parallelo con una scena sadomaso nella mansarda («Poi apro le palpebre su un altro piano di realtà, cerco l’interruttore»). Nella ripetizione ossessiva della tecnica del merging, tra video e realtà, tra realtà e realtà, un’immagine triviale si può sovrapporre a un’altra immagine triviale, oppure, con tipica spinta modernista, il triviale può spingersi alle soglie della nostalgia del sublime («Guardo le nuvole sopra di me, sono un’idea ... »). L’orrore del video dell’ISIS si continua in una serata tra ‘amici’ descritta in termini etologici, con finale a letto in una scena di erotismo abitudinario e astrazione del narratore che chiude con una battuta da Apocalypse now «È orribile. È orribile ma non importa». Tra sogno e veglia, l’autore si muove tra i personaggi e i testi come prigioniero di una forma di sonnambulismo. Ed è un sonnambulismo che, si noti, può essere anche collettivo, come nelle erranze dei personaggi in Genova (con descrizione degli scontri ‘dal basso’, alla Fabrice del Dongo ...), con inflazione e deflazione finale della coscienza: «per qualche settimana si sentiranno parte di un movimento immenso, un mese dopo si dissolveranno, dieci anni dopo saranno soli e incomprensibili». Ci si può interrogare se non tocchiamo proprio qui, nell’indebolimento della funzione dell’autore/personaggio, un limite del progetto di Mazzoni. Il poeta sonnambulo, perso nella rappresentazione ossessiva e esatta delle forme di vita, delle genealogie e archeologie del quotidiano, convalida il valore documentario del metodo grazie alla rinuncia a una quota importante della propria presenza stilistica e autoriale. L’abbassamento dello stile non insegue però il grande modello para-sociologico della prosa oggettiva, sonnambula e neoclassica della Société du spectacle di Debord. Dopo averlo degradato (abbassato di grado e anche vilipeso), Mazzoni decide infatti di non scalzare via completamente il soggetto per entrare nell’oggettività praticata dalla letteratura di ricerca o dall’avanguardia. La scelta invece è di puntare ancora sulla funzione lirica dritto al cuore della grande tradizione. Buona parte delle sezioni del libro si aprono e/o si chiudono con traduzioni di poesie di Wallace Stevens. Vere traduzioni, con piccoli aggiustamenti (autobiografici: «regard the freedom of seventy years ago», «Guarda la libertà di quarant’anni prima») piuttosto che imitazioni, per effetto di presenza suggeriscono l’esistenza di un inarrivabile sublime. È probabilmente una scommessa del libro quella di esibire, per poi cercare di limitarlo, l’effetto di polarizzazione che si viene a creare tra le altezze della lirica e l’insignificanza delle immagini al tempo di internet. La todayness ricca di sospensione filosofica di Stevens è peraltro spesso distinta da effetti che la critica ha riconosciuto come di vero e proprio sonnambulismo (e vedi, nel libro, An Old Man Asleep: «the drowsy motion of your river R.», che diventa «il moto addormentato del tuo fiume T.», il Tevere). Soprattutto, il ricorso alla funzione Stevens serve come tentativo di aprire una terza via, tra oggettivazione e spazio lirico, quella di una lirica pensante e dotata di un profondo philosophical insight. Dove però in un poeta come Stefano Dal Bianco il ricorso alla funzione Stevens conduce alla rinuncia programmatica allo stile, nel progetto di Mazzoni, un progetto ‘mondo’, che ha l’ambizione di attraversare e descrivere forme di vita definite da giochi di verità («pratiche discorsive che definiscono che cosa è vero e che cosa è falso» Foucault) e giochi linguistici (Wittgenstein), sentiamo la necessità di un investimento maggiore sulla lingua, non foss’altro, in termini mimetici. Tra i momenti migliori del libro si contano comunque alcuni appunti su fatti di linguaggio. Per esempio, la constatazione della sua inadeguatezza storica, quando tra le bastonate di Genova un narratore senza qualità si sforza di mettersi a fuoco tra scaglie di linguaggio vetero-politico («Partecipa alle riunioni, parla il linguaggio dei gruppi», «partono gli slogan del Settantasette»). O quando il linguaggio diventa un meccanismo di auto- difesa («incontra le persone le scherma col linguaggio»), semplificazione («stanno per intero / dentro un aggettivo (‘simpatico’, ‘strano’ / ‘stronzo’, ‘calabrese’)»), rimedio ansiolitico («A volte parlo solo per farmi spazio, / a volte parlo solo perché un’altra persona parla per farsi spazio / e vi ascolto senza capire, / vi ascolto sforzandomi di non capire, ecco»). È un appunto pieno di understatement (dopo aver rischiato un incidente stradale riprende la conversazione in automobile): «L’inglese ha un’espressione che mi piace molto, / small talk. Sono i discorsi di superficie, / le parole di contatto, ciò che Heidegger, / in Essere e tempo, chiama la chiacchiera, das Gerede. In italiano / nella nostra lingua interna, la parola che usiamo più spesso / per indicare tutto questo è “cazzate”». Sono scaglie descrittive ma lavorate, dove vediamo come il dato oggettivo, il sistema decostruttivo dei giochi di verità del linguaggio, contribuisce a costruire il libro. Il trapianto dell’autofiction in poesia è un gioco al raddoppio: il poeta è il doppio dell’io poetico, il sonno è il doppio della veglia, la prosa (che non è prosa poetica) è il doppio della poesia etc. Di colpo, nell’ultimo testo, il raddoppio sembra risolversi a favore del levare l’ultimo velo: un uomo nella sala della chemioterapia in ospedale (un padre?), con un’etica del mondo e del lavoro (il muro non è diritto, osserva), una conversazione triviale (il calcio, la Fiorentina), un finale centrato sull’attimo («Ma oggi non importa, siamo felici di esserci ancora, / di stare insieme qui, i maschi non piangono, le parole non contano»). Potrebbe essere un piccolo pezzo di perfetta ‘linea lombarda’. Alla fine di un lungo e a tratti brillante esercizio di decostruzione dei giochi di verità condotto con l’aiuto del libro di poesia e spinto al limite del rischio di decostruire anche i presupposti su cui poggia l’istituzione stessa del libro di poesia, questo testo ha il valore di una firma e di una riappropriazione. Un salvataggio in extremis, insomma, che non basta a dissipare (e in parte non lo vuole) l’impressione di ambiguità inerente a un punto di vista che si attesta soltanto al margine di un uso forte della poesia come critica di un preciso complesso di forme di vita da cui non si smarca però mai del tutto e di cui ha finito, in una sorta di fermo immagine, per bloccare il fantasma sulla pura superficie del testo. (Fabio Zinelli) ¬ top of page |
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