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LAURA PUGNO, bianco, Roma, nottetempo, 2016, pp. 88, € 7,00.

Moltissime poesie di Laura Pugno possono essere collegate, disposte in serie e costellazioni dall’atto di lettura. A incoraggiare queste legature provvisorie stanno fatti di due ordini. Da una parte la persistenza, se non proprio fissità, di immagini, situazioni e processi (per non parlare dei singoli ‘oggetti’), di un immaginario e delle dinamiche che lo movimentano, lungo un percorso di scrittura ormai quasi trentennale (le poesie più vecchie di Tennis, libro d’esordio in coabitazione con Giulio Mozzi e uscito nel 2002, risalgono al 1991). La mente come luogo-non luogo inviolabile, giardino chiuso o scatola nera; il gelo dell’inverno come temperatura concettuale; il bianco accecante e impregiudicato come non-colore che riveste ogni cosa; la caccia e i rituali ad essa legati come immagine-guida; il processo anzi la mutazione antropogenetica, lo sviluppo del linguaggio e della coscienza superiore, e la destabilizzante permeabilità tra umano e non umano (animale e macchina), e tra linguistico e non linguistico, come macrocornice di riferimento; infine, la tematizzazione discreta ma non per questo meno continua e fondamentale della scrittura stessa, prima di tutto come atto basico di mettere nero su bianco e di fare segno, e poi proprio come scrittura poetica (il quaderno che aperiodicamente si presenta sulla pagina). Tutto questo si può ritrovare in varie dosi e composizioni quasi in ogni testo. D’altra parte sta una tendenziale invariante (il modificatore serve a scongiurare una rigidezza eccessiva) formale, ossia la vaghezza, il lavoro di alleggerimento, che può arrivare fino alla cancellazione, dei nessi logici e sintattici tra le tessere, e poi tra gli individui, testuali. Le poesie di Pugno sono quasi sempre costruite per scogli verbali, diciamo così, brevi stringhe di sintagmi – affioranti da un elemento latteo – la cui connessione però risulta difficile o irrintracciabile (forse il vertice di questa tendenza è stato toccato con La mente paesaggio e con le prime sezioni di bianco, dove si ha l’impressione di leggere una poesia senza scheletro, membra senza giunture). Evidenza di oggetti e figure, ottenuta anche tramite massiccia ripetizione e variazione, e eclissi parziale o totale dell’articolazione o alla lettera del senso di quelle figure. Questo stato di cose, se non mi sbaglio, può fornire una prima e povera spiegazione del perché regolarmente la critica abbia fatto ricorso, nel descrivere/interpretare i versi di Pugno, alle coppie di termini opposti, a partire proprio da quelle che designano l’aspetto, la facies, il modo di presentarsi al lettore della poesia in oggetto: chiara e oscura, trasparente e enigmatica; per passare poi alla tipologia di contatto e coinvolgimento (o disinvolgimento) che essa propone: ermetica o comunicativa, mitica o critica. E così via. È certo che una delle ragioni per cui questa poesia, la si accetti o la si rifiuti, si imprime nei circuiti cerebrali di chi legge sta nel suo disarmare, neutralizzare i tentativi di dissezione analitica (sembra che niente ‘attacchi’, come si dice comunemente), restituendo a chi la percorre l’esperienza di uno stupore basilare. Una parte del quale, per tornare al punto da cui sono partito, si sprigiona dalla percezione della virtualità di un reticolo di nessi aleatori tra testi anche molto lontani, nessi che i testi non propongono, non decidono, ma di cui si limitano per l’appunto a mostrare la possibilità. Un’altra parte, invece, deriva dall’impressione che la voce uniforme, ipnotica, impassibile che si alza dalla pagina a dire violenza, alterazione e metamorfosi non sia attribuibile a un soggetto; che sia qualcosa e non qualcuno a parlare. Una delle vicende cruciali di cui questa poesia si fa latrice è quella in cui la mente fa il suo ingresso nella lingua e acquista la possibilità di dirsi, ma nello stesso tempo, con questo farsi parola tra parole, si divide da sé, in una specie di ur-schizofrenia, con una parte muta e indicibile che, implacata, ossessiona quella dicibile e parlante, la quale a sua volta cerca di circoscrivere e identificare quella parte, o quella forza, che è ancora sé ma continua a sfuggirle. Se questo è vero, allora diventa più chiaro uno dei motivi per cui la caccia ha un ruolo tanto fondante nelle poesie di Pugno, e ancor di più perché i ruoli di preda e cacciatore risultino così pericolosamente intercambiabili. Il cacciatore viene braccato, e la bella è la bestia.
A partire da La mente paesaggio però qualcosa è intervenuto a modificare la conformazione appena tratteggiata, qualcosa che passa come un filo attraverso quella raccolta, si dipana in bianco, e fiorisce nelle nuove magnifiche poesie dell’Alea (gli inediti che chiudono I diecimila giorni, e-book antologico uscito da Feltrinelli nel 2017). Un nuovo punto di reale che riposiziona, senza cancellare niente, l’intero sito di quest’opera in versi; e un progetto autoriale di continuità (magari in parte, come spesso accade, pensato strada facendo e ristrutturato ex post) che, non direttamente enunciato nella postura dei testi, estranei a ogni forma di autoriflessività commentante, emerge però come tale a uno sguardo concentrato sugli indizi. Al prezzo però, sia chiaro fin da ora, di forzare decisamente e in modo indiscreto testi tanto ellittici e sospesi verso ciò che non vogliono apparire, ossia un racconto. Scopro le carte ora, con uno schema necessariamente sommario: La mente paesaggio ha per protagoniste due donne, probabilmente madre e figlia, e il suo nuovo punto di reale è la morte per malattia della prima, e l’inizio del lavoro del lutto della seconda; bianco è continuazione e completamento di quel lavoro; e L’alea segna una rinascita, una primavera, un nuovo patto dei vivi con la memoria dei morti e una nuova alleanza col mondo: valga come esempio meraviglioso la poesia (il buongoverno), in una serie che bisognerà leggere a lungo per valutarne adeguatamente bellezza e importanza. Definire semplicemente autobiografico questo nuovo orientamento – anche se La mente paesaggio è dedicato alla madre dell’autrice – sarebbe certo grossolano. Tuttavia ho pochi dubbi: il movimento profondo che ha portato la poesia di Laura Pugno a un differente stato di equilibrio corrisponde a una riatti vazione della faglia biografica, a un sisma esistenziale; e il riconoscimento, nelle maglie di tale poesia, di un vissuto di base è diventato una strada pervia, senza volerla pensare come unica.
Le cinque sezioni di bianco si possono leggere come il diario e l’attraversamento di un inverno; il bianco è quello della neve che ha messo «tutto […] sotto una coperta di lana», «tutto sembra diventato neve sulla terra». All’inizio della raccolta, che coincide, ne fa fede il titolo della prima sezione, con l’inizio dell’inverno, qualcuno, un qualcuno di genere femminile che la voce poetante chiama «tu», forse anche «neve» («neve, / tu sei venuta qui, / sei venuta come la neve»: è l’attacco della prima poesia), e che forse è il processo di disgregazione e caduta lenta che sta toccando a un soggetto impossibilitato a nominarsi («ora, non dici il nome / nevichi lentamente, / la voce esce soffocata»: così esordisce la seconda poesia; non esistono nomi propri in bianco) è arrivato da qualche parte. In seguito questo posto sarà descritto, per ripetuti tratteggi puntuali e senza mai una determinazione complessiva, come un piccolo insediamento sperduto in territorio freddo e inospite, abitato da una comunità di cacciatori e raccoglitori dediti alla loro esistenza elementare. Ma nelle prime due studiatissime e fondamentali poesie, dalle quali sto citando, non troviamo altro che l’insistita presenza di «qui», «ora», «questa» come marcatori di luogo tempo e situazione, marcatori che ovviamente segnalano anche l’innesto in un discorso di un’energia enunciante. Intenzione referenziale e effetto di diretta viaggiano inseparabili; quando leggiamo nella prima poesia che «questa è la voce, i rami di ciliegio nudi, / la tua voce ora», e che «la lingua rimasta è poca, / devi con questa, di nuovo ora» (explicit aggettante sul vuoto del secondo testo), ci rendiamo conto che l’itinerario che «tu» affronterà tracciando il cammino dove non c’è cammino (è il motivo per cui è venuta «qui») ci è comunicato insieme al processo di fattura e trasmissione delle poesie che ci scorrono sotto gli occhi. Non per niente, a cammino e raccolta quasi coronati verremo a sapere che «tu» porta e ha sempre portato con sé l’indispensabile «quaderno»; e, possiamo arguire, voce poetante e «tu» sono sdoppiamento – psichico, estetico, terapeutico – di una stessa entità, col tu a compiere il viaggio che gli permetterà di sintetizzare la voce poetante che lo dice mentre compie il viaggio e ve lo avvia: nastro di Möbius o barone di Münchausen che si solleva dalla palude tirandosi per i capelli. La palude, continuo ad esserne convinto, è proprio quel lutto registrato, ma ancora non bastantemente lavorato, nella Mente paesaggio. Si tratterà di arrivare, con il libro e dentro il suo corso, dalla coltre bianca e dalla voce soffocata, dalla «poca lingua» dell’inizio, a un altro bianco (di bianco in bianco è il titolo della seconda sezione), un bianco propizio alla vita («non fa più freddo, dici, / adesso è bianco ma dà calore», si legge in una bellissima poesia della terza sezione, intitolata appunto dare calore); a una voce nuova («la voce nuova / è così, / allora è questo // nubi sfilacciate su terra e pianure / l’aprirsi // bagliore, bagliore bianco») che manifesti una mente nuova («nuovamente / bagliore, bagliore / quanto hai salvato?»). Una volta operata questa mutazione, l’ennesima metamorfosi e mutatio animi corporisque della poesia di Pugno, «tu» potrà intraprendere il viaggio di ritorno: «cerchi nelle tasche / il necessario per il viaggio // la salvezza i biscotti il quaderno / chiunque abbia occhi / ti vedrà tornare». Forse è proprio quel «tu» che, tornata, avrà potuto scrivere questi versi di (il buongoverno) I: «tempo bello e nuovo, bello / buontempo, / la curvatura prende tutte le nubi / tutto quanto perduto, sul fondo / dello stagno, ora / scintillando / sarà ogni volta».

(Federico Francucci)

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