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KHWĀJU DI KERMAN, Homāy e Homāyun. Un romanzo d’amore e avventura dalla Persia medievale, a cura di Nahid Norozi e con prefazione di Johann Christoph Bürgel, Mimesis (collana “Simurgh”), Milano 2016, pp. 400, Euro 26,00.

in: Semicerchio LVI (2017/1) (Neo)Barocco. Poesia del Seicento nella teoria contemporanea, pp. 154 - 155 

Khwāju di Kerman è certamente un nome sconosciuto ai più e probabilmente solo a un appassionato di viaggi o di geografia la parola ‘Kerman’ dice che si tratta di un personaggio che proviene dalla lontana Persia. Siamo nel XIV secolo alla corte di Shiraz, a sud-ovest di Kerman, nella culla dell’iranismo e della lingua persiana, all’epoca in cui principi e mecenati generosamente mantengono a corte poeti e artisti, medici e astronomi. Qui a Shiraz, proprio nel tempo in cui vi soggiornò Khwāju, erano attivi altri autori come il poeta e scrittore satirico ‘Obeyd Zākāni (di cui si può leggere in italiano la spassosissima Dissertazione letifica, curata nel 2005 per la «Biblioteca Medievale» delle Ed. Carocci dal mio compianto maestro Giovanni M. D’Erme) o il grandissimo Hāfez, l’autore di un celebre Canzoniere (Il libro del Coppiere leggibile in italiano nella traduzione completa in tre volumi curata tra il 2004 e il 2011 dallo scrivente per la medesima collana) che in una versione tedesca di inizi incanterà il vecchio Goethe e lo indurrà a compiere la sua ultima fatica: il West-Oestlicher Diwan.
Siamo in un’epoca difficile e travagliata per la Persia, la corte di Shiraz è teatro di lotte intestine che puntualmente si scatenano quasi a ogni passaggio di potere: il principe Shojā‘, per dare un’idea del momento, per affrettare la propria salita al trono, con un colpo di stato depone il padre e lo fa accecare; e all’orizzonte incombe la minaccia del Tamerlano che si abbatterà con le sue armate sulla Persia verso la fine del secolo. Khwāju non resterà molto tempo a Shiraz, preferirà viaggiare e sarà a Baghdad – la ex capitale del califfato abbaside, conquistata brutalmente dai Mongoli di Hulagu un secolo prima nel 1258 e ridotta a capoluogo di una provincia dell’impero – che comporrà il suo capolavoro, il poema romanzesco Homāy e Homāyun in ca. 4400 distici che qui presentiamo nella sua prima versione in una lingua europea, dovuta al paziente lavoro della studiosa italo-iraniana Nahid Norozi, attiva presso l’Università di Bologna.
Riassumiamo la storia. Un principe persiano, Homāy, durante una battuta di caccia inseguendo un onagro - che si rivela poi essere una fata -finisce in un giardino incantato dove, appeso a una loggia, vede il ritratto incantevole di una principessa cinese, la bella Homāyun, e se ne innamora all’istante. Parte subito alla volta della Cina e strada facendo ha modo di essere incoronato principe di una sorta di ‘regno di mezzo’ i cui abitanti, per tradizione, alla morte del loro sovrano uscivano dalla capitale e incoronavano nuovo re il primo viaggiatore che arrivasse alle sue porte.In seguito, egli libera dalla prigionia in un castello guardato da draghi e incantesimi un’altra principessa, che si rivelerà essere la cugina della bella Homāyun, e la prende sotto la sua protezione. Dopo varie peripezie e qualche avventura amorosa collaterale, il nostro principe Homāy arriva in Cina e senza indugio si fa presentare alla corte dell’imperatore dove incontra la principessa Homāyun. Seguono banchetti e battute di caccia, durante una delle quali il principe Homāy con una scusa si allontana dal seguito dell’imperatore per raggiungere la bella Homāyun in un suo palazzo privato. Per accedere al quale egli non esita a uccidere brutalmente una guardia, gode quindi delle grazie della principessa e, sulla via del ritorno uccide altrettanto brutalmente un giardiniere che, intuito l’accaduto, lo vorrebbe arrestare. L’imperatore furioso per il ‘disonore’ della figlia, dopo altre varie vicende su cui dobbiamo sorvolare, decide di ricorrere a un espediente estremo: fa segregare la figlia disubbidiente nelle segrete del palazzo e contemporaneamente fa annunciare la sua improvvisa morte, sperando di scoraggiare definitivamente il focoso principe Homāy. Il quale però non si rassegna, scopre la messinscena, e dopo una battaglia finale in cui l’imperatore viene sconfitto e trova la morte, può finalmente impalmare la bella principessa cinese salendo al contempo sul trono della Cina.
Se questa è la mera trama del poema, la cui vicenda si snoda tra un ‘occidente’ che coincide con il mondo iranico e un oriente dominato dalla Cina, infiniti sono i motivi di interesse su cui si diffonde dottamente la curatrice e che qui non potremmo neppure sommariamente elencare. I cultori di mitologia e letteratura comparata vi avranno già scorto per fare un esempio, il motivo dell’animale-guida, sul quale ha ampiamente investigato in un ponderoso saggio Carlo Donà (Per le vie dell’altro mondo: l’animale guida e il mito del viaggio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003), forse il più grande esperto dell’argomento; anche il motivo «falling in love through sight of a picture» (v. Thompson Index), ovvero l’innamorarsi attraverso la contemplazione di un ritratto, vi compare, riprendendo peraltro quanto già si vedeva nelle Sette Principesse (Haft peykar) di Nezāmi di Ganjé, un celebre predecessore di Khwāju, leggibile nella bella versione italiana di Alessandro Bausani (Rizzoli-BUR, Milano 1982), nel quale per altro si trova anche il precedente motivo dell’animale-guida. L’elemento magico (fate, draghi, castelli incantati ecc.) offre ulteriore ampio materiale di indagine allo studioso di folklore o di letterature comparate.
Ma la Curatrice, e questo è senza dubbio un merito che Le va ascritto, riesce nella sua ampia introduzione a evidenziare, accanto al lato fantastico e romanzesco-avventuroso, una dimensione più nascosta, una trama sottilmente allegorica che inopinatamente rinvia a una lettura dell’opera in chiave di misticismo sufi. Ecco allora che la quȇte del principe Homāy, il suo viaggio a oriente della Persia, appare leggibile anche come una ricerca del proprio Sé spirituale intravisto misteriosamente nell’immagine appesa nel giardino incantato – sotto la quale una scritta sibillina invitava il principe a cercare oltre la bella forma del volto contemplato. Siamo qui di fronte a un topos della poesia persiana di intonazione mistica, presente in Hāfez e teorizzato in quel grande trattato sull’eros mistico del mondo islamico che è il Savāneh al-‘Oshshāq di Ahmad Ghazāli (tr. it. Delle occasioni amorose, Carocci, Roma 2007): il volto dell’amata, agli occhi di chi sa guardare, è identico all’anima dell’amante, coincide con il suo Sé luminoso o spirituale. Del resto i nomi dei due protagonisti rivelano una identità profonda a partire proprio dal loro etimo comune, ma non solo. Con una scelta apparentemente inspiegabile, Khwāju dona al protagonista maschile un nome femminile (Homāy) e alla protagonista femminile un nome maschile (Homāyun), qualcosa che lascia all’inizio alquanto sconcertati. Questa inversione, ci fa osservare la Curatrice, si potrebbe spiegare in modo convincente solo a partire da una lettura che vede nel principe Homāy una controfigura dell’anima, entità femminile per definizione, che va alla ricerca di Dio qui tipificato dalla straordinaria bellezza del volto della principessa Homāyun, la quale porta dunque non a caso un nome tipicamente maschile. ‘Dio è bello e ama la bellezza’ dice un notissimo hadith, o detto del Profeta conosciuto da tutti i sufi e certamente anche da Khwāju che fu affiliato a una confraternita mistica. Quale incredibile invenzione davvero, questo rovesciamento dei generi del nome che si rivela per noi un segnale prezioso nell’orientare la lettura del poema. Nella cornice di questa lettura in chiave mistica trovano logica spiegazione anche le numerose ‘cadute’ e deviazioni del protagonista del romanzo, opera che comunque risulta godibilissima anche a prescindere dalla sua cripto-dimensione spirituale.
Il romanzo di Khwāju ci sorprende anche per un altro inopinato aspetto, le numerose scene erotiche, descritte sin nel dettaglio con una panoplia impressionante di elegantissime immagini tolte vuoi dalla mineralogia, vuoi dalla botanica, vuoi dall’astrologia, vuoi dall’arte del cavaliere, vuoi persino da quella del panettiere. I poeti persiani precedenti non si erano sottratti a questo genere di descrizioni ‘spinte’ proponendo perlopiù immagini scontate come quella della chiave che entra nella serratura, della freccia che colpisce il bersaglio, o del pesce che guizza nello stagno. Ma Khwāju ha in proposito una inventiva prorompente e inesauribile, che rimarrà insuperata. Eccone un breve esempio basato su immagini botaniche e gastronomiche:  

E ora [Homāy] la mela sua argentea mordeva ora il rubino suo dolce assaggiava / E ora come i capelli cadeva sul suo volto ora il petto sul suo petto appoggiava / E ora il narciso sul gelsomino strofinava ora coglieva il tulipano e la rosa recideva / E ora dal suo labbro chicchi di melagrana assaggiava ora invece il fuoco dal suo braciere faceva avvampare / E ora il pistacchio sul suo zucchero sfregava ora invece lo zucchero dal suo pistacchio rubava / E ora alla rosa canina apriva il petalo ora il tulipano metteva là sul vassoio (Khwāju 2016, vv. 3957-59, 3961-62, 3964)

  Oppure si veda quest’altro brano in cui il primo amplesso e la deflorazione della bella Homāyun sono descritti con una serie di raffinate immagini tratte vuoi dalla mitologia vuoi dai tornei cavallereschi:  

Quando il re [Homāy] il celere cavallo fece balzare nel campo / Dal campo con la punta della lancia fece scorrere sangue / Essendo sotto il suo ordine persino i venti / Il sigillo del re Salomone cadde nelle sue mani / Il suo corsiero galoppante quando alzava la testa / Con un passo solo un miglio di distanza percorreva / Era tanto veloce il fulvo cavallo del re / Che per lui erano uguali deserto e pozzo / Quando quel selvaggio cavallo inalberò il capo / La lingua della sua gioia si calmò nel godimento / Si aprì la giostra dei lancieri come nei tornei / Ad ogni assalto re Homāy infilava un anello! (Khwāju 2016, vv. 3992-97)

 Queste scene erotiche sono ambientate in un giardino ‘paradisiaco’ ricco di colori, suoni e profumi, che evoca gli analoghi giardini dei beati del paradiso coranico, né può stupire che l’amplesso degli amanti venga in questo contesto a sembrare la metafora più pertinente dell’arcana unione del mistico con il suo Dio. È merito particolare di questa cultura irano-islamica, che nella lirica e nel romanzo ampiamente riflette il lascito neoplatonico, avere guardato all’eros non solo in chiave matrimoniale, naturalistica o persino pornografica – come ci mostrano i trattati scientifici e giuridici arabi o la poesia oscena persiana – bensì anche come a un potente strumento di rivelazione del Soprannaturale. Cosa ben illustrata peraltro non solo dai celebri ghazal di Hāfez, ma anche da quelli di un Rumi (tr. it. Poesie mistiche, a cura di Alessandro Bausani, Rizzoli-BUR 1980) che, nell’amata figura di Shams-e Tabriz, scorgeva – direbbe Henry Corbin – un’epifania del Divino ‘conforme al proprio essere’.
A Nahid Norozi, la curatrice di questo volume - corredato di una splendida immagine di copertina che illustra un duello tra i due amanti - va anche il merito di aver fornito di questo poema una presentazione impeccabile in eleganti versi italiani, che riproducono con grande fedeltà il dettato originale; e di averlo esemplarmente corredato di oltre 1500 note esplicative e di una introduzione ampia e dettagliata che soddisfano tanto le curiosità dello studioso, del filologo o del comparatista, quanto quelle della persona colta e interessata a esplorare questo angolo della cultura persiana del medioevo. Il volume è poi arricchito da un indice di nomi e luoghi notevoli e soprattutto dalla preziosa introduzione di Johann Christoph Bürgel, decano dell’iranistica e dell’islamologia europea, che costituisce in realtà un vero è proprio piccolo saggio sull’opera di Khwāju. Né il Bürgel se ne interessa qui per la prima volta; era stato il primo studioso europeo nel 1990, a un congresso romano della Societas Iranologica Europaea, a leggere e a fornire un sunto commentato del poema che il lettore italiano ha la fortuna ora di poter leggere in una raccolta di suoi saggi (J. C. Bürgel, «Il discorso è nave, il significato un mare». Saggi sull’amore e il viaggio nella poesia persiana medievale, Carocci, Roma 2006). Oggi si pubblicano molte traduzioni in italiano di classici orientali, spesso tuttavia male o sommariamente presentati; questo volume evidentemente costituisce una lodevole eccezione, e va dato atto all’iranista Antonio Panaino direttore della collana «Simurgh» di Mimesis Edizioni, di avere aggiunto un’altra preziosa perla, curata esemplarmente da Nahid Norozi, al proprio già ricco e bellissimo catalogo.

(Carlo Saccone)

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