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A volte velo e a volte specchio. Liriche (secc. IX-XIX), a cura di Carla de Bellis e Iman Mansub Basiri, ed. San Marco dei Giustiniani, Genova, 2014, pp. 200.

in: Semicerchio LVI (2017/1) (Neo)Barocco. Poesia del Seicento nella teoria contemporanea, pp. 156 - 157

Chi scrive non può né intende dissimulare un affettuoso sorriso di sotterranea complicità quando legge che certe composizioni poetiche persiane, in sempre meno rara occasione offerte da qualche benemerita iniziativa editoriale a un lettore italiano da trainare, fuori dell’accattivante nicchia, verso il doveroso quotidiano allenarsi di una riflessione umanistica meno autoreferenziale che non si usi, sono tra le più “leggiadre” di quella malnota produzione e tradizione, di cui è ancora agevole presentarsi come araldi. Io direi che, piuttosto che araldi, noi ne siamo ambigue staffette, come la Candelora lo è della Pasqua: e dico noi anche perché ho condiviso il piacere e l’onore di qualche coinvolgimento – il mio, forse, più peregrino – nell’integralmente leggiadra collana in questione. Trattasi infatti di una tradizione/produzione della quale non si esaurisce, neppure in patria, la mera anagrafe delle voci poetanti nei secoli tra costiera adriatica e arcipelago malese, vale a dire per ogni dove nell’Islam non arabo, privilegiato geniale cadetto e dell’Islam e, per tramite principale di quello, della classicità. Tanto da costringere ad azzardare il provvisorio arrotondamento a diecimila nomi, mille più mille meno. E di tale complesso si fornisce, ogni volta che ne compare un balenio, un rapido, succinto resoconto formale minimalista, inadatto a depositarsi in maniera stabile nella mente dell’auspicato novello fruitore e a superare un antico generico approccio nostrano oscillante tra fascinazione esotistica e accorata sufficiente costatazione di un cosmico pandidattismo, oltretutto eufuisticamente zuccheroso, in cui di accenti “che davvero vengano dal cuore” se ne scopre, caso mai, uno su cento (comunque non poi tanto pochi, ove si trattasse, su diecimila, di almeno cento). Il cuore in questione è, per forza di cose, quello che più corrisponde immaginificamente a un cuore forgiato in fattezze di autentica genuinità dalla maniera accademica patria di esercitare l’innato buon gusto. Ove quel che si salva si annida nelle pieghe più scontate dell’anacreontismo di comune ascendenza. Come dire che, per verità, tutto dipende appunto dall’appercezione: e qui, peraltro, va osservato che i tempi sono oggi più generosi di quelli sia di Italo Pizzi, pioneristico raccoglitore di una prima antologia persiana, nutrita e noiosetta, sia di Francesco Gabrieli, esperto di tal materia per sofferta disciplina professionale, interamente proiettata sull’unico poeta persiano che tutti conoscono ma che poeta non è mai stato, quel Khayyam che rappresenta convenzionalmente l’aspetto melodico per eccellenza della saggezza orientale. Non che si parli ormai persiano con gli italiani proprio con il linguaggio ai nostri giorni comune a tutti, ma almeno secondo modi e mode su ambedue i versanti percepibili con un’indulgente coda dell’orecchio. Che volete? La retorica cultura patria succhiata con latte materno, col cappuccino sorbito nella frettolosa colazione del liceale che scandisce certi versi mandati a memoria, con la merenda stessa, nutriente la ricreazione al liceo, è parsa a tutti, sulle prime, coincidere con la cultura stessa, con la nudità disadorna e sincera dell’anima; ma piano piano siamo riusciti a renderci conto che l’anima altrui, pur altrimenti educata, non è necessariamente ridondante di puri eufuismi (i famigerati e deprecati fuochi che sudano a preparar metalli sono niente di fronte all’inimmaginabile uso della metafora in Persia). In fondo, per avvicinarsi alla cultura basta sospettare, almeno sospettare, la presenza nel vasto mondo di molte possibili iridi. Tanto più quando ci rendiamo conto che quella tradizione poggia su un giogo gemello di Elicona, pur sorvolata da venti che vanno poi per le loro vie.
Tutto ciò non toglie comunque che siamo ancora, noi qui, impegnati su quel terreno con meri saggi di scavo, quasi casuali, come diceva un maestro quale Alessandro Bausani, confidando un po’ sornione sul fatto che il termine sarebbe stato inteso quale pura manifestazione di modestia, e invece aveva una sua precisa tecnicità.
Quanto alla fascinazione esotistica, tuttora in voga anche tra esperti restii ad accogliere il portato di un aggiornamento bibliografico in progressione geometrica, si tratta di un vischioso equivalente estetico, in certo senso compensativo, dell’antico motivo teosofico secondo cui la Linguadoca dei catari e del Santo Graal dovrebbe il suo esoterismo a ondate di dualismo iranico di sapore manicaico. Ferma restando la mancata conclusione della diatriba tra islamisti e filologi romanzi sulla priorità in materia prosodico-metrica. Quanto all’agnizione del cuore più genuino, si tratta di pura buona volontà, ma la chiamata in campo, a possibile paragone, di Melisenda contessa di Tripoli, non è la via giusta.
Comunque va bene: più saggi di scavo ci sono meglio è. Solo un’osservazione sull’abituale, oggigiorno, collaborazione di due autori negli scavi in oggetto: l’esperto del fatto poetico nel momento d’arrivo, e il rappresentante, occasionale, di un messaggio di partenza quasi appartenente a un DNA, tale da far pensare al portatore sano del virus del furore poetico. Non è certamente il risultato finale che auspichiamo per quando avremo finalmente maturato una reale conoscenza professionale, tutti quanti, del terreno comunque smosso; ma, per ora che non solo il divulgatore ben intenzionato ma l’esperto di letteratura persiana non è neppure lontanamente paragonabile al frequentatore di Elicona quanto meno per la mancata disponibilità di strumenti filologici primari, e che gli è occorso, della lingua che coltiva, di tradurre più testi di quanti non abbia letto per suo personale benessere quotidiano, l’operazione è comprensibile. Anch’io, che mi picco dimidiatus persa (mezzo scolaro qualunque, non mezzo erudito persiano), lavoro sempre in compagnia, ma con qualche mio studente che, memore di quanto dettogli e ridettogli, ha soprattutto la funzione di esercitare il rigore trasmessogli per trattenermi da quelli che oso chiamare ipercorrettismi piuttosto che fughe lungo una tangente. Senza naturalmente che io riesca a capire – colgo la velata critica – come la riformulazione meno leggiadra di un originale leggiadro – leggi letterale – possa mai essere più vicina al medesimo.
Nella pubblicazione in oggetto apprezzo molto, in fine, più ancora che presenze inusitate, l’assenza di grandi nomi: non dico il non lirico Firdusi, e neppure Khayyam, ma la riconduzione dello stesso Hafiz a dimensioni di equilibrio distributivo.

(Gianroberto Scarcia)

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