« indietro TESTO A FRONTE. Teoria e pratica della traduzione letteraria, dir. F. Buffoni, P. Proietti, G. Puglisi. N. 56 (2007/1), Milano, Università IULM, pp. 191 € 25,00. Fra gli articoli di spicco in questo volume un saggio dallo stile piuttosto giornalistico e colloquiale di Jürgen Trabant (Plurilinguismo nell’Europa unita. Really?), che però coglie acutamente tutti i nodi di un problema di fondo dello spazio europeo: il plurilinguismo vs monolinguismo anglofono della documentazione ufficiale della Commissione Europea e in generale della comunicazione culturale nel continente. Di impostazione più filologica, ma con accattivanti risvolti teorici, la documentata analisi che Rosella Mallardi propone sulle traduzioni inglesi ottocentesche dei Promessi Sposi (Sul controllo della distanza in traduzione. I promessi sposi in inglese: le due versioni “gemelle” del 1834 e il trasferimento di Padre Cristoforo) ma interessanti anche il contributo di Piero Sorrentino sul rapporto di Italo Calvino con la teoria e la pratica della traduzione (Solo al 45%. Calvino e le fatiche della traduzione) e quello autorevole di Peeter Torop Sulla traducibilità di uno scienziato: il caso di Lotman, a sua volta tradotto in italiano da Bruno Osimo. Monumentale la versione italiana del Fauno di Mallarmé ad opera di Lorenzo Carlucci, mentre fra le prove poetiche si segnala un esemplare Tractors di Heaney versato da Marco Sonzogni e un nuovo Wordsworth Lines composed upon Westminster Bridge, Sept 3, 1802) nell’abituale verso largo che Franco Buffoni usa nelle sue rese della poesia romantica. [Francesco Stella]
Allegoria. Per uno studio materialistico della letteratura. Rivista semestrale, a. XXIX, terza serie, n. 76, lugliodicembre 2017, G.B. Palumbo Editore, pp. 208 € 19,00. Apre il volume uno studio innovativo di Paolo Desigus su Pasolini, L’abiura e il “nuovo fascismo”. Rivoluzione passiva di Gramsci e stile indiretto attraverso Il fiore e Salò, che sviluppa un tipo di analisi comparativa fra influssi letterari e adattamenti cinematografici, mentre fra gli altri saggi incrociano gli interessi di Semicerchio (poesia e comparatistica) Tommaso Meozzi, Il tema dello sguardo nella distopia: Huxley, Orwell, Nothomb e Damiano Frasca Tra antefatti e frammenti. Sul primo Raboni. Chiude la consueta sezione sulla linguistica e la didattica dell’italiano contemporaneo, seguita dalla breve ma utilissima rassegna di recensioni. [F.S.] Allegoria. Per uno studio materialistico della letteratura. Rivista semestrale Anno XXIX, terza serie, n. 75 gennaio/ giugno 2017, G.B. Palumbo Editore; contatti: baldini@unistrasi.it, pp. 157 € 19,00. Nella sezione «Teoria e critica» si legge il saggio di William Marx Avanguardie e retroguardie: per una complessità del futuro in cui lo studioso si sofferma sul rapporto tra estetica del risultato e estetica del superamento in relazione alla poesia primonovecentesca e, in particolare, alla crisi postsimbolista. La complessità del movimento modernista, sviluppatosi alla vigilia della Grande Guerra in un periodo di crisi del romanzo e del simbolismo, generò due differenti atteggiamenti, quello di un nuovo ritorno al classicismo e quello delle avanguardie (futurismo, simultaneismo, orfismo…) talvolta in polemica reciproca, ma tese entrambe verso la modernità. Questa spaccatura che vede contrapposte avanguardia e retroguardia nascerebbe dalla crisi – non a caso parola tematica in molti simbolisti francesi – ottocentesca e rappresenterebbe una lotta al corso della storia da cui mossero entrambe le risposte successive: quella avanguardistica (Futurismo in primis) e quella classicista (Rinascimento classico). Caratteristico di entrambe è il programmatico superamento del rapporto con la tradizione letteraria, ma dove le retroguardie «promuovono un’estetica anteriore» le avanguardie cercano di immaginare un futuro che non sia all’insegna della continuità con il passato. Un aspetto caratteristico di questa fase storica in Francia fu proprio il rapporto ambiguo con l’eredità simbolista, che si voleva rivendicare ma per decretarne il superamento, come dimostrano i due primi numeri della Nouvelle Revue Française: il primo del novembre 1908 firmato da Léon Bocquet decisamente di rottura (vi si lodava un attacco del neoclassicista Jean Marc Bernard a Mallarmé uscito qualche mese prima su «Société nouvelle»), il secondo del febbraio 1909, firmato da Schlumberger, che prende le distanze dal neoclassicismo e risconosce la filiazione della poesia d’avanguardia dal simbolismo, conciliando «la posizione del risultato con quella del superamento». Secondo l’autore, infatti, uno degli elementi centrali del modernismo è costituito proprio dal «rapporto straziato con il tempo, con il passato, con la storia. Un rapporto straziato tra un’estetica del risultato e un’estetica del superamento» (p. 34). Litterature and Language between Fiction and non Fiction: a Matter of Commitment è il titolo dell’intervista che Angela Cordello e Tiziano Torraca hanno fatto a John Searle sul complesso e antico problema del rapporto tra parole e cose (si veda in particolare il concetto searliano di figurality, pp. 47-8). La relazione tra linguaggio e realtà investe un coinvolgimento del soggetto che parla o scrive, secondo differenti gradi di impegno che comportano maggiore o minore finzionalità (p. 50). Nel corso dell’intervista, in cui vengono posti al filosofo numerosi quesiti su oggetti e personaggi letterari, da Don Chisciotte a Gregor Samsa, Searle sottolinea alcune questioni rilevanti: il valore semantico prodotto nella finzione letteraria (cioè quanto di vero e reale viene riversato nelle storie fittizie); il fatto che la letteratura non debba usare un linguaggio specifico, settoriale pp. 41-2); l’interesse che egli nutre per il rapporto tra letteratura ed esperienza, in cui la letteratura riuscirebbe a individuare la realtà proprio attraverso un’intermittenza tra reale e fittizio. In proposito sarebbero particolarmente affascianti i casi in cui i due elementi sono mescolati, come in Slaughterhouse-five di Kurt Vonnegut, in cui alcune esperienze reali del narratore vengono descritte con il filtro della fantascienza, ma il lettore percepisce immediatamente che si tratta di una concessione e che i consueti vincoli del realismo narrativo sono qui deliberatamente accantonati. La sezione «Il presente» discute di The Complete Works of Primo Levi, i tre volumi usciti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna nel 2015, con tre contributi, rispettivamente di Franco Baldasso, di Ann Goldstein, di Domenico Scarpa. Nel primo Baldasso indaga la ricezione di Levi nella cultura anglofona precedente l’uscita del libro, così da poter valutare il peso che questa operazione sortisce nella cultura internazionale. La preparazione dei Complete Works ideata dall’editore Robert Weil ha avuto una gestazione di 16 anni e ha coinvolto dieci traduttori, un’operazione complessa dedicata ad uno dei pochi autori italiani discusso, letto e frequentato in America al di là dei circuiti accademici: «un’anomalia per il mercato editoriale americano» (p. 55), sia per l’intento canonizzante che per il mercato, e tuttavia l’accoglienza, anche da parte dei principali quotidiani, è stata entusiastica. La scelta della coordinatrice delle traduzioni Ann Goldstein – nota anche per le versioni anglofone di Elena Ferrante – e della prefatrice, la Nobel Toni Morrison, dimostra la ricerca di un’audience vasta, ma anche la collocazione dell’opera di Levi nel filone più moderno degli studi sulla Shoa, che si affiancano a quelli sul post colonialismo (le polemiche citate nella parte conclusiva del saggio dimostrano l’ambivalenza della figura di Levi nel mondo anglofono e alcuni stereotipi che ne hanno connotato la ricezione). Questa prospettiva – che avvicina Levi alla Arendt e che investe soprattutto i Sommersi e i salvati – rischia di stemperare l’unicum della vicenda rappresentata dallo scrittore nel più vasto mare di un dibattito generale sugli umanismi e di trasformare Levi «in una sorta di baluardo dei diritti umani in generale, un’ennesima riduzione in qualche modo consolatrice» (p. 60). Sul piano della ricezione ideologica vengono mosse anche critiche più dirette: si rimprovera allo scrittore l’eccesso di speculazione, la sua visione attenta alle sfumature quando sarebbe stato preferibile contrapporre con maggiore enfasi i termini della questione (Rothstein, Rosenbaum). Il secondo contributo consiste in un’intervista di Baldasso alla traduttrice dei Complete Works, Ann Goldstein. Levi è accolto con favore dagli intellettuali americani - ricorda Baldasso - per l’inquadramento morale, per i cambi di registro, per la duplice matrice umanistica e matematica del suo pensiero e non a caso la Goldstein afferma di aver incontrato particolare difficoltà con l’aspetto scientifico della prosa di Levi, non tanto per il lessico specifico, quanto per la descrizione dei processi scientifici. Rispetto ad alcune traduzioni già comparse in lingua inglese queste hanno cercato di aderire maggiormente all’originale, colmare alcune lacune, tra cui l’umorismo leviano che a volte era stato sacrificato, o il plurilinguismo: mentre nei saggi di argomento linguistico il dialetto viene tradotto, in Se questo è un uomo le lingue diverse dall’italiano sono state tutte lasciate come nell’originale, per comunicare al lettore la sensazione babelica voluta dall’autore. Le riflessioni della traduttrice hanno investito non solo il senso ma anche il suono della prosa; dopo la lunga frequentazione con le opere dello scrittore la Goldstein sottolinea l’emergere di un Levi filologo, estremamente interessato alla lingua e che dimostra questa sua inclinazione in più di un testo (Clamore vorticoso, Lo scoiattolo, Sistema periodico, la Tregua…): alcuni di questi vengono tradotti adesso per la prima volta, elemento che potrebbe concorrere a una maggiore attenzione dei lettori verso questo aspetto fino ad oggi tendenzialmente trascurato dalla critica anglofona. Il terzo contributo è un’intervista di Anna Baldini a Domenico Scarpa, del Centro Internazionale di Studi Primo Levi di Torino che ha curato per i Complete Works la sezione Notes on the Text. Nell’intervista si discute della grande opportunità scientifica rappresentata dai Complete Works e della visibilità che lo scrittore guadagna sul piano internazionale; si tratta poi più in generale delle pubblicazioni recenti, anche italiane, delle opere di Levi come quella curata da Belpoliti per Einaudi nel 2016. Tra le maggiori novità Scarpa è fiducioso in un probabile incremento della conoscenza dello scrittore che potrà venire in futuro dalla maggiore disponibilità mostrata di recente dagli eredi e dallo spoglio di quello che definisce il terzo settore delle opere di un autore, cioè quei testi pubblicati a stampa in sedi peregrine e perciò non censiti perché fino ad ora sfuggiti all’attenzione degli studiosi. Gli scritti di Levi riemersi negli ultimi anni possiedono una «forza perturbativa» (p. 82), come dimostrano alcune tesi sulla responsabilità, la colpa o il perdono trattate in un articolo praticamente sconosciuto confluito in una miscellanea dal titolo Il Girasole edita da Garzanti nel 1970. L’intervista si conclude con l’anticipazione del tema della annuale Lezione Primo Levi che Einaudi pubblica in italiano e in inglese: la prossima verrà tenuta da Alberto Cavaglion e Paola Valberga e tratterà del rapporto di Levi con le radici ebraiche, le tradizioni e i linguaggi della sua stirpe. Anterem. Rivista di ricerca letteraria, a. XLII, n. 95, giugno 2017. Direttore Flavio Ermini, direzione e redazione: via Zambelli 15, 37121 Verona. Contatti: direzione@anteremedizioni.it, pp. 91, € 20,00 Il secondo fascicolo del 2017 è dedicato all’altrove poetico; i versi in copertina sono di un grande del ‘900 italiano, Giorgio Caproni (da Il franco cacciatore): «Se volete incontrarmi,/ cercatemi dove non mi trovo./ Non so indicarvi un altro luogo», che sarà da leggere insieme all’altra citazione, quella in esergo all’editoriale del Direttore, che si apre con l’amatissimo Rilke. «Fiorire e inaridire sono a noi ugualmente noti» perché la ricerca poetica aspira a dire insieme l’uno e il molteplice, vivendo però anche della tensione tra i due poli: «materie sepolte nel tempo, atomi dispersi (…) nasce un universo che si fa e, mentre si realizza, si disfa, e si dispone in un gioco di iridescenze», scrive Aldo Trione, evocando Le cimitière marine in Postrem, breve ma densa riflessione in cui coinvolge anche Poe e Mallarmé. La poesia è permanenza nel movimento, la parola poetica è in grado di restituire l’essenza delle cose perché riesce a comunicare il significato altro, quello della vita anteriore: all’altrove e alla ricerca della parola poetica si affianca l’altro grande tema, quello della Natura («Der Frühling», «La primavera» di Holderlin, a p. 91 «Es wundert sich der Mensch, und neue Worte streben» «Stupito è l’uomo e con parole nuove» nella traduzione di Giampiero Moretti a p. 7 e p. 40), o della Prosodia della Natura (a p. 11 un breve pensiero di Antonio Prete). L’altrove, nel tempo e nel luogo, è motivo letterariamente fecondo, in quanto elemento poetico e mitopoietico insieme, ma è soprattutto peculiare della riflessione condotta nella Rivista, come dimostra questo ricchissimo numero. Arduo scegliere tra i tanti brani proposti,dove gli autori si chiamano e si rincorrono in un sapiente intreccio di rimandi: da Paul Celan (Tübingen, Jänner/ Tubinga, Gennaio, orig.e trad. Luigi Reitani, pp. 12-13) a Hölderlin, Rilke, Heidegger, Ungaretti tradotto da Celan (Ultimi cori per la terra promessa, Letzte Chöre für das verheißene Land, pp. 63-4), la Dickinson tradotta da Amelia Rosselli passando per i classici (Etica a Nicomaco, Orfeo), un percorso ben segnato dal fil rouge dell’esclusività dell’atto poetico che, pur mosso dal profondo sentire individuale, trascende il soggetto poetante per attingere l’universale, l’essenza, il vero. La ricerca poetica può denunciare la crisi di senso, ricorda Ermini nel suo commento a Giacomo Menon, ma la poesia vive anche di queste lacerazioni, riprodotte dal ritmo spezzato e sincopato del poeta friulano, di cui si leggono in questo numero alcuni testi inediti del 1988 (testi che, unendoci all’auspicio del Direttore, meriteranno qualche approfondimento): «non voleva l’interno le trasparenze intervenute / vedeva il suo oscuro scavo la sua fonda terra il suo recinto solitario»; «gli interpreti le scritture scuri inchiostri carte inquiete / era come i venti nella notte essi che scuotono foglie che battono /muri» (Giacomo Menon, 50. 3353 e 58. 4340 secondo l’inventario del Fondo Menon presso la Biblioteca Joppi di Udine). Erba d’Arno. Rivista trimestrale. Primavera- estate 2017, nn. 148-149. Direttore: Aldemaro Toni. Sede: P.zza Garibaldi 3, 50054 Fucecchio. info@ederba.it, tel e fax 0571 22487, pp. 142. € 10,00. Il ricco numero della Rivista, che ospita come di consueto contributi di narrativa, poesia, cinema, arte si apre con una gradevole prosa autobiografica di Marino Buffoni in cui si racconta l’incontro, avvenuto quando era studente, con Giovanni Comisso; segue un breve racconto di Aldemaro Toni che uscirà nella raccolta Al Sara hotel e altri racconti in autunno. La «Ragione delle lettere» contiene, oltre ai racconti di Massimo Rizza, Riccardo Cardellicchio e Massimo Cipollini intercalati a due riproduzioni a colori (una di Capogrossi del 1959 e una di Dova del 1956), poesie di Maldola Rigacci e Angiolo Bandinelli. Le prime sono presentate brevemente da Marco Romanelli, che offre al lettore alcune coordinate di lettura: un’apparente semplicità pascoliana verso le piccole cose, cura formale, lampi visionari. Potremmo aggiungere come suggestioni personali alcune evocazioni che la lettura richiama, in un lungo andare dall’Ottocento (incluso il melodramma) alla poesia contemporanea: Novembre, pascoliana fin nel tema dell’estate dei morti, riesce però leggera, quasi senza peso: «si corre ancora fra i corbezzoli / che illudono fra bacche e bocci. (…) Ancheggerei frivola / come respiro che non bada agli esiti / e non si inquieta / di quest’autunno in fiore /che si acquatta solo un po’/ dopo il sacro dell’estate». Nella poesia di Rigacci ci sono l’estate, le camelie, le rose (Sereni?): «prometti amore mio infinito / lascia la vite ingiallire, la camelia avvizzire, / non ti sentire più giardinere dell’ultima rosa /» ci sono gli oggetti ormai desueti (Gozzano): «gli attrezzi appoggiati /disordinati sotto il biancospino / (…) non ti sentire solo in questa casa / senza più la pendola da aggiustare, /le porte da chiudere la notte, la pioggia da tenere fuori/»; negli ultimi quattro versi, con Leopardi in posizione rilevata, c’è - come in Novembre - l’apertura del verso finale: «e il buio mai ti spauri, /perché / amore mio infinito / sarò io quaggiù a segnarti le stelle» (La Mappa). Altrove la poetessa impiega sonorità quasi scanzonate, contemporanee e nonostante la parola tematica sia così connotata nella lirica novecentesca, riesce a farla sua: «L’allegria è una geometria bambina /con angoli chiari e un po’ sprecisi» (Verde). La poesia di Bandinelli, di cui leggiamo una piccola antologia, sembra procedere ora per aforismi, ora per guizzi di immagini efficaci e tese a provocare disagio nel lettore: «Nessuno arriva a / scrivere / l’ultima pagina / dell’autobiografia. I curiosi / si accalcano, avidamente, sul cadavere /ormai/ cereo / (…) l’afa scioglie dai cuori /ogni residuo di virtù, scava / pozzi di nera calamità, morde »; le «intemperanze della notte» fanno spazio a un’alba che non è propriamente tragica (non ne ha la potenza epica), è disperante - perché la morte è passaggio necessario – e tuttavia sommessamente liberatoria: «l’ora del risveglio dei fuggiaschi / (…) l’ora delle morti sublimi / delle rinascite in terre sconosciute. / L’ora dei gabbiani che riprendono il mare / (…) dei becchini che indossano guanti neri / per chiudere il sipario della notte». Tra i contributi di «Note e rassegne» Maria Teresa Tarsitano dedica alcune pagine di prosa alla biografia di T.S. Eliot (alias ‘cousin Tom’) prendendo spunto da un aneddoto familiare; Vittorio Santoianni (Le «Nuovissime città» di Giovanni Papini) dedica qualche pagina a Gog, volume che nel quindicesimo capitolo descrive alcune città immaginarie futuribili e spesso inquietanti in cui spunti fantascientifici si intrecciano con allusioni più o meno celate al dibatitto architettonico e urbanistico di quegli anni: «tali città utopiche possono essere interpretate come una parodia dell’idea di città elaborata dal Movimento Moderno e (…) di certi eccessi demiurgici presenti in progetti (…) già all’epoca reputati visionari», p. 88. Kamen’. Rivista di poesia e di filosofia. anno XXVI n. 50, Gennaio 2017, Libreria Ticinum Editore, Voghera. Sede: Viale Vittorio Veneto 23, 26845, Codogno. Contatti: 0377 30709. Direttore responsabile Amedeo Anelli, pp. 114, € 10,00. Il numero 50 viene salutato da una breve nota che ripercorre momenti salienti della storia di «Kamen’», Rivista nata nel 1991 e interessata fin da subito alla prospettiva internazionale, prima europea e poi mondiale, della letteratura e della poesia, con particolare attenzione al legame tra testi, filosofia, etica. La dimensione multiculturale, che permette di dialogare con saperi contigui, dall’Arte al Diritto fino alle Scienze Dure, si è progressivamente accentuata, come dimostrano sia il comitato scientifico - decisamente internazionale -, sia le sezioni monografiche (Poesia, Filosofia, Materiali, Teoria della Letteratura, Critica, Poetiche) in cui si promuovono spesso autori poco noti in Italia. L’intento della Rivista per gli anni a venire è ancora quello che ne originò la fondazione: alimentare il dibattito culturale con temi trascurati nel panorama italiano e favorire il dialogo delle letterature europee con quelle del resto del mondo. La sezione Letteratura e Giornalismo, curata da Alessandro Zaccuri, è dedicata a Giuseppe Bonura, narratore e critico militante dell’«Avvenire» scomparso nel 2008. La sezione Materiali, curata da Daniela Marcheschi, si occupa di Ariberto Migoli, civilista e esperto di Diritto commerciale. La sezione di Poesia, curata da Erika Nicchiosini, ospita Remo Paganelli (1955-1987), poeta e critico letterario marchigiano morto suicida. Numerosi riconoscimenti hanno segnato la sua breve carriera, da quelli di poesia - L’Orto Botanico (Premio Montale 1985) - fino a quelli per gli studi su Vittorio Sereni (oggetto della tesi di laurea e presentissimo nei versi di Paganelli poeta: nell’antologia qui proposta incessante il dialogo specialmente con Gli strumenti umani). La sua attività di esegeta (ha scritto contributi su Penna, Fortini, Doplicher) illumina e approfondisce i temi e i percorsi della sua poesia, che si dispiega in un linguaggio denso ma non criptico, attento alla forte tensione morale, al senso profondo e all’impegno che la poesia rappresenta nel mondo contemporaneo: «-Vorresti farmi credere / Che il gesto, l’atto finale del troncamento, / (…) vale di più /della parola o di tutte le parole /spese per testimoniare? », elementi che condivide con i suoi modelli (Sereni, Caproni, Montale, Luzi, Zanzotto). Paganelli non cerca nella poesia l’autocompiacimento intimistico, ma intima e soggettiva è la ricerca, il dialogo - sereniano - con il Grande amico («Mia ombra, mio doppio /talvolta amico ma più spesso /straniero che mi infuria ostinato»), evocato anche in Nella Wunderkammer, con le Apparizioni e incontri, con il mondo dei morti, coi fantasmi: «Vorrei fare una lunga vacanza sulla terra» che ricorda l’esergo dei Versi a Proserpina, o ancora «Per una probabile cecità: (…) tu non torni / e solo nel sogno le ombre danno spago / mentre si contorcono nelle rivelazioni». Ma la prospettiva sereniana è rovesciata, perché il lemure è sempre il poeta: «dopo starò a guardavi, come da un esterno / si guarda un interno», «Ci incontreremo di nuovo / e sarà un modo diverso di vedersi / e di toccarsi (del resto i nostri corpi /non erano cose da vedere nemmeno in vita) (…) comunque spero di stare solo, senza / nessun intermediario» «si sa bene che nella vita e anche dopo / tutte le cose finiscono»; la poesia di Paganelli non è esente da motivi scritturali, prevalentemente veterotestamentari, che non sortiscono pensieri salvifici: ««Riprova Zaccheo, risali sul sicomoro», «Non so niente, ironica rosa / ironico fuoco che parli /crepitando lieve» (Da Nella Wunderkammer), «Chiedo all’angelo ventoso (dello sterminio) / la cui bellezza è offuscata, / di finirmi presto». Paganelli possiede anche un registro ironico e malinconico (Caproni): «Amore, non scansarmi almeno nel finale, /parlotta, chiacchera, vedi ch’è in vista il mare, / (ma se il finale è tutt’una menzogna!). / Soffia, con soffi che sai, dai giardini frondosi; / l’eleganza sconcia dell’elegia, la sua malinconia, / almeno nomina il mio nome, prima che arricchisca / le spoglie già notevoli del tuo magazzino». Chiudono il numero i sommari dei numeri precedenti. L’area di Broca, Semestrale di letteratura e conoscenza (già “Salvo Imprevisti”), anno XLII-XLIII, numero 104- 105, luglio 2016-giugno 2017, pp. 28. € 8,00. Contatti: e.bettarini.broca@gmail.com Il tema di questo numero è Solitudini, declinato in forma poetica o in brevi prose, narrative o di riflessione. La solitudine è condizione necessaria per avere un intenso dialogo con sé stessi; per questo è indispensabile all’esercizio delle lettere, come ricorda Alessandro Franci nell’introduzione al numero. La scelta del titolo al plurale serve a ricordare anche altre solitudini, quelle che non desideriamo (abbandono, malattia, isolamento) e che spaventano; ma chi è abituato ad ascoltare il proprio mondo interiore va incontro alla solitudine, come i tre scrittori richiamati qui a emblemi: Marguerite Duras, che parla della solitudine della scrittura, Giuseppe Berto con il suo esilio volontario davanti alle coste siciliane e infine Petrarca, il poeta del De vita solitaria e della solitudine come privilegio, esperienza reversibile e perciò non temuta ma anelata (il poeta torna anche nella riflessione di Davide Puccini, p. 17. Le riflessioni di Franci terminano qui, lasciando spazio ai brani dedicati ora alla paura, ora alla ricerca della solitudine. Solitudine in chiave contemporanea nella lirica di Annalisa Macchia, Tremo: «Ora l’antico terrore / in occhi di uomini, di donne in fuga / stretti l’un l’altro, vecchi e bambini / ognuno a pregare / che ancora non cada la scure / tra lui e il resto del mondo» e in quella di Roberto Mosi, La solutidine del cavaliere: «Castello incantato / la meta di ogni sera /all’ultimo piano. Lega / il ronzino al fanale / della strada, sale in alto / con le storie degli eroi». Solitudine e noia in Anna de Noailles: «Quoi! Vais-je m’attristerd’un long jour solitaire? / 88 Riviste italiane Recensioni LVII 02/2017 Reprocherai-je au sort son indigent éclat? / Plus poignat est l’ennui, plus il est salutaire; /Aidon le doux réseau du temps à se défaire» («Cosa! Mi sto rattristando per un lungo giorno solitario? / Oserei incolpare il sorgere del suo stentato lucore? / Più la noia è commovente, più è salutare; / aiutiamo la dolce trama del tempo a disfarsi», trad. Giuliano Brenna). La solitudine interrotta: Enrico Zoi, È tutto il mondo fuori: «ire e rumori del silenzio / rancidi rancori rincorrono / soli t’odono, t’odiano / ire, nel silenzio, i rumori / (…) gli assensi scalfiti dai brusii / sii te stesso e te stesso conosci / eri in errore, erri nell’orrore, perso/ i timori ti lasciano esanime / ti raggiunge la prosa, il senso, e dici sì / il varco si riapre / si frantuma / il / verso». A conclusione di questa breve esplorazione, in forma ciclica, tornerei su Petrarca, il poeta che esalta la solitudine dello scrittore ma anche quella del lettore. Si celebra compiutamente con Petrarca il passaggio della lettura da esperienza collettiva, quale era stata per quasi tutto il medioevo, a quella forma moderna e silenziosa, anche in questo molto diversa da quella medievale che spesso si faceva a voce alta, e ormai connotata dal rapporto privilegiato del Lettore col Libro. QdR7. Didattica e letteratura. Letterature e letteratura delle origini: lo spazio culturale europeo, cur. Giuseppe Noto, n. 7 del 2018, Loescher editore, Torino, pp. 121. € 8,50. Questo numero della Rivista affronta questioni dibattute da anni tra gli specialisti: la letteratura medievale è un fenomeno europeo, imprescindibile per la comprensione delle letterature sviluppatesi nelle “lingue nazionali” e tuttavia è sempre penalizzata nei programmi scolastici. Nel saggio di apertura Giuseppe Noto sintetizza alcuni nodi della questione, prima tratteggiando elementi della cultura medievale che connotano anche la nostra epoca (universalismo culturale, comunicazione scritto-orale o multimediale - si pensi al ruolo anche didattico dell’iconografia medievale -, importanza delle opere diegetiche in versi), poi ricordando la centralità della filologia come metodo di conoscenza, passando per Jauss e la sua ancora attuale disamina della letteratura medievale all’insegna della alterità e modernità, fino a soffermarsi sulle straordinarie possibilità comparatistiche che la letteratura medievale - specialmente quella romanza, a lui particolarmente cara - offre. La comparazione è il punto di partenza di ogni medievista o, se si vuole, della disciplina stessa, come insegna Curtius, e Noto ne sta tentando l’applicazione in percorso diacronico tra letteratura contemporanea italiana e letteratura romanza. L’esercizio comparatistico e tematico vero, non quello facilior, descritto con condivisibile avversione dall’autore («quello che si fa comparando elementi eterogenei sulla base di generiche accostabilità, come “la donna nella letteratura”: orrore…», p. 21) - ci permettiamo di ricordare - potrebbe estendersi senza difficoltà anche alla letteratura mediolatina, almeno per licei e università: solo per fare pochi esempi collocando la Monarchia di Dante nel dibattito de regimine (da Egidio Romano a Giovani di Parigi), mostrando la ricchezza della poesia mediolatina nelle sue espressioni più note (Carmina Burana, i poeti della Loira) o un po’ meno batutte dai non specialisti (la poesia carolingia o quella innografica e liturgica in genere, sulla cui importanza formale per gli esiti romanzi e volgari si era soffermato Avalle), cercando anche nei testi mediolatini, oltre che romanzi o germanici, l’emersione letteraria degli archetipi del fantastico (Gervasio di Tilbury e Walter Map, autori non a caso attivi alla corte trilingue di Enrico II), o approfondendo - come già alcuni docenti fanno - rapporti diacronici tra autori (Saxo Grammarico e Shakespeare o Paolo Diacono e Manzoni e così via). Osservazioni interessanti contenute nel saggio investono poi una possibile ricezione (scolastica ma non solo) à rebours della letteratura delle origini partendo dal Novecento, da basarsi per larga parte sul canone continiano (la linea «petrachesca» portata avanti da Pasolini e «Officina» e il pluristilismo dantesco che vanta illustri continuatori moderni – Gadda, Pizzuto,...) integrato, con Antonelli, dalle istanze carducciane e leopardiane. Il numero offre poi saggi di specialisti dedicati agli argomenti chiave della letteratura due/trecentesca: quello di Marco Grimaldi sul Duecento, quello di Donato Pirovano sul Dolce stil novo (che discute della linea Guinizzelli-Cavalcanti-Dante, contestualizzandola anche all’interno dei canzonieri manoscritti, discutendo le aperture di Guinizzelli e Cavalcanti alla lirica dottrinale e biblica e la polemica guittoniana), quello di Carmelo Tramontana su Dante, quello di Sabrina Stroppa su Petrarca, in cui si mette in discussione la maniera generalmente obsoleta di presentare il poeta nelle classi, partendo dal titolo dei RVF, che Canzoniere non è in nessun modo, fino all’appiattimento mortificante di tutta la complessa vicenda intellettuale di Petrarca raccontata nelle «rime sparse» al solo ed esclusivo amore per Laura; il saggio si chiude sull’invito ad approfondire la struttura del sonetto petrarchesco, perché anche la forma è veicolo privilegiato del senso (in questo caso della fuga temporis che segna tutti i RVF, in vita e in morte). Concludono il volume una proposta didattica per la lettura del Decamerone (Simone Giusti) e un contributo sulle questioni di didattica della letteratura delle origini nei licei (Marzia Freni, Maria Edoarda Marini). Xenia. Trimestrale di letteratura e di cultura. Anno III, numero 1, marzo 2018. Direttore Gianfranco De Ferrari, Contatti: rogiango@tin.it; guidozavanone@yahoo.it; pp. 72. In apertura di questo numero si leggono Tre poesie di Corrado Calabrò, poeta e giurista calabrese i cui testi sono stati tradotti in oltre venti paesi. Le tre liriche, indicative del mondo poetico dell’Autore, sono dedicate la prima all’amore e le altre due al mare. Verrà l’amore ed avrà le tue labbra richiama solo nel titolo una nota poesia di Pavese, per sviluppare poi il tema dell’amore in maniera meno drammatica rispetto al modello: l’amore esiste, per vederlo basta solo saperlo guardare. Nel verso conclusivo la ripresa del tema iniziale, con il rovesciamento prospettico: «metti gli occhiali da luna. / Vedrai venire – lo vedrai tu sola – venire a te lungo un binario ignoto / l’amore entrato in fase con la luna / e senza che tu dica una parola / tu gli offrirai tremante le tue labbra. ». Le altre due sono dedicate al mare, una presenza costante e necessaria al mondo poetico dell’autore. In Entanglement si narra un passaggio in traghetto nei luoghi della giovinezza del poeta, tra Reggio e Messina; la vista, in lontananza, della casa materna, non riporta alla memoria immagini felici, ma quella traumatica della morte della madre e, insieme, la consapevolezza dell’allontanamento in qualche modo definitivo dai luoghi del cuore, distanza nel tempo e nello spazio: «Si può scorgere forse la casa / con tante stanze in cui mia madre è morta. / (…) To leave or not to leave?/ Così vicina e non ci sono tornato». L’ultima, Mi manca il mare, è quella in cui più forte emerge il legame con l’elemento. Si tratta di nostalgia dai luoghi amati, un’allusione discreta al mare come metafora del viaggio, ma soprattutto di una mancanza fisica, narrata con dolce e garbata intensità: «Se non sognassi non avrei un passato/ Non apaprtiene al navignate il mare / che ha solcato / Non trattiene chi nuota / altro che il sogno / del mare che ha abbracciato. » Il testo di Gian Paolo Marchi, Franco Riva incontra Montale, ci porta in un luogo di delizie, che gli appassionati di poesia novecentesca conoscono bene: le piccole ma importantissime realtà editoriali che, con i loro torchi, hanno caratterizzato una stagione culturale (penso a Franco Riva, a Vanni Scheiwiller, a Giorgio Devoto). Le plaquette, spesso illustrate, rigorosamente in piccole tirature, con le loro carte filigranate, con il particolare colore dell’inchiostro, rappresentano per i cultori veri oggetti del desiderio, appagamento sinestico (al tatto, all’occhio, alla lettura) se pure un po’ snob, simbolo di un passato non troppo remoto che pure oggi ci appare glorioso (viventi Montale, Sereni, Caproni…). Nel gradevole saggio di Marchi viene ripercorsa la corrispondenza tra Montale e Riva per la pubblicazione – bassissima tiratura – degli Xenia I, le correzioni apposte alle bozze, l’approfondimento su certi luoghi del testo e la discussione sulle illustrazioni: Riva propone Manzù, che ha illustrato le Georgiche tradotte da Giulio Caprin, Officina Bodoni 1948 e l’Edipo re tradotto da Manara Valgimigli, Officina Bodoni 1968, ma alla fine si stampano alcune acquaforti di Montale, una delle quali è riprodotta anche nella copertina della Rivista. Presente con tre poesie anche Claudio Pozza, noto poeta e musicista, ideatore e direttore del Festival Internazionale di Poesia di Genova. Una vita fuoriposto, lirica sul disagio esistenziale: «ho lasciato una scia umida e nera / come lumaca ulcerosa e maledetta. /(…) forte con i forti / debole con i deboli », La donna dalle lacrime dolci, ritrosa come un felino «sei il gatto che fugge poi ritorna», pietra filosofale «quanti alchimisti hanno perso i polmoni / inseguendo i fumi del tuo corpo sudato», Natura e Madre Terra, Amore e Psiche, sintesi cosmologica, salvifica e dirompente insieme, fine ultimo della Creazione «Sei la donna che detta il ritmo alle stagioni / che dimezza l’attesa tra un mio battito e l’altro / sei Venere che sorge da una colata di lava / sei Psiche che tiene sempre accesa la luce / (…) Per i tuoi capelli il vento sta ringraziando Dio / per avergli donato uno scopo di vita». Chiude questa rassegna Epicedio, componimento in quattro strofe in cui il distico d’apertura gioca un ruolo rilevato: i primi versi di ogni strofa rimano tra loro, il secondo verso è sempre uguale a costruire un climax semantico: [strofa I] «Non sento orti /dentro di me; solo steppa e tunda (…) [strofa II] Non sento porti /dentro di me / solo navi bombardate (…) [strofa III] Non sento morti /dentro di me / solo schelerti e silenzi (…) [strofa IV] Non sento forti /dentro di me / solo tende strappate». Il disvelamento del senso di ogni strofa è quindi affidato al terzo verso, che chiarisce l’opposizione incipitaria rafforzando il senso nichilista, la battaglia perduta, la lacerazione del soggetto che sembra compiuta nell’ultima immagine (ma potrebbe nascondere un rovesciamento: il vento = flatus vocis = poesia?): «nessuna casa (…)/ nessuna chiesa (…) Soltanto ponti che percorre solo il vento / e solo il vento un giorno potrà ritornare». ¬ top of page |
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