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CORRADO BENIGNI, Tempo riflesso, Novara, Interlinea, 2018, pp. 81, € 12,00.

Corrado Benigni dimostra la coerenza di una poetica tesa alla decifrazione del segno e alla disamina del vero: dalle unità dell’alfabeto (Alfabeto di cenere, LietoColle 2005), alle prove da vagliare in tribunale (Tribunale della mente, Interlinea 2012), Benigni giunge con Tempo riflesso all’auscultazione e all’osservazione della traccia-documento custode delle storie («Detriti, pietruzze, segni, questa è la forma in cui il passato ci conserva», «Rovescia i sassi del sentiero dove cammini, leggi le superfici lisce, il bianco delle venature, distingui la sagoma dei fossili»), servendosi del pensiero lucido di chi è consapevole e responsabile dei linguaggi che lo circondano; di chi indaga un senso delle cose («Sospendete per un attimo il giudizio, leggete / tra le righe di questo sonno. Troppa vita / è sepolta sotto falso nome») e insieme è oggetto dell’indagine («Siamo scrittura da decifrare»); con l’assertività di chi procura un’anamnesi («Lo dicono queste pietre / che abitano il presente prima di noi») e – inevitabilmente – dispera di divinare una prognosi («Uno scarto ci separa dal vero, pellegrini nella materia»).
Tempo riflesso dichiara già dal titolo il perno da cui muove: quel «tempo che agisce, / fabbro infaticabile», che «ci scrive, mentre cancella». È dalle immagini che ci arriva palpabile l’esperienza del tempo: come un riflesso – come un raggio, per dirla col Barthes de La camera chiara. Il tempo è la forma residuale delle vite umane che è registrata e custodita nelle cose – nella natura, nelle parole, nelle immagini, nelle fotografie – e da queste recita agli uomini il loro passato, le ragioni e la statura del loro presente. Il segreto che si perpetua lega tutte le cose tra loro: esiste un’«unica sintassi» che connette gli enti e gli eventi macro- e microscopici, («C’è una vita che trionfa e dura in tutto ciò che esiste di minuscolo o molecolare», «Quanta vita gli annali della storia non registrano»), la «nostra pulviscolare presenza » con ciò che l’ha preceduta e ciò che seguirà («l’acqua che si gela e torna acqua»). Tuttavia, non è dato conoscere le forze segrete che regolano e difendono questo ecosistema di esseri in successione o in coesistenza: la poesia si nutre in un tentativo di scandaglio che non giunge mai alla scoperta ultima; e a sua volta lo spectator – colui che secondo Barthes contempla l’immagine – si rovescia in spectrum – il referente che è fotografato o immortalato – poiché è «messo a fuoco» dal passato e «perché a nostra insaputa, / quello che è stato ci vede».
La raccolta è divisa in tre sezioni: Pietre vive, Dall’invisibile e Apparenze. Le pietre si fanno metafora di una pluralità, della serialità delle esistenze che subiscono l’azione del tempo: ognuna di loro veicola una cronistoria che si palesa nella foggia, nella forma quale risultato dell’erosione; espongono un documento all’occhio di chi le osserva. Dietro la traccia più patentemente fenomenica, pure, si nasconde una cosa in sé indefinibile, e la consapevolezza che esista una forza sotterranea, invisibile, a muovere i destini. L’unico livello di comprensione accordato all’uomo è quello dell’apparenza, che determina l’esercizio scopico infaticabile del soggetto di Tempo riflesso. In particolare, l’ultima sezione della raccolta – con un esergo dal Benjamin di Piccola storia della fotografia – si compone di molti testi costruiti per ekphrasis (sono citati dipinti e fotografie di Lorenzo Lotto, Edward Hopper, Luigi Ghirri, Sebastião Salgado, Mario Giacomelli, André Kertész). Il Tempo che nella raccolta viene riflesso dalle cose («qualunque cosa è uno specchio se guardata a lungo») evoca il concetto di punctum espresso da Barthes ne La camera chiara: dall’immagine conosciamo che qualcosa è stato, contempliamo il tempo compresso che ferma un hic et nunc: qualcosa è stato, lo è anche nel momento presente in cui lo spectator contempla l’immagine; ma è solo nella dimensione che si confina a quell’immagine. La foto ci testimonia un’esistenza in un dato momento, ma «non sa dire ciò che dà a vedere»; e così per Benigni «In uno scatto / tutto si confonde, si somiglia, / perché dentro l’immagine ogni cosa resta implicita».
La parola e l’immagine non riescono, per quanto preziosa sia la loro resa della cosa fenomenica, a restituire la verità in sé dei referenti sui quali agiscono. Nella prosa Riverbero, Benigni scrive che «I nomi che scegliamo non sono mai giusti fino in fondo», perché «Veritas est in puteo»; e nei versi di Dettagli, invece, «C’è sempre un luogo più a fondo, confuso con l’immagine, / un essere perduto nei dettagli, che chiede la parola – / il tuo nome». E tuttavia, la parola e l’immagine si fanno strumenti d’indagine precipui in virtù della loro funzione documentaria: «L’immagine, come la parola, dice di noi cosa non tornerà mai più», perché «In ogni istante comincia il passato».
Nel procedere da una sezione all’altra, il lettore viene posto di fronte a un passaggio di stato che vede il verso allungarsi nella prosa e poi tornare verso. Le poesie di Pietre vive sono modulate su una forma prevalentemente monostrofica (a eccezione di Prova, organizzata in due quartine, dell’eterostrofismo di Nomos e dei distici di Nodo) che registra un’oscillazione del verso dalle misure della tradizione al verso-frase, fino a raggiungere 19 sillabe, ad aderire alla prosa; e prose poetiche sono quelle che compongono la sezione centrale del libro, Dall’invisibile, nelle quali pure si riconoscono, nel mezzo o in chiusura di componimento, alcuni endecasillabi isolati dalla sintassi (ne Gli alberi leggiamo l’inciso finale: «– la nostra pulviscolare presenza»; Su una prosa di Beckett nasconde al centro: «Nessuna risposta soffia nell’aria»; Riverbero chiude con: «Il tempo ci scrive, mentre cancella»; e Indizi con: «non fingere che nulla ti appartenga»); Apparenze, infine, ripristina il verso inclusivo della prima sezione, l’organizzazione monostrofica e quella eterostrofica. Attraverso una sintassi piana, sostanziata da imperativi, inviti all’indagine rivolti al lettore e a sé stesso («leggete », «Ascolta», «Decifra», «distingui»), Benigni restituisce una dualità: l’apparenza esteriore che è proiezione dell’interno inintelligibile; e lo fa con la plasticità del termine esatto, della parola che provi a carpire il più possibile circa lo spazio precluso all’uomo, all’occhio; con l’allusione al nesso sotterraneo di tutte le cose tra loro («Afferra i nessi tra le cose»; «Tutto è più coeso di quanto immagini. Ogni tassello rimanda a un altro, ogni continente si riallaccia a un’altra parte della terra»).
Quello di Benigni è un lirismo di pensiero: i versi-frase, le prose della sezione centrale non sono tramite di una narrazione; piuttosto, il discorso emotivo riguarda il soggetto, il suo rovello, e si estende a un’evidenza a spettro più ampio, si allarga all’interno di una prima persona plurale, dilata una storia individuale affiancandola alla schiera delle altre storie individuali con le quali convive nel tempo.
Il tempo non arriva a farsi scavo a ritroso per una ricostruzione in senso proustiano; è invece documento, traccia di un passato che può offrire un’esegesi del presente: è attraverso l’eteroscopia che il soggetto tenta un’autoscopia («Sei te stesso che lentamente ridisegni, rimetti in ordine, a te stesso che dai una possibilità. Una forma. Un inizio»), pure parziale, perché coglie solo un fermo-immagine, perdendo la continuità nella durata. La ricerca del senso ultimo, di una verità, non può raggiungere il suo compimento, ma si alimenta nello squarcio montaliano che è temporaneo, nella tensione dell’indagine: «Non possiamo parlare in nome della verità, ma possiamo dire il vero, custodire una voce».


(Francesca Santucci)

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