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FRANCA MANCINELLI, Libretto di transito, Amos Edizioni, 2018, pp. 55, € 12,00.

La poesia di Franca Mancinelli potrebbe sembrare, ad una prima lettura, quasi respingente. I pochi luoghi evocati ossessivamente, le figure che si accavallano, perfino la forma del paragrafo in prosa, dove il suono offre solo per accidente un appiglio melodico alla lettura, che per il resto scorre piana e asettica: tutto questo contribuisce a creare un’atmosfera sospesa che già si riconosce come la marca espressiva più evidente della poetessa di Fano. Eppure, addentrandosi nello smilzo libretto, una forza nuova, quasi come un sospetto, assale il lettore di questi abbagli privati. Quello che sulle prime ci aveva respinto, ora ci attira per un motivo misterioso. L’esattezza paradossale di questa scrittura svela un ritmo diverso, più lento ma non meno coinvolgente dei versi. E le immagini, che prima si presentavano oscuramente correlate, si dipanano a scoprire il cuore di una poesia assorta nell’abisso del dettaglio e nella ripetizione dei gesti.
A cosa allude, ad esempio, il tema del ‘transito’ che si imprime sull’intera raccolta? Se il primo dei sette momenti che compongono il Libretto (tutti indicati da una pagina bianca, senza numeri né intertitoli) ci indirizza alla più immediata metafora del viaggio, questa referenza va presto a diluirsi in uno scorrere rapido e obliquo di immagini e situazioni, colte dallo sguardo acuto di Mancinelli (ecco un’altra parola tema, ‘sguardo’, insieme a ‘fiume’, ‘acqua’, ‘ombra’) e poste in una geometria segreta, a riverberarsi una nell’altra. Il transito è allora il flusso, o meglio, la sospensione della vita, della morte, della memoria e della natura, costantemente evocata attraverso una presenza vegetale che si proietta nelle intercapedini, riempiendo i vuoti e legando i vari aspetti dell’esistenza all’auscultazione involontaria di un dopo, e perfino di un prima. La persona dell’io poetico può essere così una e molteplice, riflessiva e diretta a un tu, partecipe e distaccata.
Ma i sogni a occhi aperti di Mancinelli, che in certi punti ricordano quelli di un attonito Sandro Penna alle prese con i colori su un treno all’alba, precipitano inevitabilmente nella consistenza pastosa della realtà, entro la quale l’autrice di queste poesie si infila aderendo faticosamente ai vestiti, calzando scarpe pesanti, mangiando. E la realtà produce l’effetto ansiogeno di un soffocamento, l’accelerare spropositato del cuore che non riceve più ossigeno, il blocco infinitesimale della vita, il piccolo trauma del quotidiano: «Lo so che parli e apri la bocca, come un bambino che scoppia in pianto mentre è costretto a mangiare. In quella poltiglia che ti chiude la gola, c’è tutto quanto ti portavo sulla tavola […]» (p. 29), ma anche: «Ero una casa abitata da piante che si sporgono ai vuoti, sottili si avvolgono dentro il franare dei muri. Si è dimenticata la porta, questa casa, l’ha inghiottita come un boccone messo un po’ di traverso» (p. 20).
La materia rappresenta la grande tentazione e il grande interrogativo di questa poesia. Come può trasformarsi in spirito, vita, morte e memoria? Come può, ad esempio, un uovo («Allineato ai punti cardinali, in possesso di tutte le tue forze, concèntrati: rompi un uovo», p. 42) diventare la sostanza insondabile ed eterna del transito? Una possibile risposta a questa domanda è fornita dalla materialità della parola, che, tra l’altro, rappresenta anche la novità più solida di questa poesia. La parola che diventa frase. E sulla capacità della frase è giocata questa come molta della migliore poesia italiana contemporanea (penso, ad esempio, a Marco Giovenale): «Le frasi non compiute restano ruderi. C’è un intero paese in pericolo di crollo che stai sostenendo in te. […]» (p. 34). Spettatrice assonnata del racconto spontaneo e silenzioso della vita che si dipana sotto forma di paesaggio, Mancinelli sa forgiare frasi precise nella loro perfetta volontà di evocare un pensiero. Come un infante, ne appaia di concrete e di “fantasiose”, ottenendo un effetto di galleggiamento del senso che apre scenari nuovi nella descrizione delle situazioni poetiche. La modulazione di un suono melodioso o martellante tipico della poesia in versi è compensata dalla potenzialità di reazione insita nel contatto fra l’immaginazione magmatica e fluorescente della poetessa e la prosa, depositaria, per convenzione, dell’accesso più accreditato alla Realtà: «Sei stanca. Stai facendo spuntare le gemme. Le scorze si frangono, non resistono più. Con gli occhi chiusi continui a lottare. La terra è una roccia, si sbriciola in ghiaia sottile. È una parete e una porta. Continua a dormire. Le foglie si parlano fraterne. Dal cuore alla cime della chioma, stanno iniziando una frase per te» (p. 55).
Libretto di transito sembra presentarsi come una sorta di progetto intermedio dopo Mala kruna (2007) e Pasta madre (2013) e le due apparizioni in Nuovi poeti italiani 6 (2012) e XIII Quaderno italiano di poesia contemporanea (2017) in cui, tra l’altro, si anticipano i versi di quest’ultima uscita. I frammenti di transito cui ci invita lo sguardo ingenuo e sorvegliato di questa creatrice di frasi coinvolgono il lettore come fossero il palinsesto di un grande romanzo possibile, una storia che non rinuncia ad essere narrata.


(Fabrizio Miliucci)

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