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Mallarmé. Versi e prose. Traduzione italiana di F.T. Marinetti,seconda stesura inedita a cura di Giuseppe Gazzola, Firenze, Società Editrice Fiorentina («Ungarettiana» 14), 2018, pp. 162, € 15,00.    

in: Semicerchio LVIII-LIX (2018/1-2) ECOPOETRY. Poesia del degrado ambientale pp. 148 - 150    


Le cose in letteratura vanno spesse volte come nella vita. È la legge edipica: allorché il Padre invecchia e le sue forze scemano, il figlio, dopo averlo avversato, se lo porta sulle spalle. Se Mallarmé, assurto dapprima a Padre del modernismo (ché di modernità tout court aveva già parlato Baudelaire) diventava per Marinetti un passatista, è perché bisognava innanzitutto, per riscattarlo, conclamarne la vetustà. Indi, scovare il nuovo in lui sepolto e trarlo, obstetricante manu, da quel fetale mondo cui il poeta della Rue de Rome sembrava essersi ritirato. Marinetti traghetta dunque un poeta opaco e polveroso, esponente della più intimistica ed estetizzante retroguardia ottocentesca, in una dimensione giovane, militante e smagliante; verso quell’ avanguardia che vuol essere un eterno presente. Poco importa ch’essa sarebbe retrocessa di lì a poco e sepolta in un’altra piega della storia, assumendo appunto l’infamante aggettivo retroguardista di «avanguardia storica». Nell’atteggiamento di Marinetti verso Mallarmé si coglie insomma sin d’ora lo stesso demone della contraddizione che anima l’Antitradition futuriste di Apollinaire: siamo avanti, e siamo indietro; si affossa e si scagiona il passato. D’altronde, c’è un «simbolismo» passatista (segnato dal ritorno del rimosso formale dopo la lunga parentesi vitale del romanticismo), e un «simbolismo» futurista: quello, per intenderci, che ripromuove il verso libero.
Mallarmé è, nell’ottica sopra detta, futurista quando si mette a spezzare il dettato a colpi di martello (nel Coup de dés, esempio di «lirismo multilineo», secondo l’espressione marinettiana) prefigurando così quel verso libero che i suoi seguaci (René Ghil, Gustave Kahn, Vielé-Griffin) praticarono dapprima, illustrarono e normarono poi, e che Mallarmé stesso disdegnò (si vedano il famoso «avant-dire» al Traité du verbe del versoliberista René Ghil e le lettere che i due si scambiarono). Mallarmé è romantico-passatista quando sperimenta l’unità formale del sonetto e fa dello scavo, ossia dell’implicitazione («J’ai creusé le vers à tel point...») la sua bandiera. Nello stesso «avant-dire» a René Ghil Mallarmé aveva del resto constatato «le double état de la parole, brut ou immédiat ici, là essentiel». Di certo l’invettiva, intesa come parola-propaganda scagliata contro l’Altro, come parola-oggetto o parola d’ordine, appannaggio di una poesia militante d’impronta bellica, era quanto di più lontano si potesse immaginare dalla poetica del recedimento autoriale propria di Mallarmé. Il quale preferiva alla parola come fendente e come esponente la parola-cuscinetto, che resta sullo sfondo («peindre non la chose, mais l’effet...»); e alla giaculatoria la pacata perifrasi in cui, come egli scrive nello stesso «avant-dire», «l’objet nommé baigne dans une clairvoyante atmosphère». Basti poi ricordare la «garanzia della sintassi» da lui rivendicata («Il faut une garantie – La syntaxe», scriveva in una delle sue Divagations) per misurare la distanza, almeno d’acchito, tra le due figure. Eppure, come si è detto, la coppia antifrastica dinamismo- stagnazione che sembra configurare questa relazione è solo un fatto di prospettiva: quello che si chiama ora con gran fervore «movimento», sarà stasi; se il controverso rapporto tanto dei futuristi quanto degli ermetici italiani con il loro necessario Mallarmé non desta, nei figli della psicoanalisi e della sociologia quali noi siamo, particolare sorpresa, è perché la storia della letteratura è essa stessa una storia di riposizionamenti, riconoscimenti e disconoscimenti in un sempre rinnovato gioco di ruoli, come bene ha mostrato Pierre Bourdieu.
Inutile rievocare a tal proposito lo spartiacque storico dell’esperienza bellica la quale, con la sua mobilitazione di pulsioni vitali, agisce da detonatore sulle forme come la ghigliottina in Francia tra Sette e Ottocento. Fu proprio questa nuova estetica bellica, foriera d’invettive e di parole d’ordine, che indusse Marinetti a pronunciare, come Apollinaire, il suo proclama ostracizzante nei confronti della frangia formalista, e invece il più febbrile inneggiamento alla frangia vitalista e versoliberista, in cui si coniugavano rottura della sintassi ed esaltazione della macchina. Inutile rievocare, del pari, l’antagonismo franco-italico (o meglio il ritorno del rimosso italico nel mondo culturale francese) se non per notare, nella fattispecie, che l’Accademico d’Italia che fu Marinetti rinnegò il padre del modernismo francese allorché, facendosi interventista, venne a rivendicare, come conseguenza del patriottismo, un’idiosincrasia letteraria nazionale.
Che mai Marinetti abbia potuto, di fatto, sbarazzarsi di Mallarmé (come d’altronde Apollinaire di Marinetti) è quel che si desume da dati oggettivi, forniti con ammirevole dovizia dal curatore Gazzola. Anima del confronto edipico, la traduzione è il segno più tangibile del desiderio mimetico. Alla stregua del pastiche rivendicato e praticato da Proust, l’atto traduttivo è un duello ermeneutico: un corpo a corpo con la parola dell’Altro da cui si esce, il più delle volte, trionfanti come il presente trionfa sul passato. Il quale, come abbiamo visto, è un presente che va perdendo un po’ delle sue forze. Vi è dunque, in Marinetti, come una coazione a tradurre il poeta francese, quasi a condannarlo e redimerlo insieme. Il desiderio mimetico è una simmetria rovesciata: si ama per antagonismo, per via di rivalità. Ed è molto opportunamente che Giuseppe Gazzola, curatore dell’edizione e autore dell’introduzione, convoca la bloomiana anxiety of influence (p. 18) nel ricordare che qui si tratta soprattutto di «una malcelata ansia per un conflitto di attribuzioni» (p. 17). Poiché il desiderio mimetico si scatena a partire da un’omologia di fondo (si desidera ciò che ha un «air de famille») ma basta, come vede Freud, un solo punto in cui tale desiderio possa attecchire, è in un punto in particolare che i due saldamente si appigliano, facendo sì che la battaglia della traduzione possa essere ingaggiata. Al solito, sono le cose a noi più contigue che ci suscitano avversione. È nel contiguo che il sé rifiutato o superato ci tormenta. Così, se Marinetti finiva per rinnegare Mallarmé, ancor più polemicamente ripudiava quel componimento di rottura, il Coup de dés, che tanto gli doveva richiamare alla coscienza i suoi propri desideri di affermazione in campo letterario. Ricorda Carlo Martini, testimone qui chiamato in causa dal curatore: «Guai a ricordargli Un coup de dés» (ibid.). Si trattava ora di sbarazzarsi di quel testo che, pubblicato in volume nel 1914, era divenuto troppo ingombrante. Si trattava ora, altrimenti detto, di affermare ad ogni costo «la razza italiana» di «artisti novatori» contro modelli fin-de-siècle e d’oltralpe, novatori storici che pure inneggiano, anziché alla palingenesi e alla gioventù, alla decrepitezza e alla decadenza. E fu così che, come ancora molto opportunamente nota Gazzolla, i Padri della modernità «furono, letteralmente, i capri espiatori dal cui sacrificio nacque la costruzione della nuova estetica» (p. 18). Tanto che, riporta lo stesso Marinetti, «oggi odiamo dopo averli immensamente amati i nostri gloriosi padri intellettuali: i grandi genî simbolisti Edgard Poe, Baudelaire, Mallarmé», colpevoli di aver nuotato nel fiume del tempo con la testa all’indietro (ibid.). Sta di fatto che «in contraddizione sia con i propri detrattori che con se stesso, Marinetti continuò a leggere e tradurre Mallarmé» (p. 19). Ne uscì l’edizione del 1916, intitolata Versi e Prose e pubblicata dall’Istituto Editoriale Italiano; una versione «da tempo di guerra»: «scarna e senza note» (p. 20). Una nuova versione accresciuta era destinata alla pubblicazione per Mondadori a titolo di risarcimento per un Flaubert mai consegnato. Ma proprio mentre Marinetti si apprestava a seguire Mussolini nelle sue campagne belliche, Arnoldo Mondadori pronunciava la sua parola d’ordine: poneva, per ragioni di convenienza politica, il suo veto alla pubblicazione. I libri di autori francesi erano infatti sgraditi alla propaganda tedesca. E fu così che l’ «appunto in lapis rosso»: «francese - no», doppiamente sottolineato dall’editore (p.30), determinò il fallimento dell’impresa editoriale. Questa seconda versione, rimasta dunque inedita, accresciuta rispetto alla precedente e in parte manoscritta, è stata riscoperta di recente dal curatore, Giuseppe Gazzolla, in una libreria senese (p. 7); ritrovamento cui è seguito un lungo e paziente lavoro di ricostruzione filologica.
In rapporto alla prima versione, segnata dall’allontanamento e lo straniamento, questa seconda versione marinettiana attesta, secondo il curatore, un nuovo «avvicinamento» a Mallarmé (p. 21): Mallarmé è ora nuovamente ritenuto da Marinetti, con un’inattesa concessione, il precursore delle poetiche futuriste. È quel che si desume dalla prima stesura dell’introduzione qui presentata in apertura: «pur sorseggiando con labbra fini l’amore nelle sue forme di squisita ricercatezza», Mallarmé «scaglia (il corsivo è nostro) il suo potente genio visionario e la sua sensibilità tentacolare a mille sfumature fuori e sopra la Francia alla conquista dell’ideale città impossibile» (pp. 27-28 e 37). Si tratta di nuovo, come si vede, di far di Mallarmé un poeta della rottura; un poeta espressionista, non lontano da quella poesia deambulatoria, polidirezionale, che praticheranno un Cendrars o un Apollinaire. Potremmo allora raccomandare l’applicazione, anche a questo specifico caso, della lezione benjaminiana: se la traduzione è la trascendenza stessa di una forma data come precipitato storico (ovvero il suo stesso potenziamento), quel che Marinetti propone di Mallarmé è una sorta di realizzazione intensiva: l’attualizzazione di quanto sarebbe rimasto inespresso e impastoiato nell’anima del vecchio secolo. Liberando una materia eruttiva trattenuta ermeticamente nella forma, e da essa vitrificata, Marinetti riattiva Mallarmé, lo rende futuribile. Ed è alquanto indicativa, nella fattispecie, la riabilitazione del «padre simbolista» come supervisore del baldo atletismo marinettiano: il poeta del Coup de dés assurgerebbe ora al ruolo di allenatore della giovane «squadra» futurista (p. 29). È quanto auspica lo stesso Marinetti allorché conclude, nella stessa introduzione, che il «cerebralismo francese» può attendere ora a una certa «solidità virile» (p. 38). E che «Stefano Mallarmé può allenare utilmente i poeti alla massima follia di balzi fantasiosi immensificando le analogie e accelerando l’immaginazione senza fili». Sta di fatto che questo Mallarmé non nuota più con la testa all’indietro ma sembra lanciarsi, volens nolens, in avanti, sulla avventurosa scia tracciata dal suo stesso lancio di dadi.
La ricaduta in termini traduttivi di questo potenziamento atletico è assai interessante. Il curatore fa notare, con felice messa a punto, che «Marinetti scioglie i nodi metrici» mallarmeani «dipanandoli nella prosa-poesia futurista» (p. 25) limitando al minimo, per il meno traducibile dei poeti, «l’approccio ermeneutico». La soluzione ottenuta è, effettivamente, quella di un prosaismo anonimo, di grado zero: una parafrasi secca, letterale, enuclea ed esplicita (diremmo, in termini mallarmeani: esplica) con voluta piattezza minimalista le preziose implicitazioni mallarmeane presentandole in semplici sequenze paratattiche. Ci piace riprendere un esempio riportato dallo stesso curatore nella sua introduzione (pp. 25-26). Con riferimento a quel manifesto inaugurale della metatestualità che è Salut («Rien, cette écume, vierge vers/À ne designer que la coupe;/ Telle loin se noie une troupe/De sirènes mainte à l’envers») Marinetti sembra proporre una sorta di autoparafrasi: «Nulla soltanto questa schiuma, vergine verso, che serve solamente ad indicare la coppa; così in lontananza una frotta di sirene si annega molte capovolte» (pp. 40-41). In assenza dell’autore, «receduto» dalla sua opera secondo la poetica mallarmeana, si cede ora «l’iniziativa alle parole»; come lasciato a se stesso dall’anonimo testimone, il discorso poetico oscilla tra la riproduzione meccanica e l’autoparodia. Nella ricerca di un provocatorio infantilismo desublimante Marinetti insiste sul registro neutro, o mette a nudo certe velature o attenuazioni di registro: «bêtise» in Les fenêtres è reso ad esempio con «cretineria» (pp. 56-57); «déplumée» con «spennata» in Don du poème (pp. 86-87). Gli fa eco, in Sainte, il celebre «plumage», singolativo astratto diventato «penne» (pp. 106-107); mentre il denominale «dédorer» è letteralmente «sdorato» sia in poesia (Sainte, ibid.) che in prosa (Frisson d’hiver, pp. 128-129). La parola è esposta o per meglio dire esibita nella sua nudità letterale sino al calco palese: nella stessa Frisson d’hiver l’indicazione temporale «treize heures» è resa con «tredici ore»: e Marinetti conosceva troppo bene la lingua di partenza per poterci far credere a una méprise. Il grande gesto di irruente, infantile negligenza salvatrice si coglie proprio in quest’ultimo testo, allorché il «Vilain, tu dis souvent de méchantes choses. / (Je vois des toiles d’araignées au haut de grandes croisées.)» diventa: «Brutto! Tu dici spesso delle cose cattive..../(Vedo dei ragnateli in alto alle grandi finestre».) Questa incuranza ci appare come un rituale catartico: disinvestimento, iniziazione e propiziazione insieme. L’italiano futurista, lingua primeva, vergine e smagliante, sembra voler realizzare, col suo colpo d’ala su una superficie gelata, le attese mallarmeane: quelle del fulgido oggidì («Le vierge, le vivace...», pp.116- 117). Un Mallarmé ammodernato, minimalista, prosaico, e come rinvigorito da un’innocenza e veemenza fanciullesche, sembra ora volersi sbarazzare della sua famigerata coperta a quadri passatista; mirabilmente atletico, rompere la sua ottocentesca crisalide; sciogliere i nodi gordiani del suo dettato e consegnarsi, limpido e dispiegato, al lettorato futuro. «Colla gamba e le braccia, limpido nuotatore infido,/in balzi molteplici, rinnegando il cattivo Amleto!» (Il pagliaccio punito, p. 52-53). La macchina traduttiva marinettiana (in cui ci sembra di poter cogliere qualche anticipazione dei traduttori informatici già messi alla prova da Umberto Eco in Dire quasi la stessa cosa) non sembra tuttavia voler ringiovanire solo Mallarmé. Sembra voler piuttosto rinvigorire l’atto traduttivo, mostrandocelo come un atto non più appropriativo ma, semmai, come un atto d’espropriazione. Con la sua discreta effrazione compiuta su una parola storica e reverenziale, insieme intima e inviolabile, Marinetti sembra attuare il progetto presentista mallarmeano. Nell’anonimato autoriale («Je suis maintenant impersonnel...» come Mallarmé scrive a Cazalis nel 1867) si rivendicava già quella disidentificazione che appariva necessaria per essere traghettati verso il Novecento. Io – aveva detto un contemporaneo, fuggendo dal paese amato e rinnegato in cerca di altre purezze – è un Altro, o forse nessuno.

(Michela Landi)

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