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GIULIO CAMBER BARNI, La Buffa e altre poesie, a cura di Lorenzo Tommasini, prefazione di Walter Chiereghin, con un saggio critico di Fulvio Senardi, Trieste, Il Ponte rosso 2017, pp. 260, € 18,00.  


Le poesie della Buffa di Giulio Camber Barni, pubblicate per la prima volta in dodici puntate sul periodico triestino «L’Emancipazione», a cavallo tra il 1920 e il 1921, e poi raccolte in un volume curato da Virgilio Giotti nel 1935, hanno goduto negli anni di varie riedizioni. Memorabile quella pubblicata da Mondadori nel 1950 con una lunga prefazione di Umberto Saba; molto curata quella di Anita Pittoni per le Edizioni dello Zibaldone nel ’69. Più recentemente (nel 2008) Francesco Cenetiempo se ne è occupato per Il Ramo d’Oro. La nuova edizione curata da Lorenzo Tommasini per Il Ponterosso si propone di valorizzare un autore ingiustamente relegato a una posizione marginale nella cultura italiana e persino nel contesto a lui più pertinente: quello della letteratura della Grande Guerra. D’altronde, se la Buffa – il cui titolo rimanda al soprannome della fanteria italiana – non ha mai goduto di un grande successo di pubblico, né durante la vita dell’autore né dopo la sua morte, è stata comunque confortata da alcuni illustri giudizi critici, come quelli di Giani Stuparich, Giacomo Debenedetti, Umberto Saba ed Eugenio Montale.
A settantacinque anni dalla morte dell’autore e nel centenario dalla fine del conflitto, questa nuova pubblicazione intende qualificarsi per la prima volta come edizione critica. Tommasini, infatti, confronta le due edizioni della Buffa pubblicate in vita dall’autore, quella già citata del 1920-21 sulla rivista «L’Emancipazione» e la prima edizione in volume, emendando il testo da refusi tipografici e dotandolo di un apparato genetico che mette in rilievo alcuni aspetti utili per una reinterpretazione del libro di Camber Barni. La lezione si basa appunto sulla stampa del 1935, considerata la «più compiuta a livello stilistico, espressivo e di riflessione sui contenuti». Accanto all’opera che dà il titolo alla raccolta vengono inoltre presentate due appendici: una che offre le poesie della Buffa pubblicate in rivista ma non accolte in volume; l’altra che raccoglie le liriche tratte da Anima di frontiera, uscite postume nel 1966 a cura di Vanni Scheiwiller.
Lo scrupoloso lavoro filologico è accompagnato da due saggi che approfondiscono in maniera puntuale la storia e la genesi del testo: un’introduzione dello stesso curatore e una postfazione scritta da Fulvio Senardi, critico che a più riprese si è occupato di autori giuliani. Si tratta di due contributi molto rilevanti poiché propongono un’interpretazione rinnovata dell’autore e della sua opera. Giulio Camber, nato a Trieste nel 1891, mutò il suo cognome in Barni dopo aver disertato l’esercito asburgico ed essersi arruolato volontario in quello italiano. Negli anni precedenti lo scoppio della guerra aveva aderito a un irredentismo di stampo mazziniano, professato a Trieste da un gruppo di repubblicani che invocavano il compimento del processo risorgimentale, mossi da ideali di libertà e fratellanza fra popoli. Questo gruppo trovava proprio nell’«Emancipazione» un importante luogo di incontro e di dibattito. Non a caso è Scipio Slataper, in una delle sue Lettere triestine, a sottolineare l’importanza di questa rivista, definendola la sola a Trieste che fosse animata dall’«ansia bollente di un entusiasmo» e dalla «fede di una gioventù» per molti versi accostabili ai tratti con cui aveva immaginato la «Voce»: uno strumento di formazione etico-politica per un ceto intellettuale che potesse proporsi quale nuova classe dirigente. Camber Barni, perciò, costruisce i propri ideali morali e sociali ispirandosi all’ambiente vociano- fiorentino, e in particolare giovandosi della frequentazione dei fratelli Stuparich, pure loro orbitanti attorno alla couche intellettuale dell’«Emancipazione».
Dai due saggi, allora, emerge un Barni “irredento e colto”, che oltrepassa le interpretazioni di matrice biografica formulate da Saba, in particolare la nozione di “poeta di popolo” contenuta nella famosa prefazione alla Buffa (scritta nel ’46 ma uscita solo nel ’50 con il titolo Di questo libro e di un altro mondo) e successivamente affermatasi in gran parte della critica. L’idea sabiana di un uomo «d’azione» più che «di riflessione», i cui scritti testimonierebbero una «semplicità ignara di sé e della propria efficacia», è un altro dei pregiudizi che questa nuova edizione contribuisce a sconfessare. Il confronto tra i testi in rivista e quelli in volume ha infatti permesso di sottolineare come nel ’35 l’autore giunga a una diversa considerazione della propria opera letteraria, mostrandosi più attento all’affinamento del risultato poetico. In altre parole, i componimenti della “seconda” Buffa testimoniano una maggiore disposizione letteraria e uno sforzo di aggiornamento culturale, ponendoci di fronte ad un poeta che parte dalla tradizione per cercare nuove vie, cioè per tentare un rinnovamento linguistico e formale. Già Carlo Muscetta nel 1950 aveva parlato di una poesia di stile popolaresco, ingenuo e spontaneo, ma non incolta, data la presenza di «certi umori del primo Palazzeschi e di altri scrittori fiorentini di avanguardia», concordando così con l’opinione debenedettiana di una «contaminazione fra la poesia dotta […] e la poesia popolare». A questi giudizi si aggiunge la formula espressa nello stesso 1950 da Montale, che – reagendo allo scritto di Saba – rintracciava nella Buffa i caratteri della «poesia popolaresca, ben diversa dalla poesia popolare», poiché non priva di moderni artifici. Più recentemente Senardi, nel saggio Scrittori giuliani nella Grande Guerra, ha scorto in Barni «una consuetudine al verso, ma con uno spirito goliardico», con una definizione che tiene insieme le peculiarità dell’uomo e quelle del letterato.
Camber Barni, quindi, è un autore che ha poco a che vedere con l’uomo di sola azione tratteggiato da Saba, che riteneva le poesie della Buffa composte immediatamente in trincea. Ciò è dimostrato da quel processo di rielaborazione e affinamento a cui si è già fatto cenno, volto a costruire strutture retoricamente più elaborate e a ricercare un più accurato ordine strofico e versale. A questa revisione di natura formale se ne affianca una di natura contenutistica e prospettica, finalizzata a dare maggior risalto a una rappresentazione propriamente corale attraverso una soluzione stilistica pressoché unica nel panorama della lirica italiana della Grande Guerra. Il “noi”, infatti, è raccontato attraverso un concerto plurilinguistico in cui l’autore diventa semplice voce di una vicenda collettiva che lo comprende e lo rispecchia. Il poeta presenta empaticamente episodi e comportamenti di uomini quotidianamente confrontati con un’esperienza tragica, senza però ricorrere a toni di denuncia né a crude descrizioni, anzi conservando l’immagine della guerra come azione romantica, dura necessità a cui lui e i suoi commilitoni non vogliono sottrarsi, in quanto mossi da un assillo etico e da un grande senso del dovere.

(Stefano Minotti)

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