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DANTE ALIGHIERI, Convivio, Monarchia, Epistole, Egloghe, a cura di Gianfranco Fioravanti, Claudio Giunta, Diego Quaglioni, Claudia Villa, Gabriella Albanese, Milano, Mondadori (‘I Meridiani’), 2014, pp. CXVI- 1876, € 65,00.

in: Semicerchio LI (2014/2) Per Seamus Heaney, pp. 95 - 97


Se si potesse applicare il principio di indeterminazione di Heisenberg alla letteratura, gli studi sull’opera di Dante ne fornirebbero la dimostrazione più convincente. Negli ultimi anni un profluvio di iniziative meritorie, che scaldano i motori per le celebrazioni del 2021, ha prodotto un esercito di nuove ricerche e soprattutto di nuove edizioni delle sue opere ‘minori’: lo attestano la collana commentata della Salerno Editrice, il volume Polistampa del 2012 che aggiorna quella della Società Dantesca, le Epistole – Ecloge – Questio brillantemente curate da Manlio Pastore Stocchi per Antenore sempre nel 2012, e l’imponente edizione ‘Meridiani’ diretta da Marco Santagata che ha appena prodotto il secondo volume, con testi e commenti di Convivio, Monarchia, Epistole, Egloge (1863 pagine!). E altri se ne annunciano e se ne progetteranno, in una proliferazione entusiasta, generosa e incontrollabile ormai giunta appunto alla soglia di indeterminazione, cioè di impossibilità di verifica e utilizzo aggiornato anche da parte di un dantista professionale. Lo prova il fatto che la Monarchia di questo ‘Meridiano’, sontuosamente curata da Diego Quaglioni, non ha fatto in tempo a tener conto dell’edizione 2013 di Chiesa e Tabarroni (e viceversa, ovviamente), così come le Epistole, ivi edite da Claudia Villa, e le Egloge da Gabriella Albanese sono state consegnate prima che si potesse consultare il volume di Pastore Stocchi e dialogare con le sue conclusioni. Questo vale, moltiplicato per mille, per dettagli dei commenti, fonti, riferimenti: di termini danteschi che un commento dichiara mai attestati si documentano altrove i precedenti, fonti usate in una pubblicazione non sono nemmeno sospettate in un’altra; di luoghi, come Arezzo o il Casentino, dove si pensava che Dante non potesse aver trovato biblioteche adeguate alla composizione di un’opera vengono identificati continuamente centri di cultura e autori e maestri e fondi librari, così come alla luce dei riflettori filologici sta emergendo una storia dell’ecloga medievale ben anteriore a Dante e di qualità talvolta non minore di quelle di Giovanni del Virgilio: questo potrebbe indurre gli studiosi a rivisitare i cliché sull’innovazione dantesca e a ‘scoprire’ i tanti Titiri che abitano l’età di mezzo, abitualmente trascurati da chi attribuisce a Dante una mentalità umanistica nonostante l’avviso, illuminato, di Santagata che di Dante non esita a ribadire il «radicale anticlassicismo». Convegni come quelli del 2014 a Ginevra sugli autocommenti medievali o a Lione sulla concezione del tempo nel medioevo o a Mainz sui generi elegiaco e bucolico in età antica e medievale aggiungeranno certamente altri dati ignoti agli studi precedenti. Insomma: l’emersione di elementi nuovi è continua e in un panorama come quello delle opere dantesche, dove ogni riferimento cronologico e spesso anche culturale è ipotetico, ne risulta un quadro estremamente mobile che richiederebbe una sorta di ipertesto continuo di natura digitale, permanentemente aperto a integrazioni e correzioni dei tanti «sicuramente» e «certamente» sparsi con scarsa cautela nelle pagine degli studi: una sorta di metacommento che affiancherebbe e sintetizzerebbe la (peraltro benemerita) sventagliata di lavori spesso notevoli condotti in parallelo da studiosi quasi sempre impossibilitati a dialogare fra loro e addirittura, come dichiara uno di essi, programmaticamente impegnati a evitare di «discutere soluzioni altrui» proprio per ragioni di economia dei dati: si pone dunque, come e più che per altri grandi classici, un problema di governabilità bibliografica delle ricerche in corso e dei loro risultati. Questa sorta di smarrimento critico si verifica vistosamente sulle questioni di autenticità delle opere dubbie (il Fiore, la seconda parte dell’Epistola a Cangrande, la Questio), che periodicamente riaffiorano dopo definizioni apparentemente ultimative, per le quali molto spesso si assiste a una dichiarazione di resa dei singoli studiosi dinanzi all’ingestibilità dei numerosi argomenti e di resistenza o forse desistenza del singolo specialista sui binari di soluzioni convenzionali. Tutto questo sforzo, come testimonia onestamente Santagata, non riesce ancora a evitare che, «se si eccettuano alcune epistole […], la Questio (se autentica) e uno sparuto gruppetto di rime, tutti gli scritti di Dante sono di datazione congetturale. E in molti casi si tratta di congetture con un ampio arco di oscillazione».
Eppure, proprio come accade col principio di indeterminazione, che non impedisce al mondo fisico di funzionare, anche in questo caso ognuna di queste pubblicazioni come per un assestamento spontaneo apporta un contributo specifico che non si sovrappone se non in minima parte a quello di altri ma vi si integra in una sintesi ideale affidata al lettore paziente: in questo ‘Meridiano’, ad esempio, del Convivio curato da Gianfranco Fioravanti sul testo di Ageno 1995 si mette bene in risalto la sinergia fra l’opposizione ai chierici universitari contro cui Dante si schiera e l’infrazione del monopolio linguistico del latino da essi rivendicato. Questa sinergia è interpretata come manifestazione di un progetto rivoluzionario e apparentemente ‘democratico’, come lo era stata la moltiplicazione dei pani e dei pesci cui Dante stesso la paragona, e si rivolge a un pubblico colto ma non professionale, impegnato nella ‘cura familiare o civile’, di cui Fioravanti non esita a dipanare magistralmente le possibili – poco democratiche, agli occhi di oggi – coincidenze con parte del ceto aristocratico basato sulla rendita fondiaria. Chiave di questo nodo è la questione della nobiltà, che Dante riprende dalla trattatistica latina dell’epoca, e su cui – come su tanti altri problemi interpretativi – fa sempre luce lo studio del compianto Umberto Carpi su La nobiltà di Dante (2004), le cui citazioni percorrono come un’ombra benevola tutte le pagine di questo meridiano e che, come scrive Santagata nell’ultimo numero della rivista «Per leggere», si sta rivelando «uno dei quattro o cinque libri più importanti che siano mai stati scritti sulla Commedia». Altrettanto preziose le notazioni di Claudio Giunta nel commento alle canzoni, soprattutto quelle di tipo linguistico che peraltro sono destinate ad ampliarsi con l’espansione vertiginosa delle conoscenze sul latino medievale: ad esempio, la definizione di nobiltà come accumulo di ricchezze nel tempo (antiquatae divitiae), che si faceva risalire ora a Peraldo ora ad Alberto Magno, è ora probabilmente identificabile come Egidio Romano De regimine principum grazie alla banca dati ALIM che ha messo on line da pochi mesi l’edizione del 1607.
Analogamente, il commento di Diego Quaglioni alla Monarchia – presentata in una revisione critica dell’edizione Shaw – riesce, senza averlo programmato, a non sovrapporsi quasi mai a quello simultaneo di Chiesa-Tabarroni perché sceglie di esplorare con competenza finissima soprattutto il complesso retroterra giuridico e ‘politologico’, anche ricorrendo a preziose trascrizioni di fonti inedite da manoscritti. Esemplare è la discussione di metodo sui criteri finora adottati per la datazione, che serve da ampia e approfondita guida agli studi dell’ultimo secolo sul testo, anche se non sempre si può accettare con facilità a questo scopo la congettura di errori d’archetipo. La conclusione del curatore, secondo cui la Monarchia ha fornito un contributo decisivo all’elaborazione del concetto di sovranità politica poi così influente nelle concezioni moderne, coglie un punto fondamentale degli studi recenti.
La presentazione delle brevi e ancora misteriose Epistole, che dobbiamo a Claudia Villa, offre anch’essa intuizioni critiche inedite: ad esempio nel confronto con il quasi coevo Geri d’Arezzo, preumanista noto proprio come primo autore di epistolografia di tipo ‘classico’ – mentre Dante segue rigorosamente le regole dell’ars dictandi medievale – la Villa sottolinea una sorta di classicismo ‘profondo’ di Dante, che usa meno fonti antiche ma in forma più sottile e penetrante, a fronte del mimetismo algido, come sarà appunto quello degli umanisti, rilevato in Geri. Ma l’aspetto più innovativo di questa sezione è forse l’individuazione dell’interdiscorsività propagandistica che permea l’epistolografia di Dante e non solo, costituendo una specie di metalinguaggio politologico dell’epoca in stretto rapporto con la Monarchia e le sue fonti. Il testo, in attesa di una nuova edizione che porterà novità importanti specie se metterà a frutto anche le conoscenze di epistolografia medievale e di storia dei Conti Guidi, ora in tumultuoso sviluppo, è sempre quello di Ermenegildo Pistelli (1921): fa eccezione la lettera a Cangrande, che si avvale dell’edizione Cecchini, condividendone in sostanza anche l’attribuzione a Dante – recentemente rimessa in discussione da Casadei con argomenti di peso – della celeberrima seconda parte del testo, quella dove l’autore illustra i principi di interpretazione polisemica della Commedia. Nel commento si nascondono spesso gioiellini saggistici, come in quello all’epistola IV che include una dotta introduzione alla canzone ‘montanina’ Amor, da che convien. Le due ecloghe, con cui Dante respinge con sovrano distacco gli inviti dell’ottuso maestro bolognese Giovanni del Virgilio a cimentarsi nella scrittura in latino, sono valorizzate infine da Gabriella Albanese, come già da Pastore Stocchi, come l’unica prova di scrittura poetica in latino di Dante: l’autore della Commedia si era mantenuto sempre distante dai circoli cosiddetti preumanistici, come quello di Padova, consapevole della superiorità della sua cultura solidamente medievale e della sua scelta linguistica non compatibile con atteggiamenti neoclassicisti, eppure proprio con il recupero virgiliano del genere bucolico, che (come mostrano gli studi da Klopsch a Bartoli) nel Medioevo era ampiamente attestato ma aveva subito incisive ristrutturazioni, inaugura una ripresa destinata, grazie alla canonizzazione che ne fa Boccaccio e al rilancio operatone da Petrarca, a diventare un cardine del sistema letterario europeo come linguaggio principe del registro metaletterario. Anche su questi versi, come su tutta l’opera dantesca e anche boccacciana e petrachesca, il grande rinnovamento delle conoscenze sta venendo e potrà ulteriormente svilupparsi soprattutto dall’affiorare di nuove fonti mediolatine, un patrimonio immenso di testi finora spesso inaccessibili, poco editi e ancor meno tradotti, che stanno senza alcun dubbio dietro la formazione dantesca e la cui misconoscenza ha generato fin qui inevitabili ricerche a tentoni, fraintendimenti e abbagli.
Anche in questo caso, il testo critico che la stessa Albanese prepara nell’Edizione nazionale potrà sciogliere molti dei residui ma cruciali dubbi ermeneutici e aiutarci a ulteriormente il sorprendente latino di Dante (e di del Virgilio), legnoso e sgraziato anche nella prosodia ma straordinariamente ricco di apparenti neologismi (spesso termini non conosciuti per mancanza di edizioni degli autori precedenti), evidenziandone la continuità profonda con la cultura mediolatina: lo testimonia l’inizio dell’ecloga II, dove Dante comincia con un’allusione alle lettere nere vergate su foglio bianco che riprende un’immagine diffusissima negli indovinelli medievali (compreso quello sulle ‘sorelle nere’ nate in candidi spazi, erroneamente pubblicato da Riese come testo tardoantico dell’Anthologia Latina, in realtà Aenigmata Bernensia del VII-VIII secolo), che ricordiamo gustosamente tradotto in un’antologia Bompiani da Valerio Magrelli come segnale di autorappresentazione del materiale scrittorio e dunque dell’attività poetica. Dante reinterpreta questa immagine, divenuta usuale fino all’Indovinello Veronese, come simbolo dei canti ‘stillati dal seno delle Muse’. Una figurazione, quest’ultima, che è sembrata un’invenzione dantesca senza precedenti. Chi riuscirà a scoprirne la fonte medievale?

(Francesco Stella)

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