« indietro KAREL HYNEK MÁCHA, Maggio, a cura di Annalisa Cosentino, traduzione di Alessandra Mura, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 116, € 12,00.
in: Semicerchio LI (2014/2) Per Seamus Heaney, pp. 97 - 98 A lungo si è fatta attendere la riedizione di Maggio, ottocentesco capolavoro poetico della letteratura ceca, testo con cui ogni verseggiatore di questa tradizione è chiamato a confrontarsi, opera su cui ancora oggi convergono infiniti vettori di rimandi, contrapposizioni, citazioni e burle provenienti da ogni campo della vita culturale ceca, dall’arte letteraria a quella figurativa, dal teatro e dal cinema fino alla danza. Può quindi risultare paradossale lo scarto tra l’indiscussa centralità di questo poemetto, tanto breve quanto denso di immagini, temi e suggestioni, e la sua evidente difficoltà nel trovare spazio all’interno del panorama italiano, per altri aspetti così attento a una letteratura, quella boema, di cui ha imparato a cogliere e apprezzare una vasta pluralità di spunti. A colmare finalmente questo vuoto è l’iniziativa editoriale di Marsilio, che nel 2013 sceglie proprio questo titolo per inaugurare la collana di classici centroeuropei ‘Gli Anemoni’, concedendo spazio e nuova voce alla sventurata storia d’amore tra Jarmila e Vilém, il brigante condannato al patibolo per un omicidio che assume la forma di una duplice vendetta. Il seduttore della fanciulla è infatti il padre dell’amato, colpevole di avere scacciato il figlio di casa, costringendolo a rifugiarsi nei boschi, in quella natura che è teatro di delitti e incontri amorosi, testimone impassibile di passione e di morte. Proporre a un ampio pubblico un’opera pressoché sconosciuta di poesia romantica straniera può apparire oggi un rischio audace, se non addirittura un capriccio dei cultori della materia. Certo, se Karel Hynek Mácha (1810-1836) fosse davvero il giovane eroe dal tragico destino che il mito dipinge, e se Maggio fosse il frutto di un particolarismo culturale, o la semplice rielaborazione di un modello invalso, veicolato magari da un linguaggio aulico e da una retorica di stampo patriottico, sarebbe più che lecito sospettare della validità del suggerimento. Né Mácha né Maggio, però, corrispondono a queste rappresentazioni. L’indagine sull’autore rivela non solo una personalità complessa, a lungo oggetto di disquisizioni di carattere psicanalitico, ma anche una vasta formazione letteraria e una certa riluttanza a piegarsi alle rivendicazioni nazionalistiche dell’epoca. Il poema stesso si apre con una dedica solo all’apparenza conforme allo spirito risorgimentale («Il popolo ceco è un popolo buono»), e più probabilmente carica di uno spiccato accento ironico, ancora più evidente nella sua discordanza rispetto ai versi successivi, eleganti, armoniosi e al contempo struggenti, appassionati. Sullo sfondo di una natura a tratti soave e ad altri cupa, tra specchi d’acqua lucenti, precipizi e vette ricoperte di rigogliosa vegetazione, Maggio non celebra quindi l’amore di patria, ma l’amore cosmico, che trascende l’esperienza individuale per sfumare nell’infinito, eterno come il nulla, come l’ultimo sonno, come l’incessante riproporsi di un’esuberante primavera. Nei quattro canti di cui è composta l’opera si assiste a un crescendo della tensione che, attraverso il suicidio di Jarmila e la tormentata veglia di Vilém, culmina con l’esecuzione del prigioniero, con il suo definitivo congedo dalla vita, dalla terra natia, da un amore di cui il poeta potrà solo cogliere l’eredità, entrando con il suo alter ego, il viandante Hynek, sulla scena del canto finale. Il flusso della narrazione poetica è inoltre scandito da due intermezzi di carattere corale, in cui intervengono prima gli spiriti del cimitero, in attesa di accogliere un nuovo seppellito, poi i briganti, rimasti orfani del proprio condottiero. Così orchestrata, la drammatica vicenda degli infelici amanti prende vita attraverso affascinanti visioni simboliche, sostenuta dalla forza musicale del verso prevalentemente giambico, fresco e moderno nel suo superamento della più naturale tendenza trocaica della lingua ceca. Ne deriva uno slancio creativo atipico, una genuina spinta innovatrice capace di sostituire al tentativo preromantico di ricerca e affermazione dell’elemento nazionale la piena espressione di una poetica originale, in grado di misurarsi con le altre tradizioni europee. Se in Italia la prima pubblicazione integrale dei diari intimi, e particolarmente scottanti, dell’autore (Un poeta romantico ceco. Prose autobiografiche di K. H. Mácha a cura di Alena Wildová Tosi, Venezia, 1976) aveva attirato l’attenzione sulla figura enigmatica di Mácha in quanto ‘uomo lacerato’, l’ultima versione italiana di Maggio, la sua opera fondamentale, risaliva ancora al 1950. La complessità del testo, con il suo fittissimo tessuto fonico impiantato su una struttura di coraggiose scelte prosodiche, ha forse contribuito a frenare l’impeto traduttivo, ma, d’altro canto, non ha mai cessato di ammaliare coloro che si sono potuti accostare alla tragica storia di Vilém e Jarmila, condensata in questi versi dall’incredibile potenza lirica. L’efficacia delle figure simboliche e il ritmo sapientemente calibrato accompagnano il lettore in una narrazione che apre alla meditazione filosofica, ovvero al 98 LI 02/2014 Rassegna di poesia internazionale Poesia greca dissolversi della vita umana nell’ineluttabile contemplazione del vuoto, unica dimensione in cui amore e morte finiscono per congiungersi. «Il teschio ghignante di Mácha, cantore dell’‘eterno nulla’ e delle girandole della natura fantasima e dell’implacabile fuga delle cose terrene, si colloca accanto alle teste nocchiute delle statue di santi barocche», osserva nel suo Praga Magica Angelo Maria Ripellino (Torino 1973), individuando nel turbinio di particolari macabri la chiara ascendenza seicentesca di queste immagini così nettamente contrastanti con la gioiosa vitalità trasmessa dalla natura primaverile. Per quanto indifferente alle vicende umane, il maggio che ciclicamente torna a riaffermare la propria bellezza non si mostra mai crudele nei confronti dei mortali, che godono, anzi, del suo piacevole tocco, capace di impreziosire i fuggevoli istanti di un’esistenza transitoria. Mentre la traiettoria della vita di ogni individuo è segnata, diretta verso il declino, l’infinito reiterarsi delle stagioni scorta la memoria umana nella rievocazione del passato, come avviene per il poeta, pellegrino nella sua stessa opera, giunto sulla collina che ha visto anni prima l’esecuzione di Vilém, «terrore dei boschi». E così come nel mondo il risveglio della natura si ripete senza sosta, nel poema ritornano, in più forme e variazioni, i versi dell’incipit, in assoluto i più celebri della storia letteraria ceca: «È tarda sera – il primo di maggio – / una sera di maggio – tempo d’amore. / Chiama all’amore un canto di tortora, / là dove i pini profumano il bosco». Oltre a scandire la successione dei canti, collegando tra loro i diversi momenti del racconto, queste varianti dei più noti versi máchiani hanno ispirato studi linguistici e letterari di grandissimo pregio, su tutti il saggio di Roman Jakobson Il verso di Mácha sul richiamo della tortora (1960). Sull’approccio strutturalista a Maggio e sull’eredità máchiana accolta dal surrealismo ceco si sofferma l’introduzione di Annalisa Cosentino in una rassegna storica sulla ricezione e interpretazione del poema che lascia intravedere la portata monumentale della letteratura critica sull’opera. Il saggio della curatrice, che sulla simbologia dei colori ricama un’inedita analisi stilistica di Maggio, informa inoltre il lettore sugli elementi che inevitabilmente vanno persi nella trasposizione in italiano, per esempio gli echi trasmessi dai nomi dei personaggi e il gioco di richiami che essi innescano, coinvolgendo i nuclei fondamentali della riflessione dell’autore: amore, colpa, morte. Puntando sulla spontanea musicalità di una lingua viva, epurata dall’uso di rime ritrite, termini aulici e ritmi estranei alla tradizione poetica italiana, la traduzione di Alessandra Mura risponde all’innovazione ceca del giambo máchiano con l’utilizzo preferenziale dell’endecasillabo sciolto, arricchito da un folto intreccio di allitterazioni, paronomasie e assonanze («E se non fu mia volontà di compiere / quell’atto, perché devo morire / di morte orrenda, precoce, eterna? / Ora e in eterno – Eterna – l’ora –»). Mentre in questa trama di suoni e colori si ravviva e si rinnova il paesaggio romantico boemo, ornato da riflessi alpini e veneziani raccolti dal poeta nel suo peregrinare, con il fine volumetto di Marsilio torna a fiorire, dopo un lungo inverno, un nuovo Maggio italiano. (Eleonora Bentivogli) ¬ top of page |
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