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ANNA CASCELLA LUCIANI, Tutte le poesie. 1973-2009, Roma, Gaffi, 2011, pp. 768, € 25,00.



Bisognerebbe tenere sempre divisi ragione e sentimento, per evitare che l’una finisca col plagiare l’altro e viceversa: un discorso ineludibile, certo, ma meno ovvio quando ragione e sentimento sembrano – assieme – i fondamenti di una poesia. Una, e non genericamente della poesia, perché il volume pubblicato da Gaffi quasi quattro anni fa di Tutte le poesie di Anna Cascella Luciani racconta di trentasei anni di poesia e di versi vissuti come supplemento alla vita, come protesi del pensiero e come alibi, altrove dell’esistenza stessa. Va da sé che ogni tentativo di mediazione tra poesia ed esperienza risulta eccessivo e insufficiente a descrivere una mole di testi che ricopre oltre 700 pagine: occorre tuttavia tentare un breve compendio, che guidi verso la definizione di un percorso nato e accresciuto per concrezioni e aggiunte, dove le parti mai si sovrappongono in maniera identica, risultando più spesso variazioni dell’uguale. È forse la matrice latina e classica, rilevata da Massimo Onofri nell’introduzione al volume, a confermare quanto detto, specie se si fa riferimento alla ‘facilità’ – in tutto ineccepibile – con cui si esprimeva il canto degli antichi: una considerazione all’apparenza scontata, ma che bene si abbina alle parole di Onofri, quando dice che «se la vita si vanifica nel niente dei suoi tesori, sarà comunque l’evidenza della musica a replicarne le verità, a consentirne, per via di prosodia, la consistenza» (p. 15). Leggiamo, dunque, Tesoro da nulla, raccolta nella sezione Migrazioni (che contiene poesia datate tra il 1977 e il 1982), ma che a un orecchio avvisato richiama il titolo dell’omonimo libretto uscito per Scheiwiller nel 1990, a breve distanza dalla vittoria del Premio intitolato a Laura Nobile:

«tesoro da nulla tesoro / da cento campane / tesoro che sbuccia / e rimane tesoro / che infila una gruccia / che mette quaranta / stampelle che impasta / l’anello di pane / tesoro dai cento / vestiti tesoro di neve / più bianca che l’onda / del mare rimanda / tesoro di vetro / e cristallo che spezza / i cento smerigli tesoro / di mille scoiattoli / in fuga di rami scoperti / del nulla che bruca / l’alisso viola tesoro / che corre e che taglia / la bruna canora punta / dell’ora che intinge / il piede e lo prende / per molto, tesoro / tesoro tesoro» (p. 151).

Ci sembra questo un caso evidente, per cui l’improvviso sottende ciascuna qualità della scrittura, specialmente quella «cantabilità» (ricordata ancora da Onofri) che sempre vira dalla concinnitas degli strumenti (retorici e sintattitici: allitterazioni, inversioni, riprese, anafore e quant’altro) verso l’esorcismo della parola. I nomi che s’intersecano nel cielo di questa poetessa sono quelli più o meno evidenti di Saba, Penna, Caproni, Giudici, mediati dal rigore di certo Fortini: personaggio chiave, quest’ultimo, nella vicenda poetica di Anna Cascella, a partire almeno dall’inserimento tra i Nuovi poeti italiani 1 (Einaudi 1980) che le conferisce una prima e significativa visibilità, nonostante le alterne vicende che poi s’imporranno sul suo destino. Tentando tuttavia di non incappare in una prigione di mere referenzialità o relazioni, cerchiamo di cogliere, dopo le ascendenze di una pur lecita costellazione, gli esiti più alti di tutto il cammino: Onofri, in particolare, si lancia nella definizione di Tutte le oscurità del verde (1996-2005) come «uno dei picchi della poesia italiana di questi anni»; potremmo almeno elencare alcune indicazioni di merito. Lo stile sapienziale e sottile, duttile fino all’aforisma e al motto d’arguzia o all’ironia della sentenza («per l’inganno del clima / le gemme soffriranno – / così soffre la vita / per l’inganno –», p. 493), si connota di quell’esilità che riesce a reggere tutti i tempi, fino al fiato del racconto (l’epopea familiare à la Bertolucci, narrata all’interno della sezione La vita negli orli), mentre in immagine viene doppiata la distanza del mito nella definizione più lampante dell’essere, con un movimento che decentra sentimenti e ricordi e li conduce verso i margini della loro essenza elementare. E così, in (eros) si legge: «perenne è il tempo – fluttuando tra vita e morte / e senso – significato / compiuto da un momento – / attimo che ripete ogni / suo tempo» (p. 488). Dunque l’istante, il momento supremo oraziano, il moto del tempo che diventa motto, spinta, ma più spesso si potrebbe dire che sia la pastosità verbale, la renitenza della parola a trascendere il valore di se stessa, a calcolare la resistenza di certe inflessioni e il valore stesso di questa voce, sicuramente tesa sul versante del verso: «nel gelo che perdura / scrivo una poesia – / perduta anima / mia – calore divaricato / su fiato e malattia – amore derubato – / giallo di giunchiglia – / profumo che ritorna – / diaspro – tempio – forma –» (p. 589). Non un segno di facile impressionismo, né tantomeno autobiografia, ma mediazione continua tra capacità d’espressione, cultura e vita, attivate nella svolta di versi non precipitanti gli uni sugli altri, ma che vivono di una loro tensione particolare, che risiede in parte nella pronuncia e in parte nella sostanza della loro autenticità.

(Marco Corsi)

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