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GUIDO MONTI, Fa freddo nella storia, Azzate, Stampa 2009, 2014, pp. 74, € 12,00.


Si esce dalla prima lettura del nuovo libro di Guido Monti (che è quella che conta, le nuove approfondendo l’emozione metrica) con la convinzione lieta del suo valore; la lingua di questa ‘cronica’, quasi una cronica di Bologna, come nella poesia Osteria del sole: «noi traversando del novecento ultimo di Bologna / questo suo concorde concènto di finissima civiltà / di uomo su uomo arrangiata, come sonata sul riso», si sgrana nella forma del canzoniere epicizzante, con prudente scioltezza, dal surplace alla corsa veloce, dalle liriche narranti e figurate agli scioltissimi poemetti finali, sui miti personali, poetici e ciclistici, letterari e paterni. Sembra un libro sui padri, anche, sul loro caldo cappotto, sulla nostra storia gelata, sopra le nostre fragili spalle di postumi novecenteschi: Scalia, Caproni, Giudici, i pittori concreti, da Morandi a Rosai, gli amici scrittori da Bertoni a Cucchi, i campioni sportivi del suo mito, da Bartali a Saronni, il guerriero dalle bande nere; lentamente la lirica privata e la memoria ossessionata dalla sparizione dei testimoni, si sfilano verso l’epica del personaggio che prende il posto dell’autore lirico. Il realismo, secondo Pasternak, è questo oltrepassamento dell’indirizzo letterario, della corrente precostituita, non essendo invece forse nient’altro che «un grado di artisticità, il livello più alto della precisione di un autore»; precisi sono i contorni di questo cinema evocativo, preciso il lessico del paesaggio emiliano, la compresenza dei suoi tempi storici, l’evocazione «dell’era dell’ultra capitale», che ci perseguita senza posa, e del mondo medievale e contadino, con la fitta memoriale dell’infanzia, inerme e pugnace. Giovanni, Elda, Francesca, il Marco sparito di Berlino, il prete del dialogo del «Temp…», con le proiezioni nobili dei campioni e degli artisti, sono figure buone e memorabili, che l’incalzante finale riconvoca alla ‘sparizione scongiurata’, nel personaggio del poeta Giovanni forse Giudici, disorientato e veridico, allegoria delle voci interiori in subbuglio; e poi la metrica, si direbbe roversiana, doppio settenario o doppio ottonario, esametro con sei accenti forti, che vira la lirica in poema. Si apprezza quindi il lavoro che Monti ha compiuto forse in dialogo con altri autori anche sul versante stilistico. Non c’è più quella frase slentata, troppo prosa-prosa, troppo lunga, come a volte accade nella plaquette del 2008 Eri Bartali nel gioco o troppo franta come ricordo in Millenario inverno, ma una forma (che Cucchi nella nota introduttiva chiama «materica», originale), e che forse poi tanto originale non è, se l’impeto dell’esametro, come si accennava, pare ricomporre una metrica barbara e carducciana, profondamente radicata nella tradizione emiliana, fino a Delfini, se non ci sbagliamo; irregolare, ma non troppo, se si conta sempre una costante di sedici sillabe, quindici, diciotto, in cui ballano i sottomultipli degli emistichi ‘barbarici’, settenario, ottonario, novenario, liberamente combinati per il flusso, a nostro avviso, filmico, sempre da inquadratura o piano-sequenza, passeggiata per l’audio, incontro, memoria scolpita come in Vite (Bartali vs Bobet): «e Bartali ce l’hai sempre in testa? nel gioco di gambe / te l’ho mimato, alzava la testa solo per guardare il cielo come quella volta sul Mont Ventoux». Questa forma metrica insomma pare il vero mito e il racconto dello spasmo memoriale, che si fa durata: una gran tappa, vinta, con tutti gli applausi del caso.


(Gianni D’Elia)

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