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VINCENZO OSTUNI, Faldone zero-trentanove. Estratti 2007-2010, I, Torino, Nino Aragno, pp. 104, € 8,00.


         Del progetto di lungo corso iniziato nel 2004 da Ostuni sulle proprie scritture poetiche (includendo testi che vanno dai primi anni Novanta) abbiamo i materiali completi depositati in un sito internet (www.faldone.it), configurato come una sorta di «canzoniere telematico» (così A. Cortellessa, nella quarta di copertina). È solo apparentemente paradossale che il titolo generale del progetto, Faldone (che è poi anche quello dei singoli pezzi, dotati di titolo ma comunque numerati progressivamente) rimandi a un oggetto archivistico che appartiene a un universo completamente cartaceo. Il progetto di mandare tutta la propria vita in versi e in archivio è un gesto paragonabile, per esempio, all’opera di una Sophie Calle con la differenza fondamentale, certo, dell’unicità e unidimensionalità del supporto qui praticato, la scrittura. Si tratta infatti di un universo di scaffali virtuali saturi di autotestimonianza disposti in modo che la loro concettualizzazione rimanga volutamente non compiuta e provvisoria. Il loro periodico passaggio alla forma libro (il presente Faldone è il terzo a stampa del suo genere) permette una parziale esposizione per nuclei tematici il cui accostamento, come ha scritto Daniele Claudi (in «Semicerchio», 48-49, 2013), si dà secondo i termini benjaminiani del ‘montaggio’ da cui emerge «una costruzione a priori: nell’intreccio di documentazione e costruzione […] una costellazione di documenti che contengono già in sé forme di sviluppo e un interno legame». In questo Faldone, molti dei referti archiviati portano su esplorazioni di carattere etologico e para-scientifico. Particolare risalto ha la riflessione iniziale di La specie, somma di esplorazioni socio-scientifiche dove si considerano lo habitat («La densità di oggetti nelle case moderne è un esperimento in natura per la storia della specie avvenire ») e chi ci si muove, i «cospecifici», cioè gli uomini, bella sostantivazione in una formula che vale come primo esempio di détournement di lessico scientifico che percorre tutto il ‘libro’. Il valore di tali innesti è comunque più quello di scoprire il nervo poetico che di insistere sull’ibridazione con il linguaggio scientifico: si va dal «sonno mutacico» (uno stato di afasia), alla «cinestesia» del gesto scrittorio («la cinestesia pungente del mio sporgermi / mentre ti penso e scrivo»), alla stretta di un abbraccio anatomicamente «distale» («Nella stretta distale di noi che non possiamo abbracciarci / sta il nostro amarci e il doverci morire»). Notiamo soprattutto che la descrizione di un continuum biologico in atto sembra liquidare i conti in sospeso col soggetto: «Già ogni capello ripete miliardi di volte il codice completo del corpo, l’universale dell’individuo- specie». Il soggetto-animale è contemplabile etologicamente come homo ludens: «La specie sa ridere di cuore, in quasi ogni data circostanza; il riso è contagioso ». Lo spazio specifico riservato a un discorso sul «corpo», titolo della seconda sezione («Faldone 21») segna semmai una rottura nel tono trattatistico del discorso: il «corpo», res extensa sostitutiva o funtiva dell’io poetico in tanta produzione contemporanea è sorprendentemente al centro di un testo di sostanza addirittura creaturale dove il martellamento dell’anafora e della rima quasi jacoponiche, hanno l’arguzia dolorante di una ballata sanguinetiana: «Corpo vivo come viva è la morte, corpo trovato a sorte e perso in deriva; corpo che chiunque ti abbia ti ha troppo forte», «enorme estraneo corpo senza fini», «corpo che non vivendo mai neanche muori». Il culmine dell’indifferenziazione biologica si tocca piuttosto nella seguente sezione Capre ovvero Unbehagen in der Natur, dove gli uominicapre si trovano coinvolti in una larga meditazione di un determinismo che ancora una volta va definito come sanguinetiano (del resto la presenza nel precedente Faldone zero-venti dell’autore delle Postkarten è stata sottolineata da A. Inglese, e appare qui, a p. 39, un’allusione scoperta a una tecnica sanguinetiana, quella di inglobare una citazione nel testo con tanto di menzione degli estremi bibliografici e prezzo del saggio utilizzato). In particolare si pensa al Sanguineti che si dichiara seguace di Groddeck per affermare che «i nostri atti sono pilotati» (così nell’intervista ad A. Gnoli, Milano, Feltrinelli, 2006), spalancando lo scenario di un’infinita ripetizione della vita psichica degli uomini e dunque dei soggetti. Raccogliamo nel Faldone la fitta segnaletica della gemmazione: «Popolare di copie appena difformi da sé lo spazio sùbito circostante», «una copia di copia di copia», un «doppio-soglia», «la quasi-gemella bambina», «un suo congiunto-variante» «un facsimile che non abbia quel filo di pancia», «nel Parlamento, seicento copie di sé vecchiarde e vecchiardi che vociano». Si noti anche che il titolo ‘disturbo della natura’ che pare alludere a possibili manipolazioni genetiche o comunque a annesse catastrofi ecologiche è probabilmente invece da prendere come rovescio del freudiano «disagio della civiltà» (Unbehagen in der Kultur). Pare infatti considerarsi qui con scetticismo il ruolo della compressione sociale della libido da parte della ‘civiltà’: «‘Credimi, l’ho presa sempre alla leggera’, mi fai tu, ‘questa cosa dello scontro inevitabile, frontale con le forze redibitorie della natura’». Della natura stessa, infatti, c’è poco da fidarsi: «Che la Natura sia una stronza pazza, ti voglio dire cioè – e non madre e neppure matrigna». Sono le parti del libro in cui il montaggio di materiali, per tornare all’idea benjaminiana, nella forma almeno in cui è stata recuperata da Didi-Huberman, può anche assumere un senso ‘politico’, o comunque tentare un discorso politico. Ma va sottolineato che se il continuum psichico/linguistico/biologico che sembra qui funzionare come da collante per tale tipo di montaggio si prende la sostanza di buona parte del libro di Ostuni, la sua ultima sezione (Studi per filastrocche) rappresenta una svolta che può apparire perfino contradittoria. Vi è messo in scena infatti il diario del poetapadre che assiste alla crescita del figlio. Se la narrazione non rifugge dal portarsi come illustrazione concreta del tema già considerato della riproducibilità biologica come un’unica universale tautologia, la storia che si racconta è pur sempre personale, unica. Non inganna che il testo sia detto dalla voce un po’ petulante dell’archivista: «Comincia proprio oggi anche per noi l’andatura dolorante dei figli e dei padri», per quanto non priva di arguzia: «cominciano proprio oggi a divaricarsi i cammini del diagramma, i rami dell’albero dei futuri nemici che fummo». Conta l’unicità dell’esperienza («sei Giovanni, mio figlio, è l’estate, hai otto anni e mezzo») che vale come fondativa del soggetto. È anzi probabile che l’astuzia costituita dall’impiego della forma archivio come generativa del progetto di Ostuni permetta un’astuzia più grande: la storia dell’io raccolta come totalità può infatti usarsi come procedura di oggettivazione dell’istituto dell’ ‘io lirico’ tradizionale, recuperandolo. Se tutto il mondo e tutta la biologia entra nel faldone non c’è un ‘fuori-io’ possibile: la storia e la natura cominciano allo stesso tempo in cui comincia l’esperienza dell’io. La questione è di grana filosofica, ma la forma resta poetica. La debolezza del ‘soggetto archivista’, comunque meno forte di un ‘soggetto autore’ tradizionale, impedisce al testo di prendere la forma della poesia-saggio. Si denuncia invece come ‘soggetto poetico’ attraverso l’introduzione nella macchina della lingua con il suo «disco rotto dell’ecolalia » o le catene di serialità triviali (come la lista delle FAQ, le frequently asked questions, su cui è costruito un intero testo), di marcatori poetici, come la rima embedded e un po’ caproniana di «non è trasformazione, non storia non sono i discorsi – / non è mai esistita di nulla, in effetti, nessuna memoria»; o l’esteso ‘respiro’ di un attacco come «L’aria brilla talmente, qui fuori, e trema, verso il termine della nostra gita tardivamente assolata » (non a caso in un testo dell’ultima parte). A questo punto, capiamo meglio il funzionamento del passaggio dall’archivio telematico, la cui consultazione passa per la funzione verticale o scroll, della lettura su schermo, al formato cartaceo del libro, formato orizzontale per la tipica forma oblunga dei faldoni. Scriveva sempre Claudi che il formato orizzontale «di contro al sistema verticale normale nello scrivere poesia» vale «come accettazione di un mondo che è smontato», insomma, con altre parole, un atto in cui il sintagma la vince sul paradigma. La lettura è più che accettabile, si può essere semmai tentati di sondarne le ragioni profonde sul piano simbolico usando magari come stimolo (tendenzioso) un saggio di Rosalind Krauss su Cindy Sherman (in Bachelors, 2000, trad. it. Celibi, Torino, Codice 2004) dove alla feticizzazione maschilista della dimensione verticale risponde la sublimazione del soggetto femminile orizzontale ma non passivo, fecondo. La problematica del gender è lontana dal libro di cui stiamo parlando, fisso semmai a quella della specie, per quanto è chiaro che manchi qui una figura madre, solo surrogata dal poeta-padre con il suo archivio di ‘filastrocche’. L’allusione alla forma regressiva/ primaria della ‘filastrocca’ si realizza semmai concretamente come una sintassi narrativa improvvisamente più lineare proprio come la storia della crescita del figlio raccontata come in un vecchio ‘super 8’. È forse l’estrema figura della forma libro che per farsi accogliente come una figura-madre, sceglie una forma, quella cartacea, sia pure provvisoria, di sublimazione.

(Fabio Zinelli)

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