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MARK STRAND, Quasi invisibile, trad. Damiano Abeni, Milano, Mondadori, 2014, pp. 106, € 16.00



in: Semicerchio LI (2014/2) Per Seamus Heaney, pp. 121 - 122




Quasi invisibile è l’ultima raccolta di Mark Strand, autore americano classe 1934, scomparso a New York lo scorso 29 novembre dopo una vita poetica che l’ha visto anche quarto Poeta Laureato e vincitore del Premio Pulitzer nel 1990. Il libro, pubblicato negli Sati Uniti nel 2012, è ora proposto in Italia da Mondadori, ancora una volta grazie alla limpida opera di traduzione di Damiano Abeni. I 47 componimenti che formano la raccolta si collocano al limitare fra prosa e poesia: irrequiete meditazioni, spaccati di quotidianità e fulminei ritratti sono proposti con la fluidità del racconto e la pregnanza corposa del linguaggio poetico. Con questo volume la sperimentazione stilistica dell’autore conosce nuove modalità espressive: lo spazio ristretto del verso lascia il posto ai respiri più ampi di una prosa poetica che rimane fortemente concentrata, essenziale e, almeno in apparenza, lineare. La scrittura di Strand si dimostra all’altezza della nuova forma e risulta perfettamente calibrata e modulata: semplice, colloquiale, più articolata e densamente poetica laddove la gravitas della materia lo imponga e tuttavia mai inutilmente intricata. Anche nella prospettiva più narrativa di questo libro ritorna quello scarto fra la serietà drammatica dell’indagine e l’ironica ed estrema leggerezza del linguaggio, noto marchio della sua scrittura.
La traduzione italiana riesce nell’impresa di rendere l’effetto di straniamento prodotto da una lingua che mira esplicitamente a essere plain. Abeni modella e forza le abitudini più rigide dell’italiano e così ricrea l’andamento interno di ogni brano e ne restituisce tono e atmosfera, dalla più seria e meditabonda alla più dissacrante. Solo raramente sembra cedere alla tentazione di complicare sintassi e verbi rompendo l’incantesimo del paradosso, unico inciampo di una traduzione che peraltro riesce a cogliere e restituire anche l’unità complessiva dell’opera. Scorrendo il libro nella sua interezza, infatti, il lettore è coinvolto e guidato da una sottile trama di situazioni, momenti e termini ricorrenti che dona coesione alle singole unità. Nella loro varietà questi brevi ma densi frammenti narrativi avvicinano di volta in volta i toni della satira, della fiaba e della meditazione e, pur conservando la loro singolare autonomia, tracciano la rotta di un malinconico viaggio verso le «trasparenze dell’inesistente ». Con queste prose Strand ancora una volta approfondisce e racconta l’esperienza di un equilibrio precario fra presenza e assenza, e riprende così il suo percorso poetico esattamente da dove si era interrotto nel 2006 con L’uomo e il cammello, ultima raccolta pubblicata. La recente scomparsa dell’ottantenne poeta americano rende Quasi invisibile l’ulteriore e definitivo tassello della sua indagine sull’identità incerta dell’io, sulla sua consistenza divisa in «così tanti sé che recedono verso il nulla». Tutte le figure – il poeta, il banchiere, il ministro, la coppia e il più generico ‘io’ – appaiono intrappolate fra la percezione dell’essere e quella incombente del nulla, che diviene così la tangibile alternativa alla insoddisfatta stanchezza quotidiana: «volevo partire per un immenso viaggio, viaggiando giorno e notte entro l’ignoto finché, dimenticando il mio antico sé, non fossi entrato in possesso di un sé nuovo». Le voci di questi «lovers of the in-between» che popolano la raccolta sembrano immerse in una realtà sfocata, evocate da uno spazio indistinto e di transizione fra luogo e non-luogo («Nessuno ha la minima idea di dove siamo. Le porte sull’assenza di luogo si moltiplicano»). Si spiega così come mai la dimensione dominante del cammino proposto da Strand sia proprio quella della soglia: dalle numerose porte che si aprono, si chiudono, appaiono e scompaiono, fino alla soglia per eccellenza, quella del sopraggiungere dell’incoscienza, il limite fra veglia e sonno che accentua ancora di più quel senso di surreale che intride il mondo rappresentato. Ecco allora che anche l’aspetto temporale è contagiato da questa dilagante sospensione. Lo sfondo ricorrente è quello del tramonto, quando la luce si dissolve, quando finalmente è possibile il paradosso dell’agognato annullamento dell’io, quando si può «scrutare nel buio, sperando di trovare l’immagine di un sé ancora non nato». Il crepuscolo, che porta con sé la promessa del buio, avvera la volontà di fuga, di abbandono e così l’attimo è sospeso, dilatato, scavato e consumato: «niente di questo ha valore se non per il piacere che produce, ingigantendo un istante e infine facendolo apparire come se fosse vero». Se dunque l’incertezza dell’identità soggettiva, la stanchezza della realtà e l’indefinito appaiono fin dal titolo come le colonne portanti di questa raccolta, tuttavia l’andamento con cui Strand porta avanti la sua indagine dell’umana condizione è tutto tranne che grave o filosofico. Piuttosto, l’argomento, la leggerezza delle prose, la sottile ironia ricreano all’interno dei singoli brani e dell’opera intera un’aria familiare, ‘domestica’. E proprio la casa è un elemento quasi onnipresente nella raccolta, l’unico luogo sicuro, mai messo davvero in discussione, dove i personaggi tornano e abbandonano l’attività per il riposo, «lasciando che i propri sé passati scolorino e svaniscano nel crepuscolo dell’oblio». Il costante sottofondo domestico, la presenza dell’unico punto in cui il cuore vuoto, turbato, spezzato è accolto, fa sì che nell’opera si imponga quel sentore di nostalgico, la «malinconia sepolta del poeta». Essa diviene l’apriori in cui anche la prospettiva della soglia si colloca; è la condizione per il soggetto spossato, esasperato o in fuga per guardare passato e futuro. Il «proposito di un’impossibile grandeur» intuito in ogni particella del mondo circostante genera uno stato di endemica melanconia, l’insoddisfazione persistente di una promessa intuita o bramata. Per questo nella raccolta a dominare non è tanto il peso del dubbio, esito logico di un’incertezza così radicale, quanto piuttosto la costante e nostalgica affermazione di un’assenza o, meglio, della non-presenza di qualcosa indefinito, sfocato ma terribilmente intuito: «cos’è in noi che vive nel passato e ha nostalgia del futuro, o vive nel futuro e ha nostalgia del passato?», e ancora «guardavo […] i miei pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di tanta promessa». Da questo continuo scivolare via di quanto atteso nasce il senso di insofferenza per un presente lontano, impossibile a viversi, l’insoddisfazione per un nulla indicibile che un grande maestro come Mark Strand ha provato, con successo, a catturare e restituire ai suoi lettori ancora un’ultima volta.

(Camilla Binasco)

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