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RENATA MORRESI, Signora W., Roma, La camera verde, 2013, con un testo di Giulio Marzaioli, pp. 27, € 15,00.


La signora W. è Marianne Werefkin (1860-1938), pittrice espressionista di origine russa, tra i fondatori di Der blaue Reiter, capace di scrivere una frase come «Il colore mi morde il cuore».
In letteratura, messa da parte la prima associazione che viene in mente, quella di un uso deformato e ‘violento’ del linguaggio, ‘espressionismo’ significa quell’ «arte di movimento» di cui parla Contini (pagine, del 1977, sempre fresche per la loro dimensione agonica, per il voler spremere dalla letteratura ciò che è immediatamente valido per la pittura), cioè «una momentanea deformazione sollecitata da un movimento, in altre parole una spazialità che includa il tempo». Un testo dalla prima raccolta della Morresi, Cuore comune (peQuod, 2010) si intitolava appunto Forme uniche della continuità nello spazio e vi si delineava una rappresentazione in movimento dei soggetti: «in pezzi di sé abbastanza liberi / di fremere e sbattere e non preoccuparsi». D’altra parte, la rappresentazione di un moto continuo è onnipresente nella poesia della Morresi, tanto nei temi che nella lingua. Si muovono gli oggetti nella casa di Cuore comune («Il letto si allunga a terra / girata sul fianco ne sento / più chiaro il suo cuore comune», e dal letto stesso scaturisce un simbolo: «come se fosse nato ora / dall’interno, un fiume»). Si muovono, in Bagnanti (Perrone, 2013), i viaggiatori, gli affittuari e soprattutto i profughi/naufraghi del Mediterraneo che davano il titolo alla raccolta, soggetti non dotati di un contorno, «collettivi», impossibili da mettere a fuoco, «comunità apparentemente prepolitica», come ha scritto Gian Maria Annovi (in «Semicerchio» 51, 2014). Annovi propone anche un acuto e ‘tendenzioso’ parallelo tra questi bagnanti e l’astrazione dei corpi per ‘strati di colore’ delle Grandi bagnanti di Cézanne, arrivando a immaginare un dialogo tra le due opere «laddove cessa la determinatezza della figura». L’indeterminatezza delle forme corrisponde allo sciogliersi dell’esperienza di chi scrive nell’esperienza degli altri e tutto questo avviene attraverso il linguaggio. La citazione che apre Bagnanti, da Le onde di Virginia Woolf, è chiara: «ci sciogliamo gli uni negli altri tramite le frasi», e, conclude Annovi, «la lingua di Renata Morresi descrive il movimento sempre ondivago di un’esperienza della contemporaneità mai completamente capace di circoscrivere l’oggetto osservato o il soggetto osservante».
Quanto fosse giusta l’intuizione di impostare un discorso ‘sulla pittura’ lo dimostra ora questa piccola raccolta che, oltre a segnare una tappa importante nel percorso della poetessa (forse come prolegomeni ad un terzo libro a venire), sembra avere validità generale, come discorso sui limiti del linguaggio poetico al momento di rappresentare il portato della percezione e dei sensi (in particolare lo sguardo), materia tornata agli onori della discussione grazie al recente libro di Riccardo Donati (Nella palpebra interna, Firenze, 2014, su cui vedi G. Alfano in «Semicerchio», 51, 2014), concentrato soprattutto sulla poetica degli autori più particolarmente ispirati dai pittori. Nella raccolta della Morresi però il soggetto (lo scrittore) si tiene sullo stesso piano dell’oggetto (i quadri della Werefkin), tanto che anche l’incontro con la ‘signora W.’ non sembra innescare nessun processo di transfert o di identificazione. Eppure, già simbolo di una riscoperta dell’espressionismo a partire da una visione di gender, la Werfekin è una figura dai tratti eroici, un’amazzone dell’avanguardia, come recita il titolo della mostra che le è stata consacrata a Roma nel 2009. Messo tra parentesi un confronto frontale, la Morresi procede soprattutto ad investire la totalità dell’opera della pittrice: quadri, schizzi e le tracce scritte consegnate oggi alla pubblicazione di lettere e taccuini. Nella costruzione del libro ciò si traduce in un doppio registro in cui si tengono tendenzialmente distinte le poesie di descrizione dei quadri, così esatte che sono tutti facilmente riconoscibili per chi legga il libro navigando insieme sul web, e frammenti poetici fatti di note scritte della Werefkin («innumerevoli sono gli schizzi che, con continua ripetizione, / rappresentano allineamenti di ogni genere») o di piccole poesie (di Morresi) di contenuto metapittorico («gli stessi centimetri di tinta / trasmutano in rapporto al modellato / deformano le forme, dipendono / dalle cause più svariate, la densità tanto / per dire, la radiazione / e gli altri rapporti pazzeschi / tra gli occhi e la luce») a bella posta confuse per tono e presentazione alle note della pittrice. Il doppio registro è peraltro occasionalmente disturbato dalla ridisposizione (o installazione) secondo variati principi di alternanza tra testi ‘metapittorici’ e poesie di descrizione. Un commento particolare meritano quest’ultime, per cui bisogna parlare, certo, di vera e propria ekphrasis, o meglio forse, di ipotiposi, sotto-categoria della precedente che sta per una decrizione ‘animata’ e vivace, volta a far rivivere un’azione sotto gli occhi del lettore. Precedute dalla ‘formula’ «in questo quadro», chi scrive registra minuziosamente gesti, azioni e colori in un continuo ed esibito sforzo per vedere («ma credo», «io mi domando se», con riflessioni aperte: «se sapere è fatto solo del suono asseverante di quei passi verso fuori», e serie di interrogative, a sé stessa al lettore, e descrizioni ipotetiche: «Potessero vedere»). In un caso, con studiato illusionismo, lo stile descrittivo è invece usato per un’ekphrasis del vivente così che vediamo, come in un quadro, l’autrice seduta al bar del museo confusa tra i visitatori. È notevole l’inventario e descrizione delle forme: «state girati 3 fermi così / state 3 umani sui vostri / tavolini / a scacchi rosa e bianchi / e righe rosse 6 / rettangoli disposti / in fila [...]», dove la ricostruzione ‘cubista’ dei seduti ha i contorni spezzati dello stesso soggetto collettivo di cui si è detto sopra con Annovi: «e nessuno di noi tanti / può sapere chi guarda / che cosa davanti / o chi guarda / guardare / e assieme guardiamo [...]»). Non è del resto questa l’unica situazione collettiva del libro, molti soggetti dei quadri lo sono: i pattinatori, una scolaresca femminile su una strada di campagna e, soprattutto, un internato di ragazze («in questo quadro una comune / al femminile»), dove si ‘vede’ il germe di una resistenza, un gesto minimo che annulla la distanza dallo stato pre-politico alla consapevolezza di gender: «una soltanto sfida / la matrona grigia / porta il braccio oltre / verso l’altra, ne diventa / la camicia». Il semplice gesto del contatto nel quadro esiste, ‘vederlo’ come lo vediamo nella poesia, cioè come «sfida», è una scelta etica dell’autrice, scelta e sguardo ripetuti di fronte a un soggetto ugualmente di genere/ gender, nel quadro rappresentante due donne davanti alle scogliere di Ahrenshoop (una «con un costume nero, ha un solo / sopracciglio che la dice e che le basta / a dominare il Baltico») la descrizione del quale è ‘bucata’ dall’accenno di un commento (enfaticamente taciuto): «Vorrei tanto dirvi che vedo / chi è la tesi della storia».
La lettura di questi testi ha come effetto che tornando poi a leggere molte poesie delle altre raccolte della Morresi, sembra sempre di trovarsi di fronte a descrizioni. Abbaglio illusionista a parte (come quando usciamo da una mostra e per alcuni minuti il nostro sguardo sulle cose è diventato ‘pittorico’), conterà l’uso affinato di una tecnica di scomposizione dell’immagine percepita e pensata per dettagli e per la successiva messa in movimento di questi. Sul piano delle forme, i contorni allungati delle figure della Werefkin che esprimono movimento più che deformazione dovevano per forza essere congeniali alla Morresi dove, oltre al fatto che un movimento di allungamento lo abbiamo già trovato (il ‘letto’ di Cuore comune), tutto viene sottoposto, nella descrizione, a un movimento accelerato: «La strada di campagna, / rimane come un fiume in quanto a dinamismo, ma i pali?». Inoltre la disposizione dei campi della visione per forme geometriche (cubiste), quali i ‘rettangoli’ della poesia citata sul bar del museo, è già in una poesia di Cuore comune, Telefono: «Alle sette chiamiamo tuo padre / che sta dentro il quadrato del telefono». La vera novità è però di constatare quanto qui conta il colore, parlando appunto di una pittrice, come ricordato, ‘morsa dal colore’. Colore significa il prevalere delle emozioni sulla linearità più ‘razionale’ del disegno. L’incontro con una pittura tutta di colore introduce nei testi una nuova dimensione (dice la Werefkin, citata in forma di frammento: «i colori come quinta dimensione»), dimensione che comprende appunto il piano delle emozioni. Segnali se ne trovano nei testi proprio dove si parla di colori: dall’interiezione (figura affettiva) «ah tradurre / questa resistenza / dal colore / alla vita», alla duplicazione con vocativo «al colore, o colore, astrattore carnale (potresti vedere la luce filtrare sottopelle)». E sono propriamente ‘colori verbali’ la ripetizione affettiva in due versi di Ferruccio Benzoni («i nostri i nostri i nostri / addii poi disattesi») citati in esergo di una poesia sul cui attacco finiscono letteralmente per sgocciolare, bell’esempio di dripping verbale: «ma no, ma no, ma no / andare via [...]». Che il colore potesse definire il mood di una situazione era già vero altrove, per esempio, si veda sempre in Cuore comune, l’inizio: «C’è una tenda verde così alta da starci / in piedi e due amache messe a fianco» (Posizione). Ma qui, naturalmente, tutti gli spunti fanno sistema. Si può allora provare l’applicazione di un modello teorico celebre, quello proposto da Michael Fried che propone di stabilire una cesura storica nel modo di guardare un quadro, da collocare all’epoca dei Lumi (Absorption and Theatricality: Painting and Beholder in the Age of Diderot, 1980). Un modo di guardare i quadri basato sull’absorption o immersione dello spettatore nell’immagine è sostituito dall’insorgere della consapevolezza critica di chi guarda, dalla teatralità autoriflessiva e implicita del ‘vedersi vedere’. Test psicologici confermano che la risposta all’absorption corrisponde a un livello di sensibilità (‘tendenze immersive’), tanto maggiore in presenza di situazioni emotivamente coinvolgenti. Ora, la lettura dei testi della Signora W. è un esercizio di absorption. Non solo un ‘vedere’ opposto al ‘vedersi vedere’ ma, nel movimento dipinto e descritto delle immagini, un ‘sentirsi vedere’. L’esplorazione del soggetto collettivo intrapreso dalla poesia della Morresi tocca la quinta dimensione dove i contorni sociali del mondo e del linguaggio sono ulteriormente ‘liquefatti’ per l’incontro con lo spettro dei colori. I legami tra i soggetti sembrano per questo però più forti. Dietro a ogni colore c’è la possibilità se non di agganciarlo a una teoria delle passioni, di connetterlo almeno a una pratica sociale delle emozioni, una possibilità di conoscere in più.

(Fabio Zinelli)

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