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JACOB S. D. BLAKESLEY, Modern Italian Poets. Translators of the Impossible, University of Toronto Press, 2014, pp. 375, € 75,00.


Nel suo Modern Italian Poets. Translators of the impossible, Jacob S. D. Blakesley affronta una questione chiave della poesia italiana a partire dal XX secolo, il fatto cioè, per dirla con Mengaldo, che molti dei più rilevanti poeti del nostro Novecento si collocano «al centro del triangolo poeta-critico-traduttore, con tutte le osmosi, ma anche gli urti relativi». Nel Novecento italiano infatti la traduzione viene praticata come «superiore filologia», coinvolgendo tanto le prospettive del discorso pubblico del poeta-critico, quanto le dinamiche della sua officina creativa personale. Blakesley indaga, in questo contesto, la storia e le caratteristiche di un nuovo genere letterario, quello del quaderno di traduzioni, il quale più che rimandare alle caratteristiche dell’antologia di letteratura straniera (alla cui enorme diffusione novecentesca è in parte comunque inizialmente apparentato) si approssima al disegno e alla struttura di un vero e proprio libro di poesia. Con il crescere del prestigio riconosciuto alla traduzione letteraria, numerosi poeti di rilievo nel Novecento cominciano a raccogliere e organizzare le loro traduzioni in singoli volumi. Con Ungaretti, che nel 1936 dà alle stampe il suo Traduzioni: St.-J. Perse, William Blake, Góngora, Essenin, Jean Paulhan, Affrica, ma soprattutto a partire dalla pubblicazione nel 1948 del libro di traduzioni montaliano, inizia, per Blakesley, la storia di questo nuovo genere, che da Luzi a Sereni, da Caproni a Giudici, da Erba a Bertolucci, da Anedda a Buffoni ci conferma come il quaderno di traduzioni e la traduzione poetica in generale rappresentino una presenza sempre più significativa e caratterizzante del nostro panorama letterario. L’analisi di Blakesley approfondisce le ‘ideologie’ così come le pratiche e le tecniche traduttive di cinque poeti-traduttori quali Montale, Caproni, Giudici, Sanguineti e Buffoni. Di Montale si sottolinea, a partire dall’influsso dalle posizioni crociane sull’dea di traduzione, la convinzione che il testo di arrivo sia inevitabilmente «un’altra cosa» rispetto al testo di partenza, ragione per la quale una buona traduzione è chiamata, idealmente, a far dimenticare al lettore italiano di trovarsi di fronte a un testo tradotto, e si presenta come opera d’arte autonoma, ri-creazione. Il traduttore dovrebbe in pratica, per Montale, porre il lettore di fronte a una poesia e non a una poesia tradotta.
Anche Caproni permane, come Montale, sotto l’influsso della teoria crociana, come palesa la sua idea che la traduzione poetica possa unicamente riprodurre le vibrazioni dell’originale. Due sono le strategie che egli, alternativamente, pone in essere nella sua attività di traduttore: di fronte a testi poetici caratterizzati da forme chiuse, metri classici e rime a fine verso, l’autore punta a riprodurli nella versione tradotta, cercando equivalenze nelle strutture metrico-ritmiche della nostra tradizione, mentre, posto di fronte a testi caratterizzati dall’uso di versi liberi, egli introduce nelle sue traduzioni una serie di processi di compensazione, tramite l’aggiunta di allitterazioni e assonanze, allo scopo di recuperare nella versione italiana almeno parte di ciò che va perduto del ‘legame musaico’, con il passaggio da una lingua all’altra. Anche per Caproni il testo tradotto deve presentarsi come ri-creazione, o imitazione dell’originale, addomesticando la lingua di partenza per andare incontro al lettore italiano. Opposto il percorso di Giudici, che persegue nelle sue traduzioni una strategia ‘spaesante’, facendo perno sulle riflessioni teoriche di Tynjanov circa lo scarto, la differenza costitutiva del linguaggio poetico rispetto a quello ordinario, e sui ‘principi costruttivi’ del testo fra i quali l’azione critica, interpretativa del traduttore è chiamata a riconoscere quello «fondamentale […] per l’esistenza della poesia stessa». Se in Montale e Caproni Blakesley aveva sottolineato un lavoro volto a portare il testo di partenza verso il lettore italiano, con Giudici abbiamo a che fare con una strategia di segno opposto; egli infatti, come ad esempio nella sua traduzione di Puškin, spinge il lettore italiano incontro al testo originale, con un effetto disturbante, che lo pone di fronte allo spazio «strano e straniante» proprio della lingua poetica, naturalmente Unheimlich.
Anche Sanguineti lavora in direzione di una traduzione programmaticamente spaesante. Le sue traduzioni sono calchi, adattamenti, travestimenti, parodie che mettono, letteralmente, in scena il traduttore, il quale agisce come autore-attore nella ‘rappresentazione’ del testo da tradurre. Sanguineti si appropria, pro domo sua, tanto della Verfremdung del teatro brechtiano quanto dell’opzione della traduzione interlineare teorizzata da Benjamin, volgendo quest’ultima a favore della sua poetica della traduzione/travestimento che infonde nel testo tradotto il personale, idiosincratico idioletto del poeta ligure. Il libro si chiude con Buffoni, che fra i poeti-traduttori analizzati da Blakesley, rappresenta l’autore che ha più diffusamente affrontato sul piano critico e metodologico l’esperienza della traduzione poetica, al punto che è proprio a partire da quest’ultima che egli è andato maturando una propria teoria letteraria. Per Buffoni il dibattito sulla traduzione letteraria deve liberarsi tanto delle polarizzazioni critiche fuorvianti (in primis l’opposizione fra ‘brutta ma fedele’ e ‘bella ma infedele’) quanto dall’idea che la traduzione debba riprodurre i contenuti dell’originale; essa è invece per Buffoni incontro fra differenti poetiche. Nella sua riflessione teorica così come nella sua pratica traduttiva l’autore intreccia le implicazioni della ritmologia (a partire da Meschonnic), il movimento del linguaggio teorizzato da Apel, le riflessioni sulla poetica di Anceschi, l’intertestualità di Kristeva e la critica degli avantesti di Bellemin- Noël. Il libro di Blakesley conferma che la traduzione poetica, lungi dal ridursi ad appendice del lavoro artistico dei nostri più rilevanti poeti-traduttori, è parte integrante della loro identità e del loro stile, e inoltre che, dallo scambio fra autore-traduttore e autore-tradotto, quando l’incontro poetico è veramente riuscito, si giunge «alla creazione di un quid medium: meglio, di un nuovo spazio che in verità non appartiene né all’uno né all’altro» (P.V. Mengaldo).

(Alessandro Baldacci)

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