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FRANCESCO DE CRISTOFARO (a cura di), Letterature comparate, Roma, Carocci, 2014, pp. 334, € 29,00.


Se c’è una missione impossibile eppure necessaria nell’editoria scolastica universitaria, questa è il manuale di letterature comparate. Per anni il panorama è stato dominato da quello di Armando Gnisci e altri autori, per Paravia/Bruno Mondadori/Pearson (1998-2002), che ha avuto anche una diffusione internazionale grazie alla sua traduzione in spagnolo e ne sta aspettando una ulteriore grazie alla traduzione in arabo. Ma, nonostante il successo, dopo quindici anni è uno strumento parzialmente invecchiato sia per l’esigenza di integrarlo con trattazioni su temi e metodi che sono diventati imprescindibili negli ultimi anni, come le riscritture in genere e gli adattamenti cinematografici e musicali in specie; sia perché il linguaggio saggistico corrente alla fine del secolo scorso sta diventando troppo impegnativo per le nuove classi universitarie. Nel frattempo ci hanno provato Lidia Bertazzoli, anche lei alla testa di un’équipe, uscendo per l’editrice La Scuola di Brescia nel 2010; e, in formato minore, Mariangela Lopopolo, che ha prodotto nel 2012 la Bussola Carocci Che cos’è la letteratura comparata, di maggiore appeal didattico per gli studenti di primo livello, ma ovviamente impari al compito di tracciare i confini di una meta-disciplina così fluida e gigantesca. Qualcosa si è acquisito, qualcosa anche si è perso (come i capitoli sull’antichità e il medioevo, culle di incubazione della comparatistica scomparse da tutti i manuali successivi a Gnisci, o quelli sull’imagologia e la storia della disciplina).
Vi si cimenta ora Francesco de Cristofaro, specialista di narrativa moderna che insegna la materia all’Università di Napoli «Federico II», con un team di livello e un progetto nuovo. L’obiettivo, esplicitato dal curatore nella Premessa, è l’individuazione di «questioni complesse ma non onniavvolgenti e catene discorsive didatticamente efficaci», adottando un «tono dialogico», uno «sguardo obliquo» e un «approccio morbido». Una delle novità, annunciate sempre nelle due pagine inaugurali, è l’abbandono di trattazioni autonome su gender studies e cultural studies, che sono invece illustrati nel capitolo teorico che fa da introduzione. Il capitolo in questione, intitolato Passato presente futuro, è stato affidato a Massimo Fusillo, che de Cristofaro presenta come «uno dei massimi comparatisti europei», e che parte da una emblematica immagine di Eliot (poche righe sotto definito campione dell’eurocentrismo conservatore) che rappresenta lo studio comparatistico come uno «stare da entrambe le parti dello specchio». Ma onestamente Fusillo riconosce, subito dopo, che lo specchio è rotto e che la sua visione della comparatistica prescinde da canoni e gerarchie; è anzi programmaticamente antigerarchica, in un panorama che privilegia «fratture, marginalità, lacune, scompensi», seguendo la metafora-guida del rizoma, la radice multipla (inclusi, diremmo, intrecci, infiltrazioni e contaminazioni reciproche). L’affascinante capitolo-manifesto declina di questa impostazione le multiple possibilità di inquadramento: la tensione locale/ globale, che privilegia lo spazio ‘ellittico’ di Damrosch includendo sempre nell’osservazione di un testo anche le sue ricezioni; l’esilio e il rapporto fra centri e periferie secondo le teorie di Casanova, gli sviluppi in Oriente (da Tagore a Kobayashi Hideo a Quian Zhongshu), le tesi di Moretti sulle fasi della letteratura mondiale (divergenza e convergenza), l’estensione della categoria di letteratura a ogni documento sociale e storico e le aperture queer e camp, prendendo posizione nettissima, come raramente si usa negli strumenti didattici che si presume aspirino a un ecumenismo super partes, contro le critiche ‘umanistiche’ al presunto appiattimento relativista. Particolarmente taglienti e prescrittive (‘bisogna smettere’, ‘gerarchie da smontare’, ‘la critica deve liberarsi’ ecc.) sono alcune espressioni, in particolare quelle riservate alle interpretazioni ‘linguistiche’ della traduzione, che secondo Fusillo (e altri) è anzitutto un processo culturale che non presuppone necessariamente competenze linguistiche – un’affermazione che potrebbe avere conseguenze didattiche importanti –, e alla gerarchia che antepone l’originale alle sue traduzioni o riscritture, cioè al fidelity criticism (‘il dogma tanto insensato quanto radicato della fedeltà’), sia per i testi che per gli adattamenti cinematografici. Alcune di queste posizioni risalgono agli anni ’70-’80 del secolo scorso e sono ormai acquisite, se non già in via di superamento, all’interno di una determinata generazione critica; altre sono relativamente recenti e sono suscettibili di rinnovare profondamente i metodi di lavoro: fra queste la restituzione del teatro a criteri di analisi non logocentrici e soprattutto la rinuncia alla gerarchia fra alto e basso (meno riconosciuta, anche per influenza indiretta del diritto d’autore, quella fra primario e derivato), che Fusillo elegge a filo rosso di tutte le suggestioni del capitolo e che sostanzialmente privilegia la prospettiva sociologica sullo specifico letterario, verso una sorta di dottissima comparatistica pop. L’ispirazione aperta e rizomatica dell’introduzione di Fusillo è mantenuta nei capitoli a più chiaro contenuto didattico, che tuttavia si sforzano di non tralasciare del tutto anche i contenuti che tanti insegnanti della materia si sentono in dovere di non trascurare, quale che sia la propria idea della disciplina, dinanzi a studenti spesso sprovvisti non solo di fondamenta sicure sulla gerarchia dei valori un tempo considerati ‘alti’, ma anche di letture elementari (e qui la rinuncia ai classici di ogni letteratura sarebbe un rischio mortale) senza le quali la comparazione diventa puro intrattenimento. Come infatti si ispira a Fusillo, specialmente nella bella analisi delle riscritture di Medea, il capitolo La dimensione culturale dei testi di Giulio Iacoli, così la disgregazione delle gerarchie è correttamente ripresa e sviluppata anche nel capitolo sul Canone e canoni di Antonio Bibbò, che ne analizza lo sviluppo anche nazione per nazione e chiude sul problema di un nuovo canone mondiale degli studi letterari. Questo del canone è un punto critico di ogni analisi comparatistica che si proponga di anteporre il ‘dover essere’ all’‘ssere stato’. Qualsiasi cosa si possa pensare oggi del canone (e, se fossimo noi a scegliere, non lo potremmo immaginare che plurale e mobile o meglio ancora apofatico), dobbiamo ammettere che il canone – scolastico, soprattutto – è un dato di fatto, effetto di politiche economico-culturali e di movimenti di mercato, che indipendentemente dalla nostra volontà e opinione influenza a lungo tutte le manifestazioni artistiche coeve o successive, e rinunciare a visualizzarlo significa rassegnarsi a non capire. In questo, a nostro avviso, il disincanto sociologico di Bourdieu è certamente più efficace di qualsiasi tentazione moralizzante.
Il bel capitolo di de Cristofaro si occupa di Forme e generi, fermandosi sul caso di studio del romanzo e chiudendo sulla evidente scomparsa (o almeno attenuazione) del senso di genere nella produzione contemporanea, un disorientamento anche benefico che produce – sempre per restare nell’orizzonte didattico – una discrasia spesso ingestibile fra ciò che si legge a scuola e ciò che si legge fuori dalla scuola e che, nella conclamata assenza di un paradigma valoriale, non si ha certezza valga la pena di essere conservato per la scuola del futuro. Chiara Lombardi illustra brillantemente Il dialogo intertestuale, fra il mito di Aracne e Genette, con una dovizia di riferimenti che esemplifica perfettamente quella che viene definita l’intertestualità endemica di ogni testo. Particolarmente efficaci sul piano didattico sono i lavori di Emilia Di Rocco su Temi, motivi, topoi, argomento che è un po’ il cuore dell’esercizio comparatistico, e la breve guida finale di Ugo M. Olivieri, Le teorie e i metodi, utile anche nel richiamare alcune delle esperienze critiche ‘classiche’ che negli altri spazi del volume non erano state ancora illustrate.
Riscritture di Irene Fantappiè è il capitolo che mancava in altri manuali, e che qui è condotto con molta eleganza intellettuale ma focalizzato quasi esclusivamente su quello che è oggi l’ambito forse meno seguito delle riscritture, quello testuale. Il rapporto biunivoco con le altre arti, snodo imprescindibile ma quasi impossibile da trattare, è oggetto del ricco capitolo di Elisabetta Abignente, nel quale però occupa solo un paio di pagine la relazione con il cinema, oggi il campo senza paragone più importante di rapporti con la letteratura e certamente quello di maggiore utilizzo didattico, anche a causa del profondissimo mutamento del bagaglio di conoscenze culturali degli studenti. Camilla Miglio nel capitolo sulla Letteratura mondo. Oriente/Occidente torna da par suo a un tema privilegiato che aveva affrontato da germanista e traduttologa, e che presenta, seguendo ancora una volta Fusillo, come l’estensione della comparatistica con maggiore potenziale di sviluppo.
Questo, indipendentemente da qualsiasi manuale, sarà nei prossimi anni secondo noi il punto più caldo della discussione critica sulla disciplina: da una parte è ineludibile conseguenza della globalizzazione del dibattito, dall’altro non si può non vedere che si tratta di un dialogo ad armi dispari, come rivela la rivendicazione di Fusillo a occuparsi comparativamente anche di testi di cui non conosciamo la lingua (e di conseguenza, per lingue come quella cinese, araba o giapponese, la cultura). È difficile negare che una vera decolonizzazione del settore imporrebbe uno scambio di competenze come quello sostenuto dalla Spivak, che peraltro è una voce pienamente occidentalizzata della cultura ‘orientale’. Ma l’aspetto linguistico è solo quello più appariscente. Lo scoglio sommerso che rende fittizia ogni apparenza di confronto è quello assiologico, sul quale un vero dialogo con l’Oriente imporrebbe ad esempio una presa d’atto di come appare la storia della ‘letteratura occidentale’ agli occhi di scrittori e studiosi ‘orientali’, ma soprattutto un rovesciamento completo delle abitudini occidentali, compresa quella di procedere implacabilmente per ‘superamenti’ e ‘aggiornamenti’ delle tendenze critiche, ognuna autorizzata a squalificare le precedenti in nome della novità, fin che questa a sua volta dura.
In particolare, la rinuncia alle gerarchie e la scomposizione dell’identità sono richiami necessari e attraenti per la critica occidentale ma impronunciabili e sacrileghi per autori e studiosi arabi o cinesi che non vivano in occidente e non accettino di assecondare in tutto o in parte le sue mode culturali e la loro dipendenza dalle leggi di mercato che privilegiano l’ultima novità, riducendo la produzione intellettuale al puro valore di consumo. L’Oriente addomesticato, chiamato ad addobbare le mense degli intellettuali occidentali scrivendo in inglese di temi scelti da Parigi e da Harvard, è una finzione consolatoria che ci consente di mantenere invariate le nostre strutture spesso inconsapevolmente post-coloniali lasciandocele presentare come aperte e plurali. Ma è una pluralità tutta interna e di superficie. Il confronto reale, se lo si vuole attuare, deve ancora cominciare e ci costringerà a riscrivere da capo ogni capitolo di ogni manuale oppure, ed è la soluzione a mio avviso più onesta, a riconoscere la natura endoculturale e altrimenti gerarchica (nobilmente eurocentrica, ma eurocentrica) di ogni comparatistica, anche liquida.

(Francesco Stella)

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