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FRANCO BUFFONI, Una piccola tabaccheria. Quaderno di traduzioni, Milano, Marcos y Marcos, 2012, pp. 320, € 16,00.


        Settantotto traduzioni da nove lingue per quaranta autori provenienti da varie aeree del mondo: più che una «piccola tabaccheria», questo nuovo libro di Buffoni fa pensare a uno di quei misteriosi negozi in cui – lì dove la grande distribuzione non ha ancora trasformato la diversità in moltitudine – tra gli scaffali si alternano prodotti di natura diversissima. Certo la lingua principale è l’inglese, perché tra i poeti più amati ci sono britannici e statunitensi, ma anche la lingua dell’attuale omologazione planetaria è qui rimessa in circolo nel contatto interlinguistico e intertestuale, quando ‘si minora’ per veicolare il gaelico (è il caso dell’ultimo testo, da Gwyneth Lewis), si asservisce al discorso critico per presentare il russo di Mandelstam (è il caso delle accese pagine di Seamus Heaney), e soprattutto si fa luogo dello scontro storico-politico e della costruzione di sé nelle soluzioni coloniali di Sujata Bhatt, Kamala Das e David Dabydeen. Si tratti della lingua inglese, del francese, lo svedese, il portoghese, il castigliano, o il neerlandese (e poi c’è il persiano di Hafez, ma misurato con la mediazione di servizio di Domenico Ingenito), in tutti i casi l’autore-traduttore stabilisce un rapporto diretto con i singoli testi, improntato al criterio non della fedeltà (e infatti sono numerosissimi i casi di interpretazione non letterale del dettato), ma della ‘lealtà’, cioè appunto del confronto. Generoso (e witty) come sempre, Buffoni non manca di forzare anche questo criterio, in obbedienza al più alto principio della mediazione dell’esperienza e del gusto personali. Ogni testo, di conseguenza, mentre viene affrontato come singola determinazione linguistica, viene al contempo inserito in una più ampia rete di relazioni poetiche. Alcuni di questi momenti di contatto sono dichiarati nelle note finali dedicate a ciascun poeta tradotto; ma c’è un caso, particolarmente significativo, in cui la connessione intertestuale viene dichiarata a piè di pagina, sì che non possa sfuggire al lettore. Si tratta di un passo decisivo, greve di ricadute ideologiche, che si trova in un passaggio della traduzione della Poética del gagliego-castigliano Ramiro Fonte. Già il titolo del componimento scelto da Buffoni è significativo per la stessa ‘poetica’ dell’autore-traduttore, che addirittura nella Premessa cita la celebre definizione che Luciano Anceschi diede di questo capitale concetto. Se ne va della «riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul proprio fare», allora risulta della massima importanza che la manipolazione dell’originale realizzi un intreccio di riferimenti complesso e limpido al tempo stesso. Ecco il testo di partenza: «Porqué todo está escrito, pero todo / Puede alcanzar de nuevo ese preciso / canal en que navega el pensamiento, / con música pensada y bien sentida». Ecco il testo di arrivo: «Perché è vero, è tutto scritto, e tutto / può raggiungere di nuovo quel canale / preciso in cui naviga il pensiero / dove passa la musica di Keats». Ed ecco infine la nota: «“Heard melodies are sweet, but those unheard are sweeter”, scrive John Keats nella seconda strofa di Ode on a Grecian Urn: la musica solo pensata come musica suprema». Ebbene, il filologo ghiottone o il comparatista affamato potrebbero vedere qui un caso di cortocircuito tra traduzione e commento, di interpolazione glossatoria di stampo quasi medioevale dove la fonte del testo di partenza è agglutinata al testo di arrivo. C’è però forse di più, se è vero che per la sua prima raccolta di traduzioni Buffoni aveva scelto, nel 1999, un titolo che conteneva proprio un riferimento a Keats – Songs of Spring – e che su quella ‘febbre’ romantica egli sceglie oggi di aprire la sua Premessa. Keats dunque come poeta dell’autore secondo e non (non necessariamente) dell’autore primo; Keats come premessa ideale di una ‘poetica’, ossia di una posizione pratica. Casi come questo sono numerosi, dicevo, in Una piccola tabaccheria: sono a volte meno vistosi, ma non smettono per questo di essere una delle cifre del lavoro presentato dal libro: è come una sorta di traspirazione, di essudazione del gusto e della memoria poetica, che si fa fatto concreto, sensibile se non sensuale. Per questa stessa via, del resto, passa anche la declinazione politica, e anzi partigiana, del progetto di Buffoni, che coinvolge innanzitutto la tematica omosessuale. Com’è noto, la riflessione sui problemi della sessualità è parte dell’impegno complessivo dell’autore, che come intellettuale è presente in modo ricco e differenziato sulla scena pubblica; ma qui essa è interpretata nel rapporto individuale coi testi: il corpo a corpo col componimento di partenza, rivolto com’è al lettore, supera tuttavia il livello della ‘lealtà’ del traduttore, per aprirsi alla memoria collettiva, all’immaginario storico e sociale che la letteratura ha collaborato a realizzare nel corso dei secoli. Una delle interpretazioni forse più eclatanti, e certo più sfacciate, riguarda il celeberrimo sonetto di Charles Baudelaire intitolato A une passante: lo scontro tra forma della modernità (la strada «brulicante» – «assourdissante» nell’originale – per la quale transita il soggetto lirico) e l’irruzione del desiderio («Une femme passa»: così, nella forma irrefutabile dell’aoristo) è riformulato al maschile da Buffoni, che intitola la sua versione Lui passava. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, anche allegando casi di declinazione differente della stessa tematica presente già nel testo di partenza, ma mi limito a un solo altro gustoso esempio, dalla Pied Beauty di Gerald Manley Hopkins, dove «freckled » (‘lentigginoso’: anche se il soggetto del sintagma inglese è Whatever...) è reso con «cosparso di brufoli» (lasciando emergere una personalissima preferenza per il tipo di ‘screziatura’). Nella lingua, attraverso la lingua si realizza dunque la mediazione, che è però anche mutazione ed eventuale pervertimento del testo di partenza. Ma il progetto di Buffoni non si limita alla, pur delibata (witty, ancora una volta), provocazione. Il rapporto con l’altro (e con l’Altro come sistema complessivo) è difatti decisivo nelle scelte compiute in questa antologia di traduzioni-emulazioni-riscritture. Perché si parla spesso di amore; perché si parla spesso di politica; e soprattutto perché si parla di costruzione della soggettività attraverso la lingua, che è sempre lingua dell’Altro, rispetto alla quale ciascun essere umano si posiziona, restandone estraniato e individuato al tempo stesso. In tal senso appare davvero strategica la serie di componimenti finali in cui è rappresentata la difficile convivenza in un intreccio di lingue.
Attraversando quattro diversi casi che riguardano la lingua inglese – in quanto lingua ‘maggiore’ dei colonizzatori, degli schiavisti o semplicemente dell’Amministrazione statale – Buffoni mostra, attraverso il gioco intertestuale che ogni traduzione realizza, la complessità del rapporto interlinguistico, il che significa, prima di ogni altra cosa, complessità della propria definizione individuale. Può così accadere che la ricostruzione immaginaria della violenza sessuale subita dallo schiavo adolescente nel vascello che lo portava lontano dalla terra madre sia apprendimento di una nuova lingua che rimarrà stigma (ma anche forma propria) dei discendenti (si veda il poemetto Turner di David Dabydeen). O può accadere che la lingua maggiore produca interferenze tali nella lingua-madre da sospenderne l’efficacia rendendola inutilizzabile (e quale sarà allora l’esito della comunicazione? si veda Even water is scarce, di Sujata Bahtt). O anche può accadere, a una indiana (I am Indian, very brown di Kamala Das) come a una bianchissima gallese (Interview with the poet, di Gwyneth Lewis), che il rapporto con la lingua maggiore sviluppi un processo di autonomia individuale, cioè di soggettivazione, che implica la rottura, o almeno l’incrinatura profonda, del rapporto con l’origine, ma al contempo l’apertura al diverso, allo straniero: che non sarà più esotico, oggetto di curiosità, ma fattore di coinvolgimento e rimanipolazione in un nuovo impasto. Insomma, nella sua piccola tabaccheria Franco Buffoni ha raccolto aromi ricchissimi, spezie, sorprese olfattive offerte all’apprezzamento dei sensi e all’energia intellettuale di ciascuno. Del resto, come spiega L’isolino, tradotto da Pound, vi presiede Mercurio, «dio della truffa», ma anche, come spiegò Kerenyi, dio dei crocicchi e mèntore dei traduttori.

(Giancarlo Alfano)

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