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LORENZO CHIUCHIÙ, Sorteggio, Milano, Marietti, 2012, pp. 75, € 13,00.


        Sin dal primo incontro con Lorenzo Chiuchiù, nell’estate del 2003, mi ha colpito la forza e la serietà della sua riflessione sulla poesia. Lorenzo è un poeta che pensa, cosa molto rara, è un poeta con una posizione sulla poesia, un poeta che ha suo un discorso profondo, raro e azzardato, una grafia intellettuale aristocratica e severa. Sa leggere un testo in una dimensione filosofica, ma ha anche un’attenzione aguzza ai movimenti minimi della pagina. Ecco, quando ho letto i suoi primi versi, ho avvertito la stessa tensione del suo discorso, la stessa voce fragile e tuttavia perentoria, il non accontentarsi mai di una soluzione facile. Lorenzo Chiuchiù compie infatti un viaggio nelle zone più segrete, impervie e introvabili dell’anima umana, un viaggio al termine della notte, nel centro della notte e all’inizio della notte, in quella linea di confine tra le ultime luci e le tenebre, quando s’intravedono ancora dei bagliori, ma il buio incombe minaccioso ed è un buio con cui non si scherza, non è una semplice notte che prepara l’alba, sono piuttosto le tenebre, il buio assoluto che ci vuole inghiottire. Per questo, come scrive Davide Rondoni nella quarta di copertina, avvertiamo il senso di un pericolo, la tensione di fronte a qualcosa di mortale che può accadere da un momento all’altro. Tutta la poesia di Lorenzo Chiuchiù è scritta lì, in un precipizio, per usare una parola cara a Lorenzo, in un pianerottolo senza ringhiera, nel pendio dei tetti o sul filo delle grondaie, in un luogo di precipizio e di capogiro, un luogo dove salvezza e condanna sono separate da una manciata di metri e lì siamo costretti ad abitare. C’è il senso di un vortice, di un’energia febbrile e incandescente che stronca la nostra fragile persona, un contrasto che abita e dilania ogni oggetto, di un turbine associativo, un turbine di opposti, un ossimoro permanente, una furia analogica che crea all’improvviso dei legami tra cose che sembravano lontane e che ora rivelano attraverso la poesia il loro vincolo segreto, la parte consanguinea del loro essere, il filo sotterraneo che le univa. Oppure, al contrario, separa con violenza cose che ci parevano vicine e rivelate ora nella loro potente estraneità, con la forza di un divorzio istantaneo tra due creature inseparabili. Ci sono immagini magnifiche che portano con sé la bufera di questo contrasto: il «bicchiere di terra», «la decapitazione del dono», «il dizionario dalle pagine bianche», e poi «le voci sorteggiate», «le gole identiche», «la corona nuziale del nulla», «il precipizio del latte», «il battesimo nel veleno», «i diari che impazziscono», «un addio dentro la grafite», «il nome proprio delle ore», «i fratelli del domani annientato». E, a proposito di questi «fratelli del domani annientato» – i morti – vorrei concludere con qualche parola su questo motivo conduttore che attraversa Sorteggio. La morte qui è nominata molte volte, è una delle protagoniste di questo libro. Ma non è una morte consueta. E anch’essa attraversata da uno scisma e da un impeto. È anch’essa presa nel temporale degli elementi che fin dalla copertina battezza questo libro. La morte qui non è immobile. Per questo non ci si può preparare alla morte, non si può andare verso di lei passo dopo passo, come un porto da raggiungere. La morte vive nell’incertezza di un sorteggio. La morte e la sorte vivono nella loro assonanza. La morte e i morti fanno irruzione. I morti sono «i fratelli del domani annientato», ci concedono solo poche ore e noi dobbiamo dire tutto in quel tempo minimo. I morti appartengono alla dismisura, all’enormità di un luogo impazzito. C’è anche un’anima russa in Lorenzo, che tende appunto alla dismisura, a una sovrabbondanza del sangue, a un’esplosione latente: il lungo, interminabile inverno russo sembra covare dentro di sé un demone che rimane lì, accovacciato per mesi e mesi, e poi esce fuori furibondo, si impadronisce dei cuori umani, entra nel sangue di Nastasia Filippovna o di Dimitri Karamazov. Uno spazio sterminato, dove non ci sono stanze né luoghi raccolti né luoghi di confessione. Sterminato e preistorico. Sterminato: questo è l’aggettivo esatto, che dice insieme l’enorme e lo sterminio. Preistorico: non c’è sviluppo né svolgimento, perché qui l’esistenza non è scorrevole, non avanza tappa dopo tappa ma precipita in verticale. La dialettica è troncata, tutto avviene saettante tra l’attimo e l’eterno, tra il foglio fragile del calendario e la durata assoluta del tempo: «Allora parleremo con i morti, i fratelli del domani annientato; non chiederemo che poche ore, una per ogni veglia: “Vedi, le maree hanno smesso di sognare la luna, la luna ha vènti che sfigurano”. Non chiederemo che poche ore, un conio arroventato e un dente rotto, la grazia bianca; chiederemo un addio dentro la grafite: se ora la legge è divelta tutte le gole diverranno identiche».

(Milo De Angelis)

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