« indietro DOMENICO CIPRIANO, Novembre, Transeuropa edizioni, coll. Inaudita (con allegato il CD Ultimo volo. Orazione civile per Ustica di Pippo Pollina), 2010, pp. 40, € 15,00. la prima raccolta di Cipriano (Il continente perso, 2001) ed esce nell’anno del 30° anniversario del terremoto in Irpinia (23- 11-1980). Aveva 10 anni all’epoca l’autore, nato nel 1970 a Guardia Lombardi (AV), che va così ad inserirsi nell’ambito del filone della poesia civile irpina, come argomenta nella prefazione il noto latinista Antonio La Penna, suo conterraneo. Trent’anni di distanza dall’evento, ma il ricordo del sisma è certo ancora molto vivo e forte è l’esigenza di testimoniare una ricostruzione solo esterna, denunciare quella ferita non rimarginata: «la morte ha soggiornato per anni / ora le nostre case hanno bisogno / di respiri, abbandonate come sono / al silenzio. abbiamo traslocato / i nostri corpi e lasciato solo / le crepe nude delle rughe / a vegliare sulla piazza», dare voce a tutti coloro che come «formiche disorientate» hanno dovuto convivere con la distruzione «stampati / su giornali ammuffiti», l’instabilità tra «i volti tumefatti delle cose» e con tutta la sfiducia di quando «sopra i morti / crescono case bianche e vuote, tutte uguali», perché «i progetti sono nelle fabbriche che salderanno / la terra. ma le crepe non sono nella terra». Da qui la scelta di una poesia corale, tragica e quasi epica del giovane poeta irpino, condotta con uno stile robusto, espressionistico e allo stesso tempo misurato, rinforzato dall’uso frequente di rime, assonanze e allitterazioni (specialmente efficaci nel rendere la ritmica colluttazione storica, ma anche primigenia, dell’uomo con la terra al momento del sisma: «… è un fiotto la terra che lotta, sussulta, avviluppa. confonde / la terra che affonda, ti rende sua onda, presente a ogni lato / soffoca il fiato, ti afferra, collutta, si sbatte, si spacca, ti vuole / e combatti, chiede il contatto, ti attacca, ti abbatte…») e avvalorato da una sua personale struttura ‘architettonica’ che, se regolarizza e in parte raffredda una materia incandescente e ricca di pathos, eppure risponde ad un bisogno interiore: già negli ‘occhi’ di Domenico, bambino cresciuto in fretta in quei pochi giorni di emergenza, si manifesta la propositiva rivalsa del ricreare («cercavo di ricostruire già le case / con le graste dure delle tegole: iniziavo / a sfidare la presenza della terra mentre / altrove si scavava e nella terra si moriva»). E forse non a caso queste brevi composizioni prendono anche visivamente la forma quasi di mattoni, compatti rettangoli chiusi su se stessi, ma con l’assenza di maiuscole come a ribadire la continuità di catena, il tempo al presente. Del resto tutta l’opera sembra basata su una precisa simbologia sia numerica che rievocativa. Come avverte la Nota a fine libro, «per ricordare diventano ossessivi i numeri», quasi in cerca di punti fermi: dopo l’introduzione di 11 versi (11, il mese di novembre, già di per sé mese dei morti), 23 in tutto sono le poesie (il giorno 23), ognuna di 7 versi, più un prologo di 34 (le 7.34, ora del terremoto); alla ‘parola’ fanno riferimento, circolarmente, sia l’introduzione che la conclusione; mentre la «guida all’ascolto musicale» suggerisce di leggere questi versi sulle note della lenta Blood di Annette Peacock, e significativamente ‘sangue’ è anche l’immagine d’inizio della prima poesia («trema la terra, le vene hanno sangue che geme e ti riempie ») ed è poi pure presente nell’episodio in cui un generoso carcerato tampona la ferita di un compagno strappandosi il pigiama: sangue anche come difesa e resistenza, segno di forza attiva della popolazione e dei volontari in mezzo allo sciacallaggio dei profittatori e all’incapacità di gestire i soccorsi da parte delle autorità. Oltre al sangue, c’è la terra, da madre a forza ostile. Permane ancora sotto ai piedi un senso di vuoto fisico e insieme metafisico: «siamo stati separati / dalla terra per un solo / istante e la terra / ci ha ripresi dimezzati», un tradimento ai danni sia dei morti che dei vivi, un patto spezzato con la natura che, in risposta alla ‘farsa’ celebrativa della memoria da parte dei media e al vuoto politico ed istituzionale, chiede ancora giustizia: sono state cancellati non solo gli edifici ma anche i confini e le categorie spazio-temporali, così anni di distanza equivalgono a un attimo di scossa, nel tempo liquido e mai concluso dell’universo tragico. L’esperienza del terremoto è un grado zero, confine di non ritorno, che si fa condizione di identità sospesa e indifesa, rubata, precaria, ridotta ai minimi termini, ai non-luoghi («Non c’è più sorpresa / tranne i pacchi arrivati con gli aiuti, la carne / in scatola il latte le pretese. Il fumo ci consuma / gli occhi ora che il camino sbocca nella casa / e crescono ammassati villaggi di container»), scenario di macerie illuminate dalla luna in cui quella sera potrebbe essere ogni sera («questa sera ceniamo con la morte, così ogni notte / ci riuniamo e guardiamo le pietre non ancora scosse / la terra senza volto arresa…») eppure non è l’ultima sera: «poi tutto si ricompone stringendosi / ai residui della vita» e nel prologo finale sembra a fatica aprirsi uno spiraglio alla possibilità, forse l’unica, della «parola cinica / risorta »: «cerchiamo nel trauma / della memoria / di riunirci alla storia», «ricontiamo ossessivi / i visi cancellati / ma si rinasce nella vita che cresce…». (Caterina Bigazzi) ¬ top of page |
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