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STEFANO DAL BIANCO, Prove di libertà, Milano, Mondadori, 2012, pp. 111, € 18,00.


             Si ha l’impressione che il libro di Dal Bianco abbia provocato reazioni simili a quelle che accompagnano le uscite cinematografiche di Terrence Malick a cui molti riconoscono eccellenza tecnica ma un’incertezza quasi new age nell’olismo delle sue aperture filosofiche. Il titolo del libro è infatti impegnativo (potrebbe dunque sembrare pretenzioso), appena attenuato dal fatto che si parla di prove di libertà. Quasi tutte le sezioni in cui è diviso sono aperte da citazioni riconducibili al sufismo, alla gnostica greco-copta, allo zoroastrismo, a René Daumal. L’autore prosegue sulla strada di una lingua comprensibile, che può perfino sembrare banale, dato che ogni incrinatura letteraria è di fatto appena accennata e potrebbe così dare l’impressione di un tentativo andato a vuoto. Tale trasparenza stilistica il cui vero scopo è di non fare velo alla conoscenza della realtà – quando invece siamo abituati ad una condizione protagonista dello stile, come strumento di conoscenza della realtà – potrebbe sembrare allora fallire il bersaglio e proporsi solo come diario denotativo dei sentimenti e delle emozioni che costituiscono il quotidiano della nostra vita di individui. Ci sono però elementi per insistere sul valore della raccolta: sia collocandola nel solco di quanto l’autore ha saputo finora costruire nella forma di un percorso originale, sia per l’esito del libro in sé. Leggiamo prima di tutto per intero un testo che può valere come abbastanza tipico del fattore ‘olistico’ appena evocato. Si tratta di La luce del cielo: «Si è coperto in un attimo il cielo della Val di Merse / e ora piove, uno squarcio rileva / le zone salienti del bosco d’autunno, / il fascio di luce si muove veloce. // Niente di ciò che sta accadendo / sollecita un commento. / Ciò che si muove nel corpo / segue le stesse leggi: // respiro, peristalsi, / una ghiandola per un castagno, / per ogni organo un leccio, / e uno e due e tre / e quattro e cinque e sei e sette. // Ciò che conta è il cielo / e quella luce che ci fa evidenti. // Tutto sta sotto la luce. // Tutto si muove in noi con quella luce dentro». Tutto sta dentro tutto, il cosmo/ natura e il corpo umano, e tutto esiste in funzione della luce. La nettezza del movimento dei fenomeni della natura osservata da un punto topografico preciso si sovrappone ad immagini anatomicobiologiche (proprio come nell’Albero della vita di Malick). Segue un sorprendente conteggio da uno a sette, e quindi una bella e illusionistica variazione ancora sul tema della luce. Si osservi che quest’ultima parte del testo si intreccia bene con le altre poesie della sezione poste sotto la luce tutelare di Andrea Zanzotto (a cui è esplicitamente dedicata l’eloquente Teoria della neve). Zanzotto, a cui, come noto, Dal Bianco ha dedicato cure critiche importanti, appare anzi il vero catalizzatore della tematizzazione del contrasto tra perfezione naturale e la presenza di un niente-dopo-niente che vale tanto quanto la condizione del ‘neutro’ (secondo Blanchot, ma di fatto già in Leopardi) che come eventuale principio del male. Il ‘tutto dentro tutto’ è dunque qualcosa che può appoggiarsi tanto alle filosofie orientali che all’epopea di saturazione zanzottiana. Resta l’elemento di disturbo di quella ‘conta’ semplice e banale da uno a sette. È una voce infantile come potrebbe essere, appunto nel petèl di Zanzotto? Sono le sette note (do, re, mi, fa, sol, la si) che dànno ciascuna il titolo alle sezioni del libro? Sta di fatto che diventa qualcosa a metà tra una formula mantrica e una filastrocca (così di nuovo in A nostra figlia nata grande «Così se ne andrà sul sentiero del vento barcollando / l’opera giusta di noi due, adulta con la sua verità / di tre di quattro di sette di dodici», dove sembra abbastanza chiaro che si parla di anni). Si apre allora come un buco al centro del testo che a noi può servire per considerare la relazione del libro con il percorso poetico di Dal Bianco. Questi ha professato da tempo in sede teorica una sorta di rinuncia allo stile, quello che potremmo forse anche chiamare un gandhismo stilistico, una rinuncia, tra l’altro, allo stile armato delle avanguardie. Di questo atteggiamento la raccolta Ritorno a Planaval (2001) era l’applicazione perfetta. Lì, la poetica precedeva il libro e questo nasceva da quella. Si dice ‘poetica’, ma forse è piuttosto qualcosa che assomiglia di più al patto nominalista che vige nell’arte concettuale. Con Prove di libertà quel patto non si è rotto, ma si assiste a una sorta di ritorno dello stile, bene rilevato da Niccolò Scaffai nell’osservare che «la bassa temperatura lessicale è però bilanciata dall’articolazione sintattica, dalle ricorrenze ritmiche e dalla dissimulazione metrica» (in Allegoria, 65, 2013). Ma è uno stile che si dà sempre come insufficienza, così che quel po’ di incremento stilistico che si esprime accentua ulteriormente l’esposizione del soggetto. La cosa va di conserva col fatto che una delle fonti di ispirazione dichiarate nel libro è il teatro povero di Grotowski così che possiamo vedere nell’arrendersi o nell’astrarsi del soggetto nelle situazioni del quotidiano tracce della via negativa che porta alla riduzione delle resistenze interiori dell’attore (e lo stesso vale per la rappresentazione contemplativa degli affetti, come quando, per perpetuarne le condizioni, di fronte al figlio piccolo che dorme l’autore opta per un piccolo trucco di capovolgimento delle responsabilità: «non mi resta che fidarmi, / visto che non ho niente da nascondere / se mi tengo alla sua mano / fingendo di sorreggerlo»). Forse è una strategia del libro quella di ‘impoverire’ sia la propria poetica ‘storica’ che la poetica condivisa del canone all’interno del quale si muove di preferenza Dal Bianco, così da forzare il patto col lettore in una sorta di inter-poetica situata tra la realtà e il suo trasferimento nel testo. Si tratta di una soluzione rappresentativa che trova perfino un parallelo nel definirsi di varie linee di concettualizzazione della nozione di povertà nella poesia di oggi (si dice ‘povertà’ come si diceva ‘arte povera’ o, assai recentemente, poesia poor secondo una posizione di Jean- Marie Gleize accolta da un gruppo di poeti italiani). Il libro si regge comunque da sé anche a non sapere molto della storia della poesia di Dal Bianco. In questo gioca molto il consueto ritorno dell’incurvatura del tempo lirico di Vittorio Sereni, tempo normale, impiegatizio, borghese: dall’attenzione con cui si parla dei figli («il seme / dell’attenzione», in A nostra figlia nata grande), all’insorgere di un doppio dentro di sé (come in Paura seconda), in «Chi parla in me con voce di contralto / e mi chiede fiducia senza garanzie / e non si fa conoscere / se non nel mezzo sonno qualche volta?» (La conquista del futuro), a sussulti del sismografo ‘patetico’ quali: «Portami via, poesia, non farmi fare più / ciò che non voglio / perché davvero io non finga più con gli altri» (Portami via da qui), e a distanza, sempre sul tema: «Poesia, schifosa scappatoia, / sparisci, via, dalla mia vita» (Meccanismo infernale). C’è in questi ultimi versi forse il ricordo (portami via) delle parole reali o magari solo possibili di alcune canzoni. Nel corso di un convegno alla Fondazione De André Dal Bianco ha cercato di accostare le canzoni di Luigi Tenco agli Strumenti umani di Sereni. La chiave della ‘figura’ non è forse tanto avvicinare Tenco a Sereni, ma Sereni a Tenco. Potrebbero, qui nel libro, essere stati scritti da Tenco (o da Gino Paoli) i versi: «Quando sei via da me / nell’altra vita tua lontana, / io forse, credo, ti dimentico». Non si tratta qui certo di recuperi pop sul filo di un citazionismo tutto post-moderno, ma forse invece una nuova chiave di lettura: che cioè accanto allo stile semplice e enigmatico (perché semplice) c’è spazio anche per un triviale gioioso, con licenza perfino di deragliare (perfino dai binari della ‘professione’ se si vede la tmesi di mes saggini, come sullo schermo del cellulare – mentre quella di prima vera è di ben altra tradizione). Accade nella scena in treno descritta in 15 aprile (cioè all’indomani della vittoria del centro-destra nel 2008 che «consegnava stabilmente / il paese alla canaglia ... »), perfetto esempio di cosa cercano queste prove di libertà: «... una ragazza / ride da sola ai mes / saggini del suo amico e ogni tanto / canticchia mimando la festa che ha nelle orecchie / ed è così / innocente, così rincoglionita, / da riversarmi addosso puntualmente / tutta la sua vita, prima / vera che coltiva / la mia rossa ferrovia infinita».

(Fabio Zinelli)

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