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ROSARIA LO RUSSO, Crolli, Firenze, Le Lettere, 2012, pp. 64, € 15,00.


           Al talento espressivo di marca plurilinguistica e accumulativa che da sempre caratterizza la scrittura poetica di Rosaria Lo Russo, nessuna area tematica quanto quella prescelta in quest’ultimo libro potrebbe essere più congeniale. Allegoria e catalogo del disfacimento contemporaneo delle forme, dei linguaggi, dei paesaggi, ma persino dei corpi e dei luoghi deputati all’abitare, Crolli propone un discorso che è insieme privato e pubblico, esistenziale e civico, metalinguistico e referenziale. Il percorso poetico si organizza associativamente in base a una metafora centrale: quella della casa-corpo, guscio e scrigno tarlato da un processo di inesorabile disgregazione, ma animato da un intensissimo sussulto linguistico di vitalità, come in un’agonia che è di per sé tema e significato: «Le cose còlte sul fatto impertinente, da lato, / imperturbabili espongono penombre e pieghe / incrinate come rughe d’espressione. / Le crepe simmetricamente segnalano / rischi di selvatiche estinzioni o caducei / fulminanti peritoniti d’intonaco» (p. 14). Nel segno dell’interscambiabilità tra organico e inorganico, se da una parte gli oggetti sono forzati entro un’animazione quasi surrealista («Le cose, gelosamente asseverate, si vendicano / dei subitanei spostamenti spalancando / corolle maniglie come gli occhi invasati / degli innocenti», p. 8), dall’altra il trattamento del corpo è espressionisticamente declinato in termini di grottesca cosificazione, di deformante resa inorganica («Scivola lentamente anche il cuore / sciogliendosi come gesso fra dita sudate », p. 39). Il crollo riguarda luoghi, corpi, lingua, oggetti che specularmente sconfinano in reciproche deflagrazioni. Il disfacimento corporeo è reso in una diffusa, funambolica e minuziosa sintomatologia patologica, che computa, ad esempio, il «clangore d’ossa sinistre in riassetto» (p. 16), gli «occhi pieni di terra» (p. 17) o gli «occhi crepanti» (p. 13), la «demolizione maxillo-/ facciale» (p. 18), il «maxingorgo biliare» (p. 16). Mediante una palese disseminazione di isotopie foniche (particolarmente ricorrente il gruppo consonantico –CR nelle due parole tematiche crolli e crepe), il testo della Lo Russo percorre la via più propriamente poetica dell’associazione e della polivalenza semantica: crepe è ad esempio il segno di un’incrinazione che prelude al crollo, ma anche una voce del verbo crepare, che conduce la semantica della morte al centro di questa rapsodia poetica. Ne è prova il fatto che i topoi della polvere e della cenere ritornino insistentemente nella raccolta, divenendo centrali nell’ultima poesia, che chiude il libro come un riepilogo, dedicata ai terremotati dell’Emilia, in cui, nella casa minacciata dal crollo, le «donne morte», «le nostre parche domestiche, le nostre / Aracni arcane», «sono diventate la polvere che si annida negli angoli» (pp. 59-60). Il crollo rappresentato nel testo è azione processuale, segno culturale e collettivo di una decadenza che non lascia scampo ma che insieme chiede la pazienza e l’intelligenza del suo inconcluso procedere. La parola moltiplicativa e tracimante del testo riesce a rendere esattamente proprio questa tensione in atto, l’accadere progressivo e infinito del crollo, l’entropia centrifuga del caos che sembra non giungere ad alcun compimento (e si veda, ad esempio, una prosa che segue la lenta caduta di due pattinatori sul ghiaccio, quasi mimandone cineticamente in parole il virtuosismo ginnico, pp. 29-30). La mimesi del caos si fa linguaggio, ne segnala la deriva attraverso il riuso parodico degli standard linguistici, dei tic comunicativi, delle icone linguistiche contemporanee: «Mi rigoverno vomici spaventi, anse di tumulti al cardias / sospendono il respiro cedendo al righello prospetto di un / ripristino di risiko ad alto rischio, allarme rosso, / fusti barbuti cannicci marci, caste scialbe al governo» (p. 10). Il discorso civile che – sempre in parallelo alla ricognizione interiore – questo libro propone, come nella migliore tradizione espressionista si serve delle armi della citazione deformante e parodica («dottor Divago», «polvere alla polvere», «faccetta rossa, faccetta nera», «lardo che colonna», «mammaliturchi », «sconto di civiltà», «ponzipilati») di un mondo visto sullo schermo televisivo e ascoltato come in una delirante allucinazione uditiva, che arriva dunque già frantumato e straniato dalla realtà. Cosicché il disordine del mondo si manifesta in una lingua deprivata di forma e di significato: «Poi ci rubano – rimetta – l’antica lingua / disseminando babilonie come scrollassero di dosso / torri babelliche che confuse sparigliano» (p. 9). L’indignatio civile, che è sicuramente una dimensione essenziale di questo libro, ha però come suo carattere precipuo l’essere sempre condotta da un punto di vista interno, e la voce che denuncia i ‘crolli’ del reale sembra nascere dal buio e dal caos delle sue stesse rovine, rotta e alterata dai sommovimenti tellurici di una qualche apocalisse, come in un profetismo furioso ma al contempo dolente, mai esente da una intensa partecipazione a questa drammatica entropia. Un io rappresentato nel testo come punto percettivo e prospettico del crollo in atto, «risibile missionaria ripudiata / dall’irresistibile ascesa di una borghesia / come dalla borghesia in rapida discesa» (p. 14). Lo stesso linguaggio poetico non sembra perciò ambire a salvare alcunché né a rinvenire senso, ma si dedica invece ad amplificare i crolli in cerchi concentrici e autoproliferanti. È questo tono ossimorico di desistenza indomita, di furibonda resa, a caratterizzare il libro e a definire una nuova misura espressiva più matura, in cui il gioco linguistico non è mai fine a se stesso ma sempre profondamente necessitato, poiché la tensione linguistica è argine e parte insieme di questa drammaturgia del caos. La lingua poetica che si incarica di rappresentare il crollo, registra e misura nel proprio agire la propria stessa caduta e inanità, tanto che in alcuni testi, che potrebbero forse indicare una nuova direzione nella poesia della Lo Russo, il fondamento fonico del dettato è come disciplinato da un sentore di dolente autenticità e da una qualche riassunzione di movenze liriche. Si pensi ad esempio all’intensa elegia Le parole e le cose, che della lingua e della poesia racconta l’impotenza, la deriva di silenzio di fronte alla morte, all’assenza, al dolore («Scrivere una poesia sulla tua morte è vietato // Questa non è una poesia / È una pagina strappata di diario»). Ma anche alla misura espressiva più pacata e riflessiva di testi che raccontano la scomparsa del paesaggio e dell’ethos dell’infanzia: «Sulla fiumara secca si deposita una melma / di fogna […] / l’odore di liquerizia e mentuccia è quasi ovunque / sparito e comunque non trasmette più un mito, anche dove / si annida, dell’infanzia, la mistica eolica di quando / andavo su e giù in bicicletta a rubare fiori di zucca / e more, estorto, disdetto, fine della mia campagna» (p. 23). Come se il passato opponesse al crollo e alla degradazione del presente una strenua resistenza, e lo spazio memoriale lottasse per conservare una propria essenziale autenticità che si traduce in testi di misura e di tono più classici e pacati: «Odore di pomodoro cotto, nauseabondo / odore di casa-famiglia. Quand’ero figlia / non concepivo di mangiare in rosso alla mensa / dei poveri ricordo in bianco il mio pasto. Di me / che dietro occhialini di ferro imbambolavo / su una pasta scotta, resta un’automa o sindone, / in questo tempo in cui il ricordo non conta» (p. 37). (C.V.)

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