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FEDERICO ITALIANO, Habitat, Roma, Elliot, 2020, pp. 90, euro 14,50.

 

Tra le voci più originali e sorprendenti della poesia italiana degli ultimi vent'anni (una scelta rappresentativa del suo lavoro si può leggere nell'auto-antologia Un esilio perfetto, pubblicata da Feltrinelli nel 2015), Federico Italiano tocca con Habitat la piena maturità del suo percorso autoriale, del resto segnato da una costante tenuta tonale e formale. Il soggetto poetante (ma attenzione:  Italiano è tra quanti lavorano per una de-soggettivizzazione dell'io) torna a vestire i panni dell'esploratore, in parte avventuriero in parte scienziato, impegnato a scandagliare una cartografia emotiva in cui i luoghi dell'infanzia (l'Ovest Ticino) e gli ambienti usuali, domestici, si intrecciano con distese artiche e plaghe desertiche, la quotidianità familiare con accese fantasie di ere remote e dimensioni altre. La scrittura in versi si offre come uno strumento sensibilissimo per mappare un gran numero di habitat esistiti, esistenti o soltanto fantasticati e studiare le entità – si tratti di donne, uomini, maestosi rapaci o umili arbusti, a comprendere persino la materia inerte – che li abitano. Nel continuo, fisiologico rimescolarsi dei fenomeni, ogni forma di vita costruisce il proprio spazio di presenza nel segmento di mondo che le è dato, ciascuna è condizionata dall'ambiente e cerca di reagire a tale condizionamento elaborando strategie per orientarsi, restare, prevalere. Il metodo nigeriano per vincere a Scrabble è da questo punto di vista un componimento esemplare del lucido ma non distaccato impulso analitico che muove la penna di Italiano, nonché un acuto testo di riflessione metalinguistica (con accenti wittgensteiniani).

            La scelta di suddividere la silloge in cinque sezioni numerate pare rispondere più al coagularsi di alcuni motivi esemplari che a una rigida partizione cronologica o per argomenti. Mentre le liriche incipitarie rinviano soprattutto alle dimensioni dell'infanzia e del privato (segnalo in particolare il trittico Corpo d'acqua, tra i testi di questi anni destinati a restare), il secondo e il terzo segmento sono centrati sull'osservazione di esistenze, organiche e non, colte nella loro naturalissima estraneità (o impossibile dimestichezza) rispetto al luogo in cui si trovano. Merita di essere qui ricordata la sequenza Frammenti di una guerra, cui è assegnato un posto centrale nella raccolta:si tratta di un'escursione visionaria in sinistri paesaggi apocalittici la cui portata può essere meglio compresa se raffrontata con le opere di altri autori della stessa generazione di Italiano (penso soprattutto al Paolo Maccari di Fuoco amico e Contromosse). Nella zona conclusiva del volume si trovano la quarta sezione, più propriamente letteraria (con testi scritti in risposta a brani poetici del passato), e la quinta, dalla netta curvatura malinconica, imperniata su oggetti che richiamano alla mente ricordi più o meno brucianti. Dominano questa poesia, sotto la cui superficie apparentemente quieta si agita un implacabile furor magico-istintuale, atmosfere ora minimali, rarefatte, ora vertiginose e inquietanti; presagi e fantasticazioni vi allignano sovrapponendosi alla registrazione dei dettagli d'ogni giorno, ora disvelando scenari di armonia, ora palesando crepe irreparabili nell'edificio della realtà. Come già nei libri precedenti, un ruolo importante, perché capace di attivare un campo di attenzione non banale, è occupato dalla sfera verbo-visiva, che qui in particolare si manifesta attraverso il richiamo alla fotografia d'autore: mi riferisco ai due testi ecfrastici dedicati il primo a Vivian Maier (Autoritratto, 1955), il secondo al perturbante, seducente Félix Thiollier – di fatto, nella sostanza se non nella forma, due esempi di vanitas barocca.

            Quanto allo stile, il tono è sostenuto ma niente affatto prezioso; l'andamento meditativo-narrativo delle liriche è affidato a una partizione metrica perlopiù regolare, a una fluida progressione dell'architettura testuale per terzine, più raramente per quartine o distici, con propensione alla misura classica dell'endecasillabo e del settenario. Ricorrente risulta l'opzione del sonetto, variamente ripreso e dissimulato; costante è, come nelle prove precedenti, l'attenzione al livello fonico (non mancano rime, assonanze, persino giochi anagrammatici). Interessanti gli esperimenti di ripresa, tra pensosa ironia e umana partecipazione, di forme di preghiera ritualizzata, sorta di litanie anaforiche di ispirazione scritturale-sapienziale (le corrosive Supplemento alle beatitudini e Pronome indefinito;l'invito al carpe diem di Villanelle di Qoèlet). La lingua, estremamente sorvegliata, è improntata a una medietas che rinuncia quasi del tutto alle quote di letterarietà riscontrabili nelle prove precedenti ma ricorre ancora volentieri all'esattezza del linguaggio zoologico-botanico (attraverso lemmi quali «culmo», «nitticora», «ipomeo», «astore»).

            Con Habitat la voce di Italiano si conferma tra le poche in grado di restituire alla nostra letteratura una dimensione che, in tempi di realismi forzati, di nuovi ‘naturalismi fiscali’ per parafrasare Lukács, rischia di andare perduta: quella del meraviglioso raziocinante. Il processo concettuale e associativo alla base del suo disegno autoriale aspira infatti, per via di nitore e accorta misura del dettato, a un recupero della stupefazione, a una possibilità di re-incantamento della parola poetica dettato da una vibrante adesione alla labile, inopinata caparbietà di cui è capace ciò che esiste.

(Riccardo Donati)

 

 

 


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