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I

Dante. Arte che genera arte è un’iniziativa nata dall’incontro tra i progetti del Centro Romantico del Gabinetto Vieusseux e della rivista «Semicerchio», con la sua ventennale attività che mira a coniugare la grande tradizione del passato con la sperimentazione contemporanea. Questo volume raccoglie gli atti dei tre giorni di incontri, dibattiti, letture poetiche, mostre e spettacoli che dal 15 al 17 novembre 2006 hanno dato vita nella città di Firenze a un forum itinerante per lo studio della traduzione e della riscrittura creativa del testo dantesco in un quadro di rapporti internazionali e interculturali. Se l’espressione «arte che genera arte» può ben essere assunta come il filo conduttore di «Semicerchio», la trama d’ogni nostra iniziativa, accostarla alla figura di Dante rende esplicita una traccia spesso indagata dalla rivista direttamente o indirettamente attraverso la voce dei poeti e dei critici ospitati sulle sue pagine. Questo è infatti il primo volume espressamente dedicato a Dante, assunto per la prima volta a tema per estendere lo sguardo oltre i confini e l’identità nazionale e soffermarci a riflettere sull’attualità e sulla vivacità di un codice che ha contribuito a definire altre culture ed è stato adottato come elemento comune a ogni civiltà.
L’iniziativa ha trovato nella collaborazione con il Centro Romantico del Gabinetto Vieusseux, la prestigiosa istituzione fiorentina che da quasi due secoli fa da ponte fra culture internazionali, il partner ideale per sviluppare un progetto che porta a confronto tradizioni artistiche in lingue e linguaggi diversi. Abbiamo voluto infatti unire un momento di studio e di riflessione scientifica sulle modalità di attualizzazione testuale della poesia dantesca a un’esplorazione più ampia sul ruolo della poesia di Dante nella cultura russa e in quella americana, le due tradizioni che all’inizio del XIX secolo hanno iniziato la riscoperta dell’opera dantesca, mettendole a confronto l’una con l’altra e con la contemporaneità italiana. Esplorare le interpretazioni della Commedia realizzate da artisti dei tre paesi prescelti nei diversi linguaggi della nostra epoca – dalla poesia al teatro, dalla musica alle arti figurative e multimediali – è stata la sfida del progetto Dante. Arte che genera arte, con il quale «Semicerchio» ha celebrato il ventesimo anno della sua attività.

II

Da quando Shelley, interpretando il sentimento dei Romatici inglesi, definì la sua arte «the most glorious imagination of modern poetry», Dante non ha mai smesso d’affascinare il mondo anglosassone trovando soprattutto in terra americana un contesto culturale pronto a ricevere e appropriarsi della sua opera. Come è noto, furono soprattutto i membri del Dante Club di Cambridge che dagli anni Trenta del XIX secolo fino agli inizi del XX si adoperarono a trasferire nel Nuovo Mondo la poesia di colui che appariva loro come il massimo poeta della civiltà occidentale da assumere a modello per la loro cultura in fieri, avviando da un lato un’autorevole scuola di critica dantesca, dall’altro una costante penetrazione nell’immaginario americano di figure e situazioni della Commedia, in particolare dell’Inferno. Gli studi del professore di lingue e letterature moderne George Ticknor, di James Russell Lowell, autore di un notevole saggio sul Poeta, dello storico dell’arte Charles Eliot Norton e del medico-scrittore Oliver Wendell Holmes che, a partire dal 1831 quando proprio Ticknor istituì il primo corso di lezioni dantesche, tennero insegnamenti su Dante alla Harvard University, e la traduzione integrale della Commedia di Henry W. Longfellow, completata nel 1867, segnarono l’inizio della straordinaria fortuna del Poeta negli Stati Uniti, una fortuna rinnovata dall’interesse di Ezra Pound e T.S. Eliot per la cultura medievale e per il testo dantesco da cui attinsero a piene mani interpretandolo e imitandolo, rendendolo nuovo e significativo come paradigma per rappresentare il mondo moderno.
Oggi, negli Stati Uniti come in Italia, Dante è un’icona della cultura popolare, la sua opera metamorfizzata nei generi più vari – dal film di Ridley Scott, Hannibal, alla copertina del primo album dei Nirvana, dal giallo storico di Matthew Pearl ambientato proprio fra i bostoniani del Dante Club al romanzo horror American Psycho di Bret Hearston Ellis, che ricalca un noto verso dell’Inferno nella sua ouverture: «Abandon all hope ye who enter here…». Ma è sufficiente questa lunga sedimentazione, l’immenso patrimonio di traduzioni, rifacimenti, trasposizioni e travestimenti della poesia di Dante apparsi ininterrottamente dal 1791, quando William Dunlap, scrittore di teatro, pittore e amante delle arti, pubblicò sul New York Magazine la prima traduzione americana dalla Commedia, (un passo dell’episodio del Conte Ugolino) a spiegarne la fortuna fra poeti, narratori e artisti contemporanei? E nella cultura russa, basta il tema dell’esilio e l’ardente rapporto con la poesia di Dante dei grandi poeti del primo Novecento e di Josif Brodskij a spiegare il rinnovato interesse delle generazioni contemporanee per l’autore della Commedia?
L’obiettivo di Dante. Arte che genera arte è stato quello di indagare le ragioni storiche e culturali del dantismo contemporaneo nelle tre tradizioni chiamate in causa. Per quella italiana Pier Vincenzo Mengaldo, che ha aperto la manifestazione nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, ha presentato un magistrale contributo sulla presenza di Dante e Petrarca nella letteratura italiana; per quella americana è stato David Gewanter che, nel ripercorrere alcuni fasi del dantismo anglosassone, ha spostato l’indagine sulla contemporaneità del Poeta, mentre Olga Sedakova ha tracciato un’elegante sintesi del dantismo russo oltre il mito romantico dell’Ottocento. Su queste questioni si sono anche interrogati i poeti e i critici intervenuti al seminario sulla traduzione e riscrittura di Dante, al dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze, brillantemente coordinato da Francesco Stella. Da un’altra prospettiva, il tema è stato infine ripreso nelle memorabili letture che gli ospiti stranieri hanno tenuto nella Sala Ferri del Gabinetto Vieusseux, autorevolmente condotte da Edoardo Sanguineti, maestro di cerimonia per l’occasione. Accompagnati dalla recitazione in lingua italiana di Rosaria Lo Russo e dal violinista Gil Morgenstern, Robert Pinsky, Yusef Komunyakaa, Olga Sedakova e Elena Švarc hanno presentato poesie edite e inedite ispirate al Poeta, legando tradizione e innovazione. Il poemetto Flesh di Komunyakaa è stato composto appositamente per la nostra manifestazione e viene pubblicato per la prima volta in questo volume nella sezione che raccoglie i testi poetici americani e russi.

III

Non c’è dubbio che soprattutto nella cultura statunitense Dante sia ancora oggi un codice che si rigenera e si adatta a ogni poetica, che la sua esplorazione dell’animo umano agisca come promemoria del nostro passato e monito per il futuro. Poeti di spicco della contemporaneità americana si sono avvicinati a Dante: Robert Lowell, traduttore-imitatore di noti passi della Commedia, rimodellati a sostegno delle sue tematiche; W.S. Merwin, autore di un recente Purgatorio in lingua inglese; CharlesWright, che annovera Dante fra i suoi maestri quale «modello platonico di vita e arte» la cui lezione è ora per lui un «sedimento scintillante» sotto ogni cosa che scrive; Frederick Seidel, autore di una trilogia che inverte l’ordine originario partendo da un neo-paradiso per arrivare al neo-inferno della Manhattan dell’11 settembre; JamesMerrill che tenta la terza rima e trama i suoi versi epici di rimandi e echi danteschi; Robert Pinsky, traduttore dell’Inferno, Robert Duncan, John Ciardi, Allen Maundelbaum, RosannaWarren, Mark Doty, Gjertrud Schnackenberg, Amiri Baraka, Yusef Komunyakaa, ecc. Uno sguardo all’indice dell’edizione dell’Inferno curata da Daniel Halpern nel 1994 e tradotta da venti poeti, tutti statunitensi eccetto Seamus Heaney, è un’ulteriore testimonianza di un interesse quanto mai esteso e vivo.
Sulle ragioni di tanta passione per un medievale cattolico e visionario si sono interrogati Peter S. Hawkins e Rachel Jacoff, curatori del volume The Poets’Dante (Farrar, Straus and Giroux, 2001) dove, oltre a noti saggi sul Poeta di illustri nomi del recente passato, troviamo anche quindici contributi tutti americani, commissionati a autori che in vario modo hanno accolto Dante nella loro scrittura. La storia personale del Poeta, il suo amore per Beatrice e il coinvolgimento nella politica del suo tempo, vengono indicati come forti punti di contatto con i poeti anglosassoni, da sempre affascinati dalla natura autobiografica e perfino confessionale del poema, dalle vicende dell’uomo ferito nei sentimenti e nella fede politica che volge le sue disgrazie in arte, dal tema della giustizia su cui l’esule è costretto a meditare. Ma anche l’immaginazione profondamente
teologica di Dante viene accostata alla natura intensamente religiosa della cultura statunitense, in linea del resto con la ricca vena della poesia metafisica americana che affida al momento epifanico e visionario immaginarie rivelazioni del divino, spesso inteso in senso panteistico. Vengono poi citate questioni di carattere puramente letterario, sempre avvincenti per un contemporaneo: l’architettura della Commedia, eterno modello per i grandi poemi statunitensi dai Cantos di Pound a The Bridge di Hart Crane, alle trilogie di Charles Wright e Seidel; il fascino inestinguibile della terza rima; il ritmo scandito dall’endecasillabo. Ma anche ciò che Gianfranco Contini chiamava il «plurilinguismo» di Dante, la sua maniera di incorporare altre lingue nel vernacolo, è stata individuata dai curatori come un ulteriore punto d’incontro che si riflette, ad esempio, nella poliglossia di Pound e di Eliot, ma anche, possiamo aggiungere, nello sforzo della poesia americanadi rimanere sempre aderente al parlato, ai vari gerghi generati dalla multiculturalità senza abbandonare i codici della tradizione. Infine, l’incontro con le ombre dei poeti del passato non poteva non essere considerato motivo di attrazione perché il colloquio con gli Old Masters è un archetipo della poesia statunitense. Nel 1866 Longfellow
mise in scena uno dei più suggestivi incontri di un discepolo con il maestro fiorentino nel primo dei due sonetti che introducono la sua traduzione del Purgatorio. Più d’un secolo dopo, la figura di Dante s’incarna ancora nelle sembianze tramandate dall’iconografia tradizionale nel poemetto di Charles Wright A Journal of the Year of the Ox, un diario poetico dell’anno 1985 in 33 parti, che è anche la sua versione della seconda cantica della Commedia, tramata di incontri con poeti del passato, allusioni ai sette vizi capitali e prestiti danteschi. Qui Dante ricorda al discepolo americano, un non credente assalito da dubbi e domande, che la via della conoscenza è ardua e non ammette distrazioni: «Brother, remember the way it was / In my time: nothing has changed: / Penitents terrace the mountainside, the stars hang in their bright courses / And darkness is still the dark: / concentrate, listen hard, / Look to the nature of things…».
Addentrarsi nella poesia americana contemporanea ispirata a Dante è in sé un viaggio affascinante e ricco di sorprese. Certo, viene talvolta da chiedersi quale poeta chiamato Dante si muova davanti ai nostri occhi. Indubbiamente una figura spesso lontano dall’originale, che tuttavia

mantiene costante un’universalità e una duttilità capaci di mediare il mondo contemporaneo. Usato e abusato, il suo poema offre dunque al poeta statunitense un sistema interpretativo per illustrare una visione della realtà, per capire il presente e riflettere sul ruolo estetico ed etico della scrittura poetica.

IV

Benché Dante. Arte che genera arte abbia dato ampio spazio alla poesia, anche il passaggio da un linguaggio artistico all’altro, quel processo che secondo l’ormai classicadefinizione di Roman Jakobson viene detto traduzione intersemiotica, ovvero interpretazione «dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici», è stata una componente altrettanto importante della nostra manifestazione. L’opera dantesca dell’artista toscano Quinto Martini, realizzata per i tre volumi della Commedia edita da Pierluigi Bigazzi fra il 1985 e il 1988, ha dato vita ad una mostra presso la Syracuse University in Florence dove sono stati esposti dipinti, bassorilievi, litografie e alcuni disegni preparatori provenienti dal ricchissimo archivio dell’artista.

Nella lettura che Martini fa del poema colpisce il ruolo del colore: i toni scuri e le cupe masse di colore dell’Inferno si stemperano via via nelle tonalità chiaroscure del Purgatorio e in quelle rarefatte del Paradiso. Un’eloquenza cromatica, questa, che accompagna il destino delle anime dei tre regni: nel primo, il nero ferrigno e le scalature del marrone e dell’ocra sembrano tenere strette le figure in una coltre di fuliggine e fango; nel secondo, la predominanza del grigio e dello sfumato, alleggeriti da sprazzi di colore che vanno dal giallo al blu all’oro, allude al tema della speranza mentre figure dai volti umanissimi si delineano nette e prendono corpo; nel terzo, la rappresentazione della luce e della salvezza è affidata ai colori pastello, al bianco, alla trasparenza e alla «circular figura», l’immagine del cerchio dominante nel Paradiso che Martini riprende di frequente per ricordarne la topografia, le sfere celesti e la rosa dei beati. Ma nelle trasmutazioni dantesche di Martini colpisce anche la coabitazione di parola e disegno, dato che ognuna delle cento tavole per l’edizione Bigazzi incorpora i versi cui le illustrazioni si riferiscono. Li troviamo sul lato destro, trascritti nella minuta e chiara calligrafia dall’artista con l’indicazione del canto cui appartengono. Spesso appaiono come citazione evidenziata da linee circolari o rettangolari; altre volte sono invece impressi su un supporto di colore o su uno sfondo geometrico a mo’ di cartiglio disegnato alla maniera cubista. Questa presenza discreta allude in primo luogo alla tradizione, antica anche nell’arte toscana, di integrare parole nell’immagine e rimanda, ad esempio, alle terzine inscritte sugli scalini del trono della Maestà di Simone Martini – primo esempio, com’è noto, di terza rima del tipo usato da Dante nella Commedia. In secondo luogo pone la questione di quale sia il ruolo di queste citazioni nel contesto di un’opera pittorica del secondo Novecento. La presenza di parole in un contesto iconico comporta, scrive padre Giovanni Pozzi a proposito del rapporto fra figura e parola nella pittura del Rinascimento, «un’esecuzione, la quale non coincide né con la semplice lettura di uno scritto né con la semplice osservazione di un’immagine». La scritta non è dunque soltanto una didascalia, ma «esplicita un fatto che è insito in ogni iconografia, perché sempre nell’immagine c’è una presenza latente del discorso verbale allo stesso modo in cui nel discorso verbale è latente la configurazione di un’immagine» (G. Pozzi, «Dall’orlo del ‘visibile parlare’», Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi 1993, pp. 462 e 463). Le tavole di Martini richiedono dunque uno sguardo d’insieme, «un’esecuzione» che metta in rapporto dialogico il testo iconico con quello scritto perché l’uno interpreta e commenta visivamente il messaggio dell’altro. Si veda ad esempio la tavola relativa al Canto IV dell’Inferno dove, su un astratto cartiglio di colore, sono riportati i vv. 25-32. L’interpretazione di Martini raffigura la risposta alla domanda che Virgilio suggerisce a Dante, «Tu non dimandi / che spiriti son questi che tu vedi?», e disegna quella selva «di spiriti spessi» abbozzando le sagome dei vari protagonisti del Canto: la «bella scola» e «la filosofica famiglia» sono raffigurabili nelle figure togate a destra, «Cesare armato» nella figura che impugna la spada, Enea col ramo d’oro nell’immagine piegata a destra, il solitario Saladino in quella scura, seduta in disparte in primo piano. Ugualmente la tavola di Inferno XV instaura un dialogo fra l’immagine e la scritta, anche qui posata su una sorta di cartiglio. Questo quadro ricorda infatti un libro aperto con una chiara allusione al Trésor, l’opera del protagonista del canto, Brunetto Latini. Sulla ‘pagina’ destra sono trascritti i vv. 103-114 in cui lo scrittore risponde alla domanda di Dante sull’identità della schiera dei sodomiti fra cui si trova; sulla ‘pagina’ sinistra si ha l’immagine con Brunetto in primo piano, attore che domina con la sua parola tutta questa sezione ricostituendo il rapporto maestro-allievo che esisteva un tempo fra i due uomini. Si veda anche Purgatorio XXVI dove ai vv. 91-93 («Farotti ben di me volere scemo: / son Guido Guinizelli; e già mi purgo, / per ben dolermi prima ch’allo stremo») corrisponde l’immagine dei lussuriosi nel fuoco purificatore. In primo piano si distingue la figura del poeta bolognese col dito puntato verso «il miglior fabbro del parlar materno», il trovatore provenzale Arnaut Daniel nell’atto di declamare la sua identità nella sua lingua nativa. Com’è noto, questa scena avviene nella parte finale del discorso di Guinizelli, ai vv. 115-148 che chiudono il Canto, mentre quelli riportati nel quadro appartengono al primo momento della sua conversazione con Dante. La scritta e l’illustrazione creano perciò una continuità narrativa fra parola e immagine, una delle molte suggestioni che Martini provoca spesso nel lettore/osservatore, sollecitando memorie di intere scene del poema. Del resto la bipartizione fissa delle tavole fra immagine a sinistra e scritta a destra allude alla figura del libro che talvolta, come nel Canto di Brunetto, diviene un riferimento esplicito. Con questo motivo metapittorico Martini ricorda la genesi delle sue tavole, trasmutazioni visibili di segni linguistici da cui non possono essere disgiunte: il libro per eccellenza nella cultura italiana, la Commedia, rimane così il protagonista sotteso di queste tavole e la sua discreta presenza appare un atto d’umiltà dell’artista post-moderno verso la tradizione.
Anche nell’accostamento di grafia e disegno si nota l’uso accorto che Martini fa del colore, il che è anche un commento tematico. Se le scritte nelle litografie dell’Inferno sono in nero – il colore indelebile della condanna – quelle del Purgatorio riprendono la tinta tenue che domina in ogni tavola o il grigio del lapis nei disegni per creare un tutt’uno armonico con la raffigurazione e sottolineare la diversa atmosfera nel regno della speranza. E a lapis sono trascritti tutti i frammenti verbali che accompagnano i dipinti del Paradiso, dove il testo scritto appare quasi dissolto nel colore. Guardando queste illustrazioni paradisiache vengono in mente le note parole di Dante nel Canto I della terza cantica sull’impotenza della parola umana a raffigurare il trascendente: «trasumanar significar per verba / non si porìa». Martini, seguendo il Poeta, fa infatti retrocedere il testo scritto, mimetizzandolo nelle sue immagini leggiadre e trasparenti cui affida il «visbile parlare». La Commedia di Martini vive all’interno di una lunga esperienza grafica, pittorica e plastica dell’artista, e chi conosce la sua arte facilmente ritrova in queste tavole i suoi caratteri più originali. Così come i ritagli di testo applicati ai dipinti sono messaggi riconoscibili da chi li osserva e li legge secondo la propria esperienza culturale sperimentando, a sua volta, il passaggio da materia a materia, la traduzione intersemiotica da una prospettiva fuori campo, quella del fruitore dell’arte*.

V


In un altro luogo della Firenze medievale, presso la Casa di Dante-Circolo degli Artisti, sono state esposte invece illustrazioni russe di testi danteschi, per le quali rimando agli interventi di Vera Dažina e Lucia Tonini, e una scelta di incisioni dell’americano Michael Mazur, realizzate per l’edizione dell’Inferno di Robert Pinsky. Anche in questo caso siamo di fronte a una lunga gestazione. Mazur, maestro della tecnica del monotipo, artista di rilievo e innovativo in questo ambito artistico e nell’illustrazione letteraria, ha portato a lungo in sé il desiderio di illustrare la Commedia. Studente d’arte a Firenze nel 1956-1957, lesse allora per la prima volta alcuni passi del poema e al suo rientro all’Amherst College in America si iscrisse a un corso su Dante con l’idea, poi abbandonata, di illustrare l’Inferno per la sua tesi di laurea. Solo nel 1992, quando l’amico poeta Robert Pinsky decise di tradurre la prima cantica della Commedia, il progetto grafico a lungo meditato si concretizzò in oltre duecento monotipi, da cui furono scelte le 36 tavole che ora accompagnano la traduzione. Qualche anno dopo, nel 1996, Mazur ‘ritradusse’ le sue tavole in 41 incisioni che, messe a confronto con la prima versione, mostrano come l’artista abbia continuato a elaborare il testo nella sua immaginazione. Queste informazioni provengono dal catalogo, a cura di Ceil Friedman e Giorgio Marini, che nel 2000 accompagnava la prima mostra italiana dell’opera dantesca di Mazur al Museo di Castelvecchio di Verona (Michael Mazur. L’Inferno di Dante, Milano, Electa 2000). In quell’occasione l’artista donò al Museo una serie completa delle sue incisioni dell’Inferno, da cui provengono, grazie alla generosità della sua direttrice e alla collaborazione di Giorgio Marini, le otto tavole esposte alla Casa di Dante e i fogli con i versi in originale e nella traduzione di Pinsky. 
Le circostanze che portarono Mazur a riprendere nel 1992 il progetto a lungo meditato le racconta lui stesso nel catalogo veronese, in cui ricorda la sua reazione a una lettura di Pinsky del Canto XXVIII a Provincetown, nel Massachusetts, dove l’artista vive parte dell’anno: «Ascoltavo in uno stato di sempre maggiore eccitazione, mentre venivo sommerso dai ricordi della lettura che avevo fatto in Italia di questo grande poema. Camminando verso casa quella sera sentivo aumentare ad ogni passo l’urgenza di lavorare a queste immagini…». Un’urgenza che si tradusse subito in una stretta collaborazione con Pinsky: «Leggevo i canti in italiano e poi le traduzioni di Robert che spesso mi arrivavano via fax o ancora in prima stesura. Sottolineavo i passi che mi suggerivano immagini concrete; poi parlavo con Robert dei passi che gli sembravano più incisivi. Cercavo nel testo l’iterazione di certe parole, le descrizioni di luci e atmosfere, i dettagli della trama, gli elementi della numerologia e l’organizzazione formale delle immagini. […] Cominciavo ogni giorno di lavoro concentrandomi su un canto particolare e sulle immagini che mi suggeriva…». Un’urgenza che veniva da lontano, dal soggiorno fiorentino e dalle vicende professionali e storiche degli anni seguenti – sei anni di lavoro per una serie di litografie che illustravano la vita in un ospedale psichiatrico, la guerra del Vietnam e gli assassinii dei Kennedy e di Martin Luther King –, le quali, racconta Mazur, avevano cambiato il suo modo di vedere il mondo. Già nel 1968 il Canto XII dell’Inferno, dove sono puniti i violenti contro il prossimo, gli aveva suggerito un’acquaforte per una serie di tavole contro la guerra. «Chi illustra il poema», scrive Mazur, «porta con sé il proprio contesto storico, le proprie propensioni stilistiche, i limiti e le diversità delle proprie esperienze». In questa ottica, l’artista ‘traduce’ la parola dantesca con il linguaggio visivo tratto dall’esperienza dandosi delle regole precise: far risaltare «il potere viscerale del linguaggio», utilizzare i rapporti formali fra un canto e l’altro per rendere le mutazioni di tono dell’originale, creare immagini convincenti come quelle del Poeta che disorientino l’osservatore nello stesso modo in cui il pellegrino Dante è disorientato, non raffigurare né Dante né Virgilio affinché la reazione dello spettatore sia diretta e non mediata dalla terza persona. Proprio quest’ultima scelta, «questo farci vedere in ‘presa diretta’», questo coinvolgerci in ciò che il poeta ha visto senza intermediari, è un elemento d’originalità nella storia figurata dell’Inferno, scrive Giorgio Marini nell’accurato ed elegante saggio a corredo del catalogo veronese. Così facendo, Mazur spinge le immagini in una dimensione di sogno, in una distanza irreale, come fossero figurazioni dell’inconscio, sintesi emotive a lungo elaborate che si manifestano come astratti paesaggi psicologici.
Ma a mio avviso è il profondo silenzio che avvolge queste illustrazioni la caratteristica dell’Inferno di Mazur: i rumori e il frastuono, le urla d’angoscia e di dolore che risuonano ovunque nel testo verbale qui sono improvvisamente spenti come stessimo guardando un film cui è stato tolto il suono e ci scorressero davanti istantanee di un viaggio muto, surreale. Nell’isolare alcuni elementi del testo verbale, Mazur rappresenta, alla maniera di Edvard Munch, i drammi umani narrati da Dante con pochi e decisi tocchi in una carrellata cinematografica di visioni che emergono da antri e caverne. Insomma raffigura il silenzio. E in questo silenzio sono contenute sia le reazioni di Dante che quelle dell’artista che le ha interiorizzate e fatte riemergere in un icastico aldilà, immobile e eterno. Mazur stesso spiega il procedimento commentando nel catalogo di Verona la difficoltà di dipingere con uno «sguardo d’insieme immenso e allo stesso tempo conciso» la grande ouverture della Commedia. Se le immagini essenziali nel proemio verbale sono la strada verso la luce, la collina che non può essere raggiunta e l’abisso in cui deve entrare il pellegrino, si tratta dunque di estrarle dal contesto verbale e ricomporle visivamente. La doppia traduzione di Mazur di Inf. I, il monotipo e l’incisione, mostra come l’artista abbia operato e come a distanza di pochi anni abbia reinterpretato il tema della selva oscura facendo retrocede e illuminando il cono di tenebre con cui rappresenta la strada che porterà il pellegrino alla luce. Le incisioni sono spesso revisioni dei monotipi, come anche nel caso del Canto XII. Nella prima versione vediamo in primo piano un volto spettrale che sembra avanzare galleggiando con lo sguardo fisso sull’osservatore; nell’incisione l’immagine si replica quattro volte in forme indistinte dallo stesso contorno somiglianti a un banco di meduse sospese nel loro macabro fiume – quasi un esercito all’attacco. La staticità delle figure che si librano nel Limbo intorno a elementi di architettura classica è accentuata nell’acquaforte, dove forme umane sono collocate nello spazio come in assenza di gravità. La bufera infernale che travolge Paolo e Francesca da spirale diventa ellissi, mentre nella seconda acquaforte relativa al Canto V gli amanti sono due teschi sospesi nell’atto di baciarsi sopra il libro galeotto: il turbinio del vento sembra averli spinti in una laguna, «mentre che ‘l vento, come fa, si tace» e una bonaccia permette il dialogo fra Francesca e Dante. Solo nella tavola finale Mazur introduce il colore, quel «dolce color d’oriental zaffiro» che avvolge la montagna del Purgatorio «oltre il pertugio tondo», lo stesso colore con cui ora l’artista ha iniziato a illustrare la seconda cantica. Gli siamo grati per averci concesso l’onore di pubblicare sulla copertina di questo volume l’immagine del primo canto del Purgatorio appena uscita dalla sua bottega.

VI

Dagli Stati Uniti è arrivato alla Casa di Dante anche il primo volume, l’Inferno, di una curiosa edizione americana della Commedia pubblicata in 100 esemplari rilegati in pelle nel 2003 dalla Trillium Press, cui sono seguiti analoghi tomi per le altre due cantiche nel 2004 e nel 2005 e la versione economica dei tre libri per la Chronicle Book di San Francisco. L’illustratore Sandow Birk e l’amico giornalista Marcus Sanders hanno adattato il testo ad uso e consumo dei lettori americani trasferendo la prima cantica a LosAngeles, la seconda a San Francisco e la terza a New York – un viaggio alla Kerouac all’incontrario, dall’epicentro del postmoderno, del fast-food e del simulacro alla città simbolo della prima modernità. Quanto alla riscrittura, s’immagini la Commedia raccontata, magari in un viaggio coast-to-coast, a chi non ha dimestichezza col testo letterario e ha modellato la propria immaginazione sullo schermo catodico, sui consumi di massa, i video giochi e internet. La volgarizzazione del testo, definita nella premessa al primo volume analoga a quella operata da Dante, fa sprofondare il registro linguistico nel colloquiale e nel kitsch infarcendo la parola di Virgilio di ok e quella di Dante di colorite espressioni e battutacce che riducono il tutto a una parodica riscrittura del poema e i due personaggi a caricature. Le similitudini aggiunte a quelle dantesche per rendere ancora più estrema l’americanizzazione del testo attingono dal mondo dei consumi e dell’attualità. Maometto «rotto dal mento infin dove si trulla» in Inf. XXVIII diventa «ripped / open like a bag of potato chips or Cheetos», ovvero ‘rotto come una busta di patatine o snack di mais’; le anime del pozzo infernale all’inizio del XXXIV sono rappresentate come «flies caught in clear Jell-O», cioè mosche impaniate in una nota marca di gelatina. Nella foga attualizzante i curatori includono fra i violenti contro il prossimo di Inf. XII anche i due Bush e Reagan; Elvis, John Belushi e Oprah Winfrey, la regina del talk-show americano, figurano fra i golosi in Purg. XXIV, e così via. 
Le illustrazioni di Birk sono anch’esse una riscrittura postmoderna di un classico perché le popolari tavole di Gustave Doré divengono qui il cartone per un’operazione grafica assai interessante. Ricalcando l’impostazione delle immagini ottocentesche, l’illustratore californiano sostituisce gli sfondi di Doré con scenari metropolitani che ritraggono gli estremi sviluppi della società urbana econsumistica, tant’è che potremmo definire l’Inferno di Birk un’immensa pattumiera, un’apocalittica visione della decadenza postmoderna. Il Poeta è raffigurato nei panni di un giovane qualunque in jeans, maglietta e scarpe da tennis, munito talvolta di zainetto, skate-board e bibita con cannuccia, oltre che di giacca a vento e cappellino per ripararsi dal freddo nei pressi del Cocito; Virgilio, invece,ricorda un barbone metropolitano avvolto in striscioni pubblicitari o bandiere americane a mo’ di toga. La prima tavola mostra ad esempio il Dante di Birk nella stessa posa datagli da Doré, ma circondato da una selva di detriti urbani, in un angolo d’anonima periferia con un’insegna che la dichiara Hell, Inferno. Gerione è un elicottero che li preleva da una discarica, il Minotauro una statua su un chiosco di cibo greco, la porta dell’Inferno ricorda uno dei tanti tunnel che immettono nelle città americane. Ovunque si vedono insegne pubblicitarie di prodotti commerciali, popolari catene di caffè e alberghi, semafori, auto e tutto l’armamentario dei caotici centri urbani. Un cammeo all’iniziodi ogni sezione contiene un elemento di vita contemporanea americana su cui è inscritto il numero del canto: nel primo troviamo un carrello del supermercato capovolto e abbandonato, poi un parchimetro, un’indicazione stradale, una lavanderia, un telefono pubblico, un hamburger con patatine ecc. Se incuriositi dalla riscrittura grafica di Birk, si possono sfogliare gli altri due volumi e Beatrice ci apparirà in mini abiti e tacchi a spillo, in Times Square, nei pressi del Brooklyn Bridge o in metropolitana dove, ad esempio, è ambientato il Canto VII del Paradiso, con la donna che spiega a Dante il mistero dell’Incarnazione e della Resurrezione tenendo stretta la borsetta nel corridoio di un vagone. Insomma – da Robert Rauschenberg, che dal 1958 al 1960 illustrò l’Inferno trasferendo sulla carta immagini da riviste e giornali, a Sandow Birk e al disegnatore di fumetti Seymour Chwast, autore di un coloratissimo Diagramma del poema pubblicato sul New York Times nel 1999 – la grafica americana, come la poesia, ha reinterpretato liberamente il poema dantesco. E la Commedia,che nell’Ottocento appariva un ideale modello estetico, è arrivata ad essere per l’artista postmoderno un paradigma per la rappresentazione della crisi di un impero che ha visto infrangersi i suoi miti e sogna, attraverso Dante, l’espiazione e la redenzione. 

VII

Per accennare anche alla fortuna che la Commedia ha avuto nel cinema, abbiamo presentato presso la Casa di Dante e in collaborazione con la Mediateca Regionale Toscana spezzoni di film dell’epoca del muto d’ispirazione dantesca, fra cui L’Inferno (1911) di Adolfo Padovan e Francesco Bertolini, prodotto dalla Milano Films, considerato il primo lungometraggio del cinema italiano e uno dei primi esempi di adattamento di un’opera di letteratura alle esigenze dello spettacolo cinematografico, con precise allusioni ai disegni di Doré.
Quanto alla musica, il violinista statunitense Gil Morgenstern ha accompagnato le letture poetiche eseguendo Dante’s Suite for Solo Violin del compositore Bruce Saylor, opera ispirata all’Inferno di Dante tradotto da Robert Pinsky. Infine, per il teatro, il regista Giancarlo Cauteruccio ha messo in scena passi della Commedia in inglese, russo, italiano e dialetto calabrese nella prestigiosa cornicedi Villa La Pietra della New York University. Ma la manifestazione non poteva non coinvolgere anche le scuole e, al Liceo Machiavelli-Capponi, Frank Ambrosio della Georgetown University ha presentato agli studenti My Dante: the Journey to Freedom, strumento multimediale per lo studio della Commedia.

VIII

I diversi eventi si sono svolti in vari luoghi della città, ognuno scelto per il suo valore simbolico in rapporto alla figura del Poeta e alla cultura contemporanea di Firenze. Con l’apertura nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio abbiamo voluto legare la manifestazione ai tributi offerti a Dante in quella sede da grandi poeti del recente passato. Nel marzo del 1995, per iniziativa di «Semicerchio», il premio Nobel Josif Brodskij, il grande poeta-dantista della tradizione russa, ricevette qui il Fiorino d’oro e offrì una memorabile lettura della sua poesia. Proprio il titolo di un saggio di Brodskij su Eugenio Montale, All’ombra di Dante, potrebbe siglare la nostra manifestazione, in particolare il primo incontro durante il quale i cinque poeti intervenuti – Edoardo Sanguineti, Yusef Komunyakaa, Robert Pinsky, Olga Sedakova e Elena Švarc – hanno letto ciascuno un testo ispirato a Dante di autori del loro paese facendosi così portavoce del dantismo nella loro tradizione. Ma la memoria culturale della città ha richiamato nel Salone dei Cinquecento anche l’ombra di un altro grande maestro della poesia contemporanea, l’americano Robert Lowell, che pronunciò in quella sede il suo tributo a Dante durante la celebrazione del VII centenario dantesco nell’aprile del 1965. «Penso che Dante», disse a conclusione del suo discorso, «sia più vicino agli americani che agli inglesi. Si accorda bene con i geni oscuri e allegorici di Hawthorne e Melville, soddisfa il nostro incauto fervore protestante e il nostro desiderio di liberarci del passato britannico». Alla cerimonia era presente anche Eugenio Montale che lesse il saggio ora intitolato Dante, ieri e oggi. Prendiamo dunque questi maestri, «la lucidità dell’ombra» che proietta la loro poesia, per usare un’espressione di Mario Luzi – un altro grande poeta dantista contemporaneo che non può non essere evocato nel Salone dei Cinquecento –, prendiamo queste ombre di illustri poeti e traduttori, questa bella scola internazionale della contemporaneità, quali eredi del patrimonio dantesco delle loro rispettive culture nell’auspicio che gli esiti della manifestazione che pubblichiamo in questo numero possano segnare l’inizio di una nuova esplorazione delle opere che l’arte di Dante ha di volta in volta generato. 


* Questi commenti sono tratti dal mio saggio “Il visibile parlare. La Commedia illustrata da QuintoMartini”, in QuintoMartini. Omaggioa Dante, catalogo dell’intera opera dantesca dell’artista, a cura di Luciano e Teresa Martini, uscito in occasione della mostra in collaborazione con la Syracuse University in Florence (Firenze, Aión Edizioni 2006).


 

 


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