« indietro Questo seminario è stato il nucleo germinale del festival, il progetto dal quale e intorno al quale è cresciuta questa costellazione veramente inedita di incontri, esposizioni, letture, concerti: il cuore pulsante dell’esplorazione sulle capacità generative dell’arte, dalla testualità intertestuale delle riscritture poetiche alla testualità transtestuale e poligenerica dell’arte e della musica. Sappiamo che, quando ci si occupa di teoria e tecniche della traduzione, le tracce di Dante sono inevitabili e ci portano abitualmente lungo i crinali di tutte le letterature occidentali, dalla traduzione intralinguistica alla traduzione intersemiotica. Ma fra queste certamente l’italiana, la russa, e soprattutto la statunitense sono le culture dove forse più che in tante altre il modello dantesco ha esercitato e continua ad esercitare un ruolo generativo.
Per promuovere un’esplorazione anche solo campionaria di queste germinazioni avremmo davanti diverse modalità: potremmo confrontare traduzioni diverse all’interno di una stessa tradizione letteraria o con tradizioni esterne, traduzioni con riscritture, riscritture testuali con interpretazioni teatrali, musicali o visive. Ognuna di queste strade, impossibili da percorrere tutte e perfino da articolare in una gerarchia consapevole, è anche un modo di visitare le soglie di un monumento non cercando di capirne le intenzioni ma esplorandone gli effetti, le influenze, un risalire al volto dell’uomo guardando i suoi figli e i suoi nipoti. Cercare nei riflessi che la nostra epoca cerca di rimescolare le potenzialità generative del testo originario.
È anche un modo per superare la museificazione del classico con una via d’uscita diversa dalla pura spettacolarizzazione o lettura imitativa, pur benedette. Ci è sembrato che fosse nella natura, o come si dice oggi nella ‘missione’ di «Semicerchio» scegliere il confronto delle traduzioni e delle riscritture testuali, e interrogare i poeti russi e statunitensi che si sono impegnati in questa sfida suprema: è una fortuna insolita, per chi come me si occupa di letterature antiche, poter interpellare direttamente gli attori letterari, traduttori e interpreti, e metterli in dialogo reciproco. Ascolteremo su questo punto soprattutto Robert Pinsky, autore della più diffusa e celebrata traduzione inglese dell’Inferno.
I problemi che si aprono sono naturalmente moltissimi, e in poche ore potremo soltanto sfiorarli. E sono problemi che – più che a un medievista interessato alla tecnica della traduzione, come me – potranno essere affrontati da colleghi con competenze americanistiche e slavistiche.
Potranno esserci questioni comuni a qualsiasi traduttore: molti di questi problemi sono venuti fuori quando è stata pubblicata la traduzione dell’Inferno di Robert Pinsky, che è stata occasione di riflessioni traduttologiche generali. Anche «Semicerchio» si espresse sulla traduzione di Pinsky pubblicando in italiano una recensione favorevole di Jan Ziolkowski, che aiutò a mettere a fuoco alcuni problemi, così come fecero altri articoli. Ma successivamente le recensioni si sono succedute fino al noto premio riconosciuto al poeta per il suo lavoro, e il dibattito ha dato luogo anche a interventi di qualche peso scientifico come il saggio Dantes’ Inferno: translations di Jean Charles Altieri che ha proposto una rapida ma efficace valutazione comparativa dei lavori di Singleton, Ciardi, Pinsky, Longfellow, Mandelbaum e Musa che aiuta in misura significativa a comprendere le ragioni e le caratteristiche di ognuna di queste traduzioni.
Anche in base ai punti messi a fuoco da questo dibattito proverei a enucleare alcune delle questioni che il seminario può affrontare:
a) La scelta fra prosa e di poesia, Singleton o Steve Hellis.« It is Singleton’s prose that remains faithful to the rhythmic flow of Dante’s poetry» (Altieri 3). E, in conseguenza di questa scelta, l’inevitabile questione: «should it be the poet’s voice that is heard, or the voice of the one who is making the poet accessible in another language?» (Musa IX).
b) La scelta del metro: la soluzione di Ellis di un ottonario senza rima per restare fedele al testo «without padding it unnecessarily», per mantenere la «concision and economy» di Dante. E, a latere: è poi vero che la fluviale scrittura dantesca è caratterizzata da ‘concisione’?
c) La scelta della rima, con la famosa soluzione di Pinsky della consonanza, specie su rime femminili, al posto dell’assonanza o della rima piena; una scelta che risale a caratteristiche dello stile di Yeats e che lascia maggiore libertà; ma è vero, come lamentano i traduttori, che l’inglese pur essendo molto più ricco di vocaboli dell’italiano ha molte meno rime? Oppure il problema è che la rima comporta scelte di lessico che il lettore di poesia del 2000 potrebbe giudicare non più sopportabili? Il problema si sposterebbe in questo caso sulla scelta del registro lessicale adeguato a comunicare Dante al lettore di oggi, spingendoci a chiedere se esso consenta o richieda arcaismi.
d) La scelta del linguaggio e del tono, e problemi ovviamente specifici a una lingua e a una specifica tradizione poetica, a seconda della distanza fra il suo lessico poetico e il lessico quotidiano: una di- stanza che nella produzione poetica italiana è oggi minima, a parte alcune eccezioni, ma che forse in altre tradizioni pone problemi diversi.
e) La letteratura americana, ad esempio, si confronta con Dante da secoli e produce quasi ogni decennio una nuova versione del poema, in concorrenza con la tradizione britannica, entrambe fondate sulla so- vracanonizzazione della Divina Commedia assai più di quanto lo sia la cultura russa. Su questo ascolte- remo gli interventi introduttivi di Massimo Bacigalupo, di Michail Andreev e Stefano Garzonio.
f) Ma un versante relativamente inesplorato, che qui vorrei proporre per aprire un capitolo ulteriore di questa ricognizione, secondo un orientamento che sta molto a cuore alla rivista, è l’effetto che le traduzioni inglesi e russe della Commedia hanno esercitato sulla produzione poetica originale della propria letteratura. Su questo elemento potremo ascoltare dantisti-poeti statunitensi come Robert Pinsky e Yusef Komunyakaa, russi come Olga Sedakova, italiani come Edoardo Sanguineti, e per le ultime generazioni Rosaria Lo Russo e Massimiliano Chiamenti, e studiosi come l’anglista Doro- thea Barrett e l’americanista Antonella Francini, gli slavisti Guido Carpi e Stefania Pavan, l’italianista Adele Dei, direttrice del Dipartimento che ospita questo seminario, e alla quale va il nostro ringraziamento.
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