« indietro L’opera di Dante comprende libri diversi tra di loro per natura e per destinatario: dalle liriche amorose alla scienza enciclopedica, dalla politica all’astronomia, dalla linguistica alla poesia pastorale.
Nella Questio de aqua et terra in particolare, un Dante scienziato parla in latino, dunque a un pubblico maschile e colto, di geografia, di masse, di attrazioni planetarie, di curvature terrestri, senza mai un riferimento alle fantasie mitopoietiche dei crateri infernali, degli atlantidei monti purgatoriali, nonché dei cieli empirei con le loro mistiche rose.
Ma è solo nella Vita Nova e nella Commedia che tutti gli elementi rapsodici, ibridi ed eruditi del suo vastissimo sapere e delle sue molteplici curiosità si organizzano in racconto, in un grande récit. Sia la Vita Nova che la Com- media infatti sono, oltre che opera di poesia, dei racconti lineari, delle narrazioni, delle scene teatrali con dei personaggi in azione.
Nella Vita Nova veniamo a sapere di come Dante da ragazzo piangesse spesso, romanticamente, in camera sua e di come sognasse freudiane visioni di ragazze nude e di dolci angeli biancovestiti che si sedevano vicino al suo letto, leggiamo di feste di matrimonio con sale affrescate e gruppi di giovani donne che ridono, deridono e scherzano, il tutto immerso in un’atmosfera quanto mai onirica ed eterea, vaga- mente indeterminata e rigorosamente anonimica.
Nella Commedia leggiamo di un viaggio lunghissimo che inizia nel bel mezzo di una crisi di mezz`età e si conclude, dopo mille e una avventure, con un finale agrodolce: si arriva sì all`illuminazione finale, al satori, ma non si può descrivere Dio perché è un Ente per definizione ineffabile, innominabile, irraffigurabile.
Nella poesia di Dante che resta e che resterà ci sono soprattutto attori, gesti, storie, movimenti, cambi di in- quadratura, paesaggi, primi piani, dissolvenze incrociate, montaggi paralleli e alternati, accelerazioni e rallentamenti dei tempi del narrato. Nella poesia di Dante il tempo scorre e le cose cambiano, c’è un prima e c’è un poi, c’è un plot organizzato in una continuità. Certo, tutto questo discorso, tutta questa diegesi poi si deposita e si sedimenta in poe- sia, in versi misurati e rimanti, ma questa istanza di narra- tività c’è fino dall’inizio della Vita Nova, quando Dante attacca con una stupenda pagina di prosa già prima del primo sonetto, e partendo da un luogo collocato entro il tempo: «In quella parte del libro de la mia memoria...».
Nella Commedia dominano i verbi, le ellissi, le compressioni, tutti quegli elementi che insomma concorrono alla creazione di un mito ancestrale vibrante e pulsante, una favola, una parabola, una catena di eventi incalzanti che hanno un inizio, uno svolgimento, e una fine. Dante nella Commedia è un eroe e un anti-eroe al tempo stesso, ha dalla sua parte alcuni amici ed amiche, e dalla parte av- versa nemici e nemiche terribili che lo ostacolano, lo bloc- cano soprattutto nel movimento fisico, nel procedere, che lo raggelano: massimamente, il volto di Medusa.
Oggi, mutati i media con cui gli artisti hanno imparato ad esprimersi, forse solo il genio di Spielberg potrebbe ren- dere in un film, in un nastro di inquadrature dinamiche e umanamente parlanti questa storia bellissima che ha per ti- tolo semplicemente Commedia, questa storia che inizia anche questa come la Vita Nova da un luogo memoriale del proprio autobiografico tempo passato: Nel mezzo del cammin di nostra vita..., e che finisce proprio con un’im- magine di rotazione, analoga a quella di una bobina cinematografica attorno al perno di una macchina: «l’amor che move il sole e l’altre stelle.»
Già, perché la Commedia è una vicenda, una saga di proporzioni cosmiche, divisa in tre fasi, in tre movimenti come una sinfonia, è un trilogia, un trittico, un trinomio, uno spettacolo teatrale in tre atti, o una serie di tre episodi - come le tre puntate delle Star Wars di George Lucas (Star Wars, 1977; The Empire Strikes Back, 1980; The Return of the Jedi, 1983) - ciascuno in sé conchiuso nella sua trama, eppure tutti collegati ed interconnessi da un arcano sovrasenso.
Quella di Dante è sempre poesia che vive di una sua inerente fisicità, che si compie e si modella nel tempo e nello spazio, che vive di una costante pulsazione propellente in avanti, popolata da una miriade di piani sequenza che fotografano le forme più bizzare e contraddittorie degli animali sociali, come nelle carrellate di Federico Fellini. E di questo motore trifase, l’impeto che fornisce la maggiore spinta, il più potente, è proprio l’Inferno, quello che mostra in modo così diretto e onesto al lettore moderno gli orrori e gli arbitrii mostruosi della religione cristiana, ma in generale di ogni religione, di qualsivoglia oppio di qualsivoglia popolo.
L’amore all`Inferno è violentato, umiliato, ridotto a sbatacchiamento violento tra colpi di vento micidiali, è sofferenza umiliante sotto docce ustionanti presso inameni deserti e fiumi di sangue. Gli altri, i non-cristiani, gli stranieri, sono marginalizzati, posti nella malinconia di un de- siderio inappagabile, rinchiusi nel deserto dei Tartari di una fortezza circondata da una settemplice muraglia. Tutte le forme di sadismo psicopatico, di lesivi disturbi della personalità sono raffigurate nell’Inferno, un luogo dove le vittime si fanno a loro volta carnefici: nell’Inferno di Dante possiamo oggi vedere la preconizzazione dei campi di concentramento nazisti e dei gulag, delle cacce alle streghe cattoliche e puritane, delle decapitazioni islamiche. Dante ci porta per mano in un mondo in cui l’innocente e l’assassino convivono, un mondo in cui le più grandi menti dell’umanità sono costrette senza una loro colpa a una condizione inferiore e degradante, senza mai uno spiraglio, senza mai una via di uscita.
Nell’Inferno di Dante c’è l’introiezione di un qualcosa di folle, di fanatico e di morboso a originare la rappresentazione e la deformazione caricaturale di così tante persone e moltitudini sofferenti, dove prostitute che si feriscono da sole graffiandosi con le unghie sporche di escrementi e mimano amplessi con l’aria sono poste più in basso dei tiranni più sanguinari della storia, e questo solo per aver detto un patetico complimento al loro patetico cliente.
Dante ci insegna dunque, con paradosso solo apparente, a raccontare la tolleranza e il relativismo, perché ci mostra, e converso, l’enormità del male a cui portano le ossessioni religiose tutte: la repressione del proprio autentico io genuino, l’ipocrisia, la guerra feroce e instancabile contro tutte le altre culture, le altre religioni e le altre forme di pensiero, la conseguente smania alienante e aberrante di potere e di arricchimento, smania progressivamente crescente, insaziata e insaziabile.
Lungi dall’essere un libro funzionale al sistema di potere clericale del suo tempo, la Commedia colloca i personaggi intellettualmente più raffinati proprio all’Inferno, e ci mostra la loro grandezza incontaminata dalla barbarie feticistica dell’arbitrario e macabro credo dominante: Omero, Socrate, Platone, Aristotele, Ippocrate, Avicenna, Averroè, Cicerone, Virgilio, Ovidio, Orazio, Farinata degli Uberti, il maestro Brunetto Latini, l’amico Guido Cavalcanti (sebbene implicitamente) e così via sono tutti a marcire in quel buco sottoterra, ma sono pertanto, e anche grazie a quella orribile e ingiusta censura contro di loro, ancora oggi nell’immaginario collettivo universale.
Mostrando la malafede interna al contrapasso, a qualunque contrapasso, Dante (che nell’Inferno piange, so- spira, geme, impreca, si lamenta, protesta e perfino sviene) crea così nel suo reame ipogeo un forum di discussione e un monumento alla riabilitazione e alla rivalutazione dei presunti ‘cattivi maestri’: i suoi, e così i nostri. La scrittura di Dante, la sua inesauribile invenzione immaginifica, la sua impareggiabile fucina linguistica, ci racconta paradossalmente una storia di universale tolleranza e di elogio dell’intelligenza, quella che ci occorre per leggere con la dovuta empatia, con la dovuta profondità.
Questo è il messaggio che l’antica poesia di Dante invia alla poesia che oggi si dirama nell’universo globale, il messaggio di un isolatissimo ed innocente esule al nostro pianeta terra, quella piccola e bella «aiuola che ci fa», stupidamente e autodistruttivamente, così «tanto feroci».
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