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Yusef Komunyakaa, Premio Pulitzer nel 1994, Senior Distinguished Poet alla New York University, dove insegna scrittura creativa, è autore di 14 volumi di versi, libretti, saggi, testi teatrali e canzoni. In italiano sono uscite le antologie Il ritmo delle emozioni (Liberodiscrivere 2004) e Totem (Le Lettere 2006) a cura di Antonella Francini. Flesh è un monologo in cento versi, composto appositamente per la manifestazione dantesca di Firenze, in cui un’inedita Beatrice si rivolge al lettore e reclama la sua fisicità e i suoi desideri di donna reale. Così spogliata delle vesti di musa, dipinge un autoritratto che è anche un commento di Komunyakaa sull’ispirazione poetica, sul rapporto di continuità e rottura con la tradizione lirica, sul ruolo del poeta contemporaneo e della poesia quali agenti cui è richiesta una concreta aderenza alla storia della loro epoca.

FLESH

 

You wish to know if I cherished a thought 

beyond lore & decorum, if a bloodless virtue

like some fury of wings beating in a cage 

ushered me beyond paradise. Unbelievable

as I am, I shall say this: if I am Beatrice

or Beatitude, muse or pale siren, I am flesh 

born to another dream of flesh. If I am clay,

it is the same merciless clay you are made of, 

with a red vein of iron running through it, the same

naked prayer in the dark holding the song together.

 

The one who tried to raise me above the laws

of Nature & praise me into unearthly perfection 

was my brother’s friend, who called Love his Master,

& I can remember the first time his eyes

strained to unlock the lonely temple of my bones: 

we were both nine years old, reposed in the day’s

scripture. Attired in crimson lighter than breath 

& memory, I daydreamed of my wooden dolls

asleep in identical beds, cast into a world of reason.

It was not a Sabbath divided by three.

 

I inherited the Virgin Mary’s guarded gaze

& smile. As the years passed, I knew nine 

was its own circle as I crossed cobblestones

between my two chaperons. That day 

I spoke his name at the edge of a sigh,

I did not know I was entering a ledger 

of remembrance, & did not wish to be

a woman purely rhymed out of words.

When Love mastered my creator, Love was

a man or phantom, but I was born Beatrice.

 

Did my red hair & pale skin make me angelic 

in a country of raven hair? My creator

wrote down every white bone in my body, 

but he did not know the right questions

to summon me to desire. He did not know

 nobility seldom resides in the noble,

that gold or silver always finds a way to work

its way out of the black earth, to force

the sun to make it dance in the air. 

He did not know I hurt to know.

 

I love sun & rain on my skin. My suitor

& conjurer, is that the burden, the curse, 

the gift? Does wisdom make my eyelashes

tremble, does it draw the blood forth, unearth 

temptation? When innocence measured me

from crown to a dancer’s arch, the Furies 

marked my path. He said my name

& the day turned to gulls crying – stolen 

out of his mouth & put back into mine.

I am my own communion wine & bread.

 

I am the lost breath of medieval desire,

but not a false image, a sonnet, a canzone, 

or a hidden metaphor. Let me measure

an unrhymed lament along the path

into the trees. If I am wrong or outdistanced, 

if I lose my way or marry a banker’s son,

then let the sunlight undermine my stride 

as a vein of pleasure unties my body

& unholy mind from the firmament,

its fiery lessons written in his master-text.

 

Though my family name bequeathed me

to a rich man & I ate only sugared almonds 

on my wedding day, I trust a bird cried

nightlong on the bedroom windowsill.

The one who shaped me from the vernacular 

sang also of harmony, but I wished for love

to speak to me as a human being out of Ovid, 

from the blood of birth & death. I was happy

a whisper finally shook my heart awake 

in this city of beautiful desolation.

 

Imbued with shame? How can we deny 

a rose its thorns? I wish an infidelity

of memory, if human means not to know shame 

& guilt in the worm-eaten afterworld.

Because there is neither a sweet style

nor truth in purest white, I crave the dark bread

of Tuscany & sun-ripened figs. God did not wound me 

with pity, but made me to love beyond reason

& to know the salt of tears, to pray & defecate,

& to stand reflected by the clear waters of the Arno.

 

I was made to praise the winter sparrow 

on its naked branch. My creator’s eyes

failed to reach into my beatitude,

into the marrow & laughter, into the sorrow 

& doubt. He & his old river of words –

I came to myself on the bank of Lethe, 

lost in chance, carried by a desirous wing.

My last garment had fallen to the ground, 

& a battered angel entrusted me her credence.

I walked behind mystery’s first sister.

 

I was not numerology or philosophy. Because 

my creator could not imagine me as a woman

in his arms, he dreamt me an early death 

in his head. The word made flesh.

My name grew into a sonata he learned 

to put back into his mouth, an echo

of his voice in the wind. My blood seethed 

into his words, an immaculate conception

in reverse, & no one could keep God’s worms 

out of the tomb after I died in childbirth.


CARNE

 

Vuoi sapere se mi fu caro un pensiero

oltre tradizione & decoro, se una virtù esangue 

come furore di sbatter d’ali in una gabbia

mi scortò oltre il paradiso. Inverosimile 

come sono dirò questo: se sono Beatrice

o Beatitudine, musa o smunta sirena, sono carne 

nata da un altro sogno di carne. Se sono argilla,

è la stessa argilla impietosa del tuo corpo, 

solcata da una rossa vena di ferro, la stessa

nuda preghiera nel buio che tiene insieme il canto.

 

Colui che tentò d’innalzarmi oltre le leggi

di Natura & lodarmi quale celeste perfezione

era amico di mio fratello, chiamò Amore suo Signore, 

& ricordo il primo sforzo dei suoi occhi

per aprire il tempio nudo delle mie ossa: 

avevamo nove anni, riposati nella scrittura

del giorno. Ornata di porpora più leggera di respiro 

& memoria, sognavo le mie bambole di legno

assopite in letti uguali, gettata in un mondo di ragione. 

Non era un sabato diviso per tre.

 

Della Vergine Maria ereditai sguardo misurato 

& sorriso. Cogli anni seppi che il nove

era il suo stesso cerchio traversando selciati 

fra le mie due compagne. Quel giorno

pronunciai il suo nome sull’orlo d’un sospiro, 

non sapevo d’entrare in un libro mastro

della memoria, & non volevo essere 

donna fatta solo di parole in rima.

Quando Amore dominò il mio creatore, Amore fu 

un uomo o fantasma, ma io ero nata Beatrice.

 

In un paese di chiome nere mi resero angelica 

capelli rossi & pelle chiara? Il mio creatore

mise per scritto ogni osso bianco del mio corpo, 

ma non sapeva le suppliche giuste

per chiamarmi al desiderio. Non sapeva che 

nobiltà di rado risiede nel nobile,

che oro o argento trova sempre un modo 

d’aprirsi un varco nella terra scura, costringere

il sole a farlo danzare nell’aria.

Non sapeva che sapere mi fa soffrire.

 

Amo sole & pioggia sulla pelle. Mio pretendente 

& mago, è questo il fardello, la maledizione,

il dono? Mi fa tremare le ciglia la saggezza, 

fa scorrere il sangue, dissotterra

tentazioni? Quando l’innocenza mi misurò

dalla tonsura al piede arcuato di ballerina, le Furie 

segnarono il mio sentiero. Lui disse il mio nome

& il giorno mutò in un grido di gabbiani – rubato 

dalla sua bocca & ridisposto nella mia.

Sono vino & pane della mia comunione.

 

Sono il respiro perduto del desiderio medievale, 

non un’immagine falsa, un sonetto, una canzone,

o una chiusa metafora. Fa’ ch’io misuri 

un lamento senza rima lungo il sentiero

fra gli alberi. Se sono in errore o oltre il mio potere, 

se mi perdo o sposo il figlio d’un banchiere,

allora lascia che il sole m’insidi il passo

mentre una vena di piacere scioglie il mio corpo 

& l’empia mente dal firmamento,

le sue ardenti lezioni scritte nel gran testo.

 

Benché il mio casato mi facesse l’erede

d’un ricco & mangiassi mandorle glassate soltanto 

il giorno delle mie nozze, un uccello son certa gridò

tutta la notte sul davanzale della finestra.

Colui che mi scolpì dal vernacolo

cantò anche d’armonia, ma desideravo amore che 

mi parlasse come un essere umano d’Ovidio,

dal sangue della nascita & della morte. Fui felice

che un bisbiglio infine scosse dal sonno il mio cuore 

in questa città di splendida desolazione.

 

Impregnata di vergogna? Come negare

a una rosa le spine? Voglio un’infedeltà

di memoria, se umano significa ignorare vergogna 

& colpa nell’oltrevita divorata da vermi.

Poiché non c’è né un dolce stile né verità n

el bianco più puro, bramo il pane nero

di Toscana & i fichi maturi di sole. Dio non mi ferì 

con pietà di me, mi creò per amare oltre ragione

& conoscere delle lacrime il sale, pregare & defecare, 

& ergermi riflessa nell’acque chiare dell’Arno.

 

Fui fatta per lodare il passero dell’inverno 

sul ramo nudo. Gli occhi del mio creatore

non seppero raggiungere la mia beatitudine, 

il midollo & la risata, il dolore

& il dubbio. Lui & il suo vecchio fiume di parole – 

tornai in me sulla riva del Lete,

perduta nella sorte, portata da un’ala di desiderio. 

La mia ultima veste era caduta a terra,

& un angelo oltraggiato affidò a me la sua fede. 

M’incamminai dietro la prima sorella del mistero.

 

Non fui numerologia o filosofia. Siccome

il mio creatore non seppe immaginarmi donna 

fra le sue braccia, sognò per me una morte precoce

nella sua testa. La parola fatta carne.

Il mio nome divenne una sonata che imparò 

a ridisporre nella sua bocca, un’eco

della sua voce nel vento. Il mio sangue ribollì 

nelle sue parole, un’immacolata concezione

all’incontrario, & nessuno seppe tenere i vermi di Dio 

lontani dalla tomba dopo che morii dando alla luce.

 

(Traduzione di Antonella Francini)


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