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PER UNA STILISTICA ESSENZIALE:
L’ULTIMO LUZI

di Michela Landi

Dedichiamo alla memoria di Mario Luzi questo saggio, frutto di una lezione che Michela Landi ha tenuto sullo stile delle sue opere più recenti per il corso 2005 di scrittura creativa di Semicerchio. È un atto di rinnovato amore e si inscrive nella lunga attenzione che la rivista ha sempre prestato al Maestro scomparso, nel solco di un rapporto iniziato molti anni fa, quando Luzi ci aiutava a selezionare le poesie da pubblicare e ci consigliava sul tema monografico, per continuare con le diverse lezioni – memorabile quella su L’endecasillabo - da lui tenute ai nostri corsi (e poi confluite nei capitoli di Lezioni di poesia, uscito per Le Lettere nel 2000), la partecipazione ai convegni su Bibbiae poesia (in un indimenticabile trio con Bigongiari e Macrì di cui abbiamo trascritto i testi in La Scrittura infinita. Bibbia e poesia in età romantica e contemporanea, Olschki 1999), la poesia presentata per la grande lettura collettiva contro la bomba dei Georgofili e la collaborazione ad altre iniziative della rivista. Anche su queste pagine sono uscite più volte recensioni e ricerche sulla sua opera, specialmente in relazione con la poesia estera. Continueremo a studiarne i versi e coltivarne la memoria come quella di un maestro, la cui parola – scritta o pronunciata – creava in noi, vicini, una profondità spirituale che nessun altro autore italiano del suo tempo ha saputo comunicarci. F.S.

La gravità trascendentale del dettato luziano intimidisce, a fortiori, coloro che si apprestano a trattarlo a partire dalla sua ‘immanenza’ scritturale. Tale disagio può essere ascritto a quella dualità inveterata tra opera e testo – mente e corpo – che genera presupposti idealistici da un lato, materialistici dall’altro. Aleggia spesso, intorno allo studio delle forme, l’idea di una irriverenza, o peggio, di una profanazione della metafisica dell’opera e dei sommi, quanto imperscrutabili, intenti autoriali. Il che fa proliferare, accanto al biografismo congetturale, suggestive quanto soggettive parafrasi dei contenuti. Più motivate, nel caso specifico di Luzi, dal carisma sovrastante della persona che non da quello, criptico – quanto lucido in profondità – della scrittura. Il superamento della dicotomia opera-testo e l’affermazione di uno spirito di continuità e immanenza del pensiero nella sua fenomenicità linguistica sono invece possibili se si viene a riconsiderare nella sua autenticità il concetto di stile: insieme etica della creazione e forma della parola. Dacché, infatti, non è sub specie aeternitatis ma, come evoca lo stesso poeta, sub specie humana(1) che le cose ci sono manifeste, ogni contenuto non può che essere coestensivo alla propria forma. Ora, se lo stile è la specie – habitus – sotto cui si rivela il pensiero, la nostra tradizione lo ha, per secoli, trattato come ornatus: vezzo esteriore, a coprire la nudità – in corpore vili – della parola umana(2). Essendo ogni sostanza ‘predicabile’ solo attraverso i suoi attributi e i suoi accidenti, Benjamin lamenterà la vanità di quella ‘stilistica inessenziale’ che veniva considerata – complice la filosofia hegeliana – come elemento estrinseco ed esornativo del concetto. Ma non furono solo ‘materialisti’ come Benjamin e Lukàcs (il quale asserì, nella sua Estetica (1913) che ogni grande forma è la realizzazione di una grande possibilità etica) a riconoscere questa inveterata aberrazione; anche una certa corrente idealistica – dal Vossler allo Spitzer – riconobbe che lo stile è lo spirito interno alla parola stessa: Geist. Con tali presupposti, l’analisi stilistica – intesa in senso lato come studio dei contenuti attraverso le loro forme – pare l’unica modalità autentica di trattare la poesia, onde scongiurare il sopravvento delle due tendenze estreme, entrambe surrogatorie e riduttive; la prima, atta a fare di essa una copia del linguaggio divino; la seconda a considerarla una pura forma materiale; oggetto alienabile e negoziabile.
Se la mirabile ‘specie’ della parola luziana mette in discussione l’idea tradizionale di stile come scarto (la quale alimenta il dualismo di cui si è parlato), dobbiamo riconoscere che questa può risultare operativa per via di negazione: ossia, mostrando l’inessenzialità e l’inautenticità del concetto di ornatus in una poesia che ha trovato nella forma – grafica, architettonica – della scrittura la propria ragione interna ed il proprio fondamento etico. Tutta la poesia luziana – specie quella più matura – si muove infatti nello spazio, che fu anche dantesco, di una metascritturalità numinosa: forma dat esse. Potremmo definire il percorso luziano come una progressiva conquista di questa autenticità e rispondenza stilistica tra forma e concetto che procede da un’identificazione per mimesi con certe costruzioni del mondo che furono leopardiane o mallarmeane fino all’acquisizione-costruzione di una identità. Superata, insomma, le maniere lirica o ermetica (caratterizzate, rispettivamente, da una volontà dell’accordo e poi del disaccordo con la natura) Luzi giunge alla propria maturità poetica, segnata dall’appropriazione della parola come dell’identità. Tuttavia, già Avvento notturno(3) testimoniava come al mutamento di stile rispondesse un profondo mutamento morale del poeta. Vi si riscontra, innanzitutto, il primo affacciarsi dello stilema più caro al Luzi maturo, l’interrogativa retorica: «Era questa la vita?»; «Verso dove?»; «Rifioriranno i tigli?», mentre all’ordo naturalis di un lirismo pacifico, preponderante nella Barca, si sostituiva un ordo artificialis. Iperbati marcati e fratture tra unità semantica e metrica, con drammatici rigetti venivano a tradurre un descort, una disarmonia etica ed estetica col mondo, quale si manifestava al poeta attraverso una sua fattispecie storico-culturale. La stessa poetica del descort può essere rinvenuta nella non-pertinenza, al nome, della predicazione; segnale di uno straniamento del soggetto rispetto alla realtà fenomenica che impedisce la referenza e la correlazione. Tale predicazione interrotta – che sovverte oltretutto i principi aristotelici dell’immutabilità delle sostanze e della mutevolezza degli accidenti – è dovuta, in Avvento notturno, all’irriducibilità tra l’astrazione predicativa dell’attributo e la concretezza fisica, accidentale dell’oggetto: si ricorderanno gli «indachi ansiosi», le «inattuate rose», i «cani afosi», il «cipresso equinoziale», la «viola trafelata», il «gelo insonne». La progressiva riammissione della parola nell’ordine dell’umano è segnata da Un brindisi e da Quaderno gotico(4) mentre in Onore del vero(5) si afferma la presenza dialettica – segnata dalla morte della madre – di un «tu trascendentale» che caratterizzerà la poesia successiva. Quest’ultimo evolverà, complice la voce caproniana a Luzi cara, verso una teatralità più estesa della parola: vociferazioni, prosopopee. Si annuncia così la scomparsa definitiva di un io lirico e individuale e l’avvento di un io drammatico e impersonale, che include anche la formula vocativa ed augurale della preghiera. Intanto, è come superato – o meglio interiorizzato ed assimilato – il codice endecasillabico, che Luzi considera, d’altra parte, consustanziale al genio stesso della lingua italiana(6). Con Nel magma(7) si riscontra il definitivo approdo della poesia di Luzi alla dialogicità: «si scinde in tante voci, la voce che mi guida». L’elemento dominante del fuoco pare condurre ad una purificazione, riscontrabile in una scrittura piana, scarna ed essenziale, come se ogni ridondanza esornativa ed esteriore (convenzionalmente stilistica) dovesse essere riassorbita dalla parola, per poi divenirne una sua profonda ragione. La lingua luziana si è oramai immessa nella vociferazione trascendente – in aenigmate – del Grande Codice: Lingua universale e inglobante che chiama la poesia all’arduo – e talvolta inesaudibile – compito della fedele testimonianza. In questo rientrare della parola nella magmatica polimorfia che precede idealmente ogni affiorare e prosciugarsi di un referente, scompare anche la metafora con il suo differimento semantico e intellettuale («muore la metafora»), lasciando spazio all’autorivelazione delle cose attraverso una lingua numinosa. Nel farsi anche testimone dell’agone terreno, Luzi unisce, all’ispirazione mistica di Su fondamenti invisibili e Al fuoco della controversia(8) quella civile («Muore ignominiosamente la Repubblica»). Per entrambe, una sola lingua, mentre sono trascinati dagli eventi uomini e cose. Man mano che procede nella sua ricerca linguistico-sapienziale, Luzi si fa vieppiù ‘celeste’, mentre, parallelamente emergono una volontà essenzialistica della parola ed una sempre più marcata sensibilità grafico-compositiva. Il frammento testimoniale domina in Per il battesimo dei nostri frammenti(9) e in Frasi e incisi di un canto salutare(10) mentre al linguaggio oracolare della profezia si alterna d’ora in poi quello vocativo o celebrativo della preghiera.
A partire dal Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini(11) si affaccia un nuovo stilema che rende conto di una ulteriore fase dell’itinerarium mentis luziano, teso verso l’acume e la rivelazione deiforme: quello che chiameremmo il latino formulare. Si tratta di un verbo essenziale che, trasversalmente ad ogni manifestazione umana e accidentale delle lingue, si eleva – grazie all’intercessione della parola ecclesiastica – verso la Lingua, il logos.
Una sostanziale omogeneità del dettato si riscontra oramai nell’itinerario luziano che va dal Viaggio di Simone Martini a Sotto specie umana(12), fino a Dottrina dell’estremo principiante(13). È sulla produzione recenziore che vorremmo tuttavia arrestarci, nella fattispecie di quest’ultima raccolta: punto d’approdo e non più di passaggio, anche se tale il poeta, di cui leggeremo le postume carte, l’aveva concepita nel suo instancabile ricercare.
Dapprima soffermandoci sul macrofenomeno della composizione e della metascritturalità, vi si riscontra la pratica oramai collaudata di una disposizione grafica a scala o a costellazione. Si può presupporre, in tal caso, una certa influenza del modello mallarmeano (pensiamo al Coup de dés) di cui troppo raramente si evoca l’ispirazione mistica. Tale ipotesi è confermata dal fatto che il giovane Luzi, traducendo il Maestro francese, frantuma il sonetto regolare, e lo dispone, appunto, secondo i suddetti criteri. Così egli rappresenta, sul piano grafico, un continuo slittamento del senso, in direzione ascensionale o discensionale, che ha un preciso riscontro semantico nella gradazione (gradatio o climax). L’idea che sottende a tale disposizione è, presumibilmente, quella della scala mistica; ma la volontà di Luzi non si limita certo alla riproduzione pittografica – referenziale – dell’oggetto simbolico dell’ascesa (alla stregua dei calligrammi medievali e novecenteschi). D’altronde, l’organizzazione del testo non è costante ed alterna, come si diceva, scalarità e disposizione a costellazione; quasi a voler suggerire una infinita permutabilità e reversibilità dei singoli elementi costruttivi. In ogni modo, ad un criterio compositivo lineare e sequenziale si sostituisce un criterio modulare, essendo non più la linearità logica ma la spazialità drammatica a governare il dettato; l’effetto che ne scaturisce è senz’altro quello di una decumulazione ‘visiva’ del discorso, cui corrisponde una reale decumulazione sintattica degli enunciati a mezzo di inversioni, dislocazioni, disgiunzioni. Una certa influenza pare esercitare su Luzi anche la tradizione del monologo interiore tra Otto e Novecento; vi si riscontra, quantomeno, la tendenza all’adozione di forme che indichino simultaneità percettiva più che elaborazione logica: paratassi, cumuli di frammenti, incisi, ellissi, brachilogie, sospensioni, blocchi mnestici, anacoluti. Lo avvicina insomma al cosiddetto «style imagiste» il suo penchant per quella che Pagnini definisce «paratassi eidetica»(14), con influenza del montaggio cinematografico e del collage: le relazioni tra le immagini, laconiche, costituiscono un mosaico di tessere icastiche, strutturate in aggregati contigui, dove l’unità sintattica è sostituita dall’unità ritmica. Alla sensibile predisposizione luziana per il cosiddetto ‘stile sostantivo’ che centra sulla nominalità la forza espressiva (anche in assenza di vero e proprio nome grammaticale) sono da ascrivere senz’altro le accumulazioni caotiche, tipiche del monologo interiore, quasi sempre in paratassi asindetica: «uomini, angeli, il sole, l’aria, i venti» (p. 61). D’altronde, in rapporto a questa tendenza stilistica generale, risulta fortemente connotante la costruzione, rara, in polisindeto, con funzione gnomica: «e perfidamente propinata, e tolta» (p. 21). Restano costanti, nell’ultima produzione, costruzioni avvitate, chiastiche, o a spirale, con soggetto introflesso: «Fiume lento, ma fiume...»; «acqua vogliosa d’acqua, / d’acqua / intimamente bisognosa» (p. 157).
Si riscontra, nella Dottrina, un recupero sensibile della rima in grazia della valenza numinosa ch’essa viene ad acquisire, suggellando richiami interni e rispondenze nella spirale poematica del dettato. Trattandosi spesso di rime interne e rimalmezzo in versi spezzati, parleremo più genericamente di omoteleuti, nel senso in cui equivalenze foniche sono messe in rilievo dalla disposizione simmetrica dei membri della frase. La volontà luziana di perseguire la verità numinosa del linguaggio fa sì che rimino insieme termini della stessa categoria morfologica (rime grammaticali); ad esempio, i participi presenti a lui cari, come manifestazioni terrene, provvisorie, dell’«Ente»: «essente / frangente / sufficiente» (p. 95). A ciò si aggiungerà la particolarità della rima interlinguistica (ma diremmo piuttosto: supra-linguistica) che unisce nel linguaggio formulare dell’io orante il latino sapienziale all’ebraico quale è adottato nella clausola della preghiera cristiana: «tamen...ave! / amen!» (p. 171); «alleluiah!» (p. 139).
All’intento di decumulare la sequenza logico-sintattica sostituendovi elementi contigui e giustapposti, deve ascriversi anche la ricorrenza dell’inciso; procedimento formale caro a Luzi fino ad acquisire una consistenza tematica: è il caso del già citato Frasi e incisi di un canto salutare. Si veda, nella Dottrina: «Ottobre la tua coltre / – memoria e oblio / contesti amabilmente – con che materna cura la distendi» (p. 159). Un ulteriore tratto distintivo dello stile luziano – sempre volto ad invalidare la continuità logico-sintattica del discorso ed a favorire una forma involuta e a spirale – è la molteplicità degli aspetti sotto cui si manifesta la modalità iterativa. Riconosceremo, in generale, la tendenza alla polionimia; ossia, ad una riformulazione variata del concetto (expolitio), che l’italiano permette in grazia della sua libertà sintattica: «Talora lo intravedo / un me altro da me, un me ben altro» (p. 67). Alla riformulazione ascriveremo, più precisamente, il procedimento della correzione (epanortosi) e, nella fattispecie, quello che la linguistica definisce sinonimia di correzione. A differenza della sinonimia di scelta, che è il fenomeno più comune nella comunicazione (il parlante seleziona, nel paradigma lessicale della sua lingua, il termine più appropriato al registro e al contesto tra quelli che gli si offrono, scartando tutti gli altri), la sinonimia di correzione implica la scelta in praesentia del termine. Si tratta, infatti, di una selezione operata non per via paradigmatica (ossia per sostituzione), ma per via sintagmatica (successione): i diversi sinonimi vengono giustapposti in asindeto finché si raggiunge, per gradatio, il più opportuno. Luzi adotta questo procedimento – che rientra nell’ambito della distinctio e che investe sia il mondo eidetico che quello fenomenico – allo scopo di ‘assestare’ volta volta la percezione sensoriale e intellettuale della realtà; esso traduce affettivamente la tensione continua del poeta verso la giustezza del rapporto tra la cosa e il nome. Si riscontrano sinonimie di correzione bimembri e trimembri. Tra le prime: «dell’orto, del pomario» (p. 19); «la potenza del richiamo, / la forza / della sua paternità» (p. 19); «è buona, è mansueta» (p. 29); «per annuncio, per fato» (p. 46); «Mondo che sei, che appari» (p. 97); «più addentro, più adiacente» (p. 126); «la crosta, la cotenna» (p. 133); «infingimenti, inganni» (p. 140); «mi accade, mi succede» (p. 173); «ci cova, ci nutre»; «la incendia, la invade» (p. 131) e anche in frase vocativa (dove allo stato si preferisce il processo): «oh libertà, oh liberazione» (p. 103). Tra le seconde: «Loquaci, pettegoli, ciarlieri» (p. 21); «ti accende il sole, ti invade, ti convince» (p. 44); «le viene, le entra, la irrora» (p. 49); «un polline, un’ambrosia, un miscuglio» (p. 65); «si allunga, lo raggiunge, lo supera» (p. 73); «lo tallona, lo investe, lo raggira» (p. 73); «sulle creste, sui crinali, sulle cime» (p. 77). Il procedimento si compie anche trasversalmente alle lingue, ma, appunto, dentro la Parola, mentre il latino o il greco traducono, rispetto all’italiano, la scelta sapienziale: «io, ego» (p. 33); «Vanità, vanitas» (p. 71); «oh vita, oh bios» (p. 22). Quanto alla correzione vera e propria, che implica una variazione di tipo morfologico anziché lessicale e che è vicina al poliptoto di cui si parla più sotto, menzioneremo alcuni casi: «Nel suo, di lui..» (p. 22); «in sé, pago di sé». Una funzione analoga è attribuibile alle diverse dittologie sinonimiche: «portavano e involavano» (p. 20); «aspro e aguzzo» (p. 50), e alle endiadi quali: «radiosa incandescenza» (p. 48), mentre se ne riscontrano altre di tipo ossimorico, nello spirito della concorde controversia: «leggera e laboriosa» (p. 19); «festosi e irosi» (p. 21).
Alla ripetizione (o adiectio) con funzione intensiva si ascriveranno i molteplici procedimenti di ripresa (reflexio) adottati da Luzi. Tra questi, l’anadiplosi: «E poco / ozio, poco ti consente» (p. 36); l’epanadiplosi: «musica in note di ritorno, musica» (p. 176). Più connotate sul piano dell’intenzionalità poematica luziana, la diafora o l’epanalessi riproducono da vicino il modulo involuto della lingua orale e sapienziale insieme. Attraverso la ripresa di un termine accompagnata da una precisazione deittica o semantica (distinctio) – affine, del resto, alla correzione di cui si è parlato – si proietta il discorso in una realtà immediatamente ostensiva: «di quell’angolo... di quello» (p. 41) o, comunque, drammatica e dialettica: «L’altro non c’è. / L’altro / non è altro / da niente altro, è sé» (p. 43); «Era presente; era ed eveniva» (p. 47). Talvolta si riscontra la diafora con effetto di gradatio vera e propria: «giorno, giorno inebriato» (p. 45). Ancora alla ripetizione, benché di tipo fonolessicale, è ascrivibile il procedimento annominativo, con uso di morfemi ricorrenti e semicamente irradianti, come la sillaba -te («mente celeste del certame», p. 56). O, sul piano morfo-semantico, la presenza del poliptoto cui si è accennato: «giudici tutti e giudicandi» (p. 17); «volevo, vorrò e voglio» (p. 173). Quest’ultima figura investe di frequente la flessione morfologica del pronome: il poeta lo ‘declina’ in diversi casi, ad indicare la dialettica e insieme la reciprocità delle cose: «E tu, luce, sorridi. A te» (p. 78); «andavo io pure / da me a me, oltre di me / [...]utinam ultra me» (pp. 33-34).
Accanto alla modalità iterativa riconosceremo una forte modalità allocutiva della poesia luziana, che si manifesta sotto altrettante forme. Distingueremo queste ultime in vocative (marcate dalla presenza di interiezioni: «oh», «eh»), ottative (formule augurali), esortative (formule di preghiera). A ciò si aggiungerà una modalità assertiva – complementare se non tributaria delle precedenti – con la quale si intende, contestualmente ad esse, sospendere il giudizio per aderire alla disposizione del divino. In tal caso anelito individuale e volontà trascendente vengono a coincidere nel fiat voluntas tua che sempre riecheggia: «così è. E così sia» (p. 49). Uno stilema che conferisce forte allocutività alla poesia luziana è l’apostrofe predicativa: «Oh, voi segni incrociati» (p. 8); «Giorno, ti levi dubitoso» (p. 44); «Oh, vita...» (p. 72); «Cielo, a chi appartiene...» (p. 73); «oh, spes» (p. 123); «oh campo» (p. 132). L’apostrofe si situa frequentemente in clausola, a mo’ di epifrasi sciolta: «oh, porta luminosa» (p. 16); «oh cielo» (p. 22); «oh vita, oh bios» (p. 22); «oh smania, oh venia» (p. 27); «oh attimo» (p. 47); «oh splendore» (p. 48); «oh spes» (p. 123); «oh premio... Oh privilegio» (p. 124); «Oh terrestria, oh caelestia, mirum» (p. 138); «oh sempiterna danza» (p. 157). In tal caso essa pare costituire una formula nominale che funge da cerniera tra l’immanenza e la trascendenza; racchiudendo lo spirito stesso – numen – del dettato precedente e, nel contempo, aprendo al silenzio enigmatico del Verbo. Lo testimoniano, d’altronde, i diversi casi di aposiopesi in clausola, in cui il dettato si arresta al punto ideale verso cui si era proteso, siglando il momento estatico in cui si fondono in epèctasi, parola umana e Parola divina: «usque ad...» (p. 48). Ad intermittenze del dettato come manifestazioni di afasia umana di fronte all’enigma si devono le diverse figure sospensive, che aumentano sensibilmente nell’ultima produzione. In quanto «da Dio fatto scriba» sull’esempio dantesco, Luzi conosce, come già in testi precedenti, improvvisi cedimenti della sensibilità e annebbiamenti dell’intelligibilità della Parola di cui è testimone. La percezione del Codice in diafanía, per frammenti e in aenigmate si traduce in interruzioni e sospensioni estatiche di frasi (aposiopesi); nella soppressione della protasi o della prima parte dell’enunciato (prosiopesi) con conseguenti casi di ipoparatassi (già presente, d’altra parte, nella produzione precedente)(15): «Non il picco, uno spuntone di roccia» (p. 52); oppure in manifestazioni di balbettamento iniziatico e in accumulazioni serrate di interrogative dirette.
La forte preponderanza allocutiva della poesia luziana si riscontra anche in quello che abbiamo già riconosciuto come pronominalismo trascendentale, soprattutto di natura femminile. Tale presenza è esemplare nel testo inaugurale della Dottrina: «Chi assiste muto, chi prende la parola...» dove il pronome logonimo (che parla, appunto, in praesentia, del pronome stesso) è accolto nella sua valenza astrattiva e generalizzante: entità cosmica, principio. In altri casi, il pronome ha valenza pleonastica ed espletiva e risponde ad un intento gnomico. Si trova per lo più posposto al verbo e in apposizione unita o distaccata, con funzione predicativa: «andava / lei formica» (p. 18); «s’alza lei» (p. 39); «Le dice, lei... Lo ossequia, lei» (p. 49); «di sé voleva dirmi, lei» (p. 57); «lo circoscrive, lui» (p. 120). Talvolta, invece, si ha brachilogia ed ellissi verbale: «lui, fiume» (p. 50); «Donna, lei»; «Lei, la fanciulla...»; «sempiterna lei»; «lei, l’estate» (p. 69). Si tratta, in questo caso, di frasi nominali in cui la predicazione resta implicita per omissione della copula, mentre il predicato diviene apposizione. In tal modo, il verbo ‘essere’ perde la sua funzione ausiliaria e grammaticale per recuperare, in altro contesto, la sua centralità ontologica: «Lei, l’estate – / è ora» (p. 69); «è / l’inessere delle cose in sé, / in sé ciascuna» (pp. 104 e 122). La posposizione ‘affettiva’ del soggetto in forma pronominale o meno è, d’altronde, ricorrente nell’opera: «Distese maggio sopra noi la volta» (p. 18); «non hanno ancora foglie i rami» (p. 21), mentre si hanno, talvolta, prolessi e riprese anaforiche di elementi posposti: «Di esistenze / alcune si ravvivano...» (pp. 44-45); «E li richiude / i suoi sipari d’aria» (p. 37). Così, nel decumulare, come si diceva poc’anzi, la frase lineare (testimonianza, quest’ultima, d’una priorità logica del soggetto sul dettato numinoso) Luzi inscrive il dettato stesso nella lingua orale e familiare; la quale viene appunto a tradurre senza mediazioni, e sotto specie umana e creaturale, la Parola divina. Ricorderemo, al proposito, l’umile verbo della madre in Per il battesimo dei nostri frammenti: «Posso, / sì, averlo udito / perdutamente / parlare così il discorso... / E intanto / taceva il suo contrario / in ogni lingua»(16). Risulta altresì connotante, in quest’ottica essenzialistica, la presenza del pronome tonico al posto del pronome atono: «Lima me», anziché «mi lima» (p. 96), dacché l’accento e l’enfasi cadono sul pronome anziché sul verbo. Enfasi accentuata, tra l’altro, dal polisindeto che segue: «e me... e me».
A prescindere dalle numerose avversative costruite con le congiunzioni predilette («eppure», «senonché»), le quali attestano non una logica ‘oppositiva’ postulata dal soggetto, ma una contraddittorietà immanente nell’universo, la dialettica luziana, sempre prossima allo spirito eracliteo della coincidentia oppositorum, presenta un ampio occorrimento di antitesi irrisolte. E, talvolta, anche la sequenza giustapposta, in praesentia, di tesi, antitesi e sintesi. Parleremo più specificamente, mutuando la definizione dalla filosofia del linguaggio, di proposizione controfattuale: ossia il riconoscimento dell’invalidità di una istanza appena affermata: «Non io come persona, piuttosto...» (p. 7); «Da me a me, oltre di me» (p. 33); «Lo sa, eppure...» (sintagma che ricorre alle pp. 40 e 41); «Ti ripeti, sembra, / senonché s’insinua...» (p. 45); «O luogo non abbiamo» (p. 48); «Non pioggia, non foschia nascente, niente» (p. 65); «Vita? Non più, se mai sopravvivenza della vita» (p. 69); «L’uomo è stato o è? / È stato ed è» (p. 78); «nel nulla no, nel più profondo essere» (p. 93); «non si va dovunque / bensì in nessun luogo» (p. 95); «nella sua e non sua eternità» (p. 98). La controfattualità è talvolta formulata anche implicitamente e in forma nominale, mediante il prefissoide contro-; sempre impiegato, tra l’altro, a definire forme o concetti non fisicamente né razionalmente delimitati: «controvoglia»; «nei barbagli della sua controcorrente» (p. 48), «controcielo» (p. 53). Infatti, quella che potremmo definire – a complemento delle modalità già menzionate – la modalità dubitativa della poesia luziana, si manifesta soprattutto in relazione all’ubiquità numinosa dei fenomeni. Si riscontra, al proposito, una disseminazione frequente dell’avverbio interrogativo: «Dove?...» la cui sintesi dialettica è qua e là reperibile nella raccolta; dalla formula latina di p. 34: «ex omni unde» («da ogni dove») a quella di p. 137: «Non aveva dove, era dovunque». In tal caso, ci pare interessante la ripresa variata dell’avverbio mediante il suo corrispettivo: «dovunque», dacché il suffisso di quest’ultimo (lat. umquam) conferisce all’apparente certezza dell’asserto una connotazione dubitativa (si veda anche: «lui chiunque, stordito di chiunquità» di p. 86).
Il fenomeno che già si riscontrava in Avvento notturno, ovvero una mancata referenza ed una disfasia tra l’oggetto e il suo predicato, si ripropone marcatamente in quest’ultimo Luzi. Tuttavia, quello che indicava allora una poetica dello straniamento e dell’antagonismo con implicazioni di carattere storico e accidentale, viene rivisitata come coincidentia oppositorum, essenziale e primitiva, tra le cose pensate e le cose manifeste. A tale proposito, merita soffermarsi su un tratto distintivo della poesia luziana, riscontrabile nella Dottrina come già nelle raccolte più recenti; ossia, la compresenza dialettica e complementare di un universo eidetico: essenziale, astratto e ed immutabile, e di un universo fenomenico: concreto, mutevole, accidentale, biologico e creaturale. Parimenti, ad una poetica che definiremmo dello «stato», si contrappone una poetica del «processo». Ne siano testimonianza l’«era ed eveniva» di p. 47, l’«Ero e stavo» di p. 52, o il titolo della sezione: «L’eveniente» (pp. 61-80). È la dialettica stessa del nunc fluens e del nunc stans che si ripropone nell’interrogativa: «Noi dove stiamo?» di p. 48, cui si assimila il paradosso del remoto: «stemmo» (p. 19). In altri casi si contrappongono il singolativo concreto ed il predicativo astratto: «lui chiunque, stordito di chiunquità» (p. 86); «ciascuna entità nella sua essenza» (p. 96). Il dualismo irriducibile che apparve dunque a Luzi come una peculiarità storica e che fu fortemente enfatizzato in Avvento notturno attraverso l’irrazionalità provocatoria della predicazione, sembra adesso esser rivisitato con intento esattamente opposto: i due termini irriducibili sono ora immessi nella controversia universale, in cui non vi è dualità senza una sintesi degli opposti. Ripresentatisi nella fattispecie della diadi aggettivo-sostantivo, dove più emblematica risulterebbe, come lo fu un tempo, l’incompatibilità tra la sostanza e l’accidente, il nome e la sua predicazione sembrano ora confondersi in una totalità inglobante, come è il caso dell’«universa pergola» di p. 19. La dialettica tra principio e realtà fenomenica, tra essere e divenire, si attua, come si è detto, anche sul piano lessicale, mediante l’alternanza aspettuale tra il processo e lo stato. Riconosceremo, nell’ambito di una poetica dello «stato» (che pur confligge incessantemente col suo opposto) la predilezione per lo «stat» latino, con le sue reminiscenze nominalistiche: Stat rosa... già evocate, nei suoi risvolti solstiziali, in Mezzogiorno. giardino, di Sotto specie umana e nella sezione omonima che la comprende: «Stat»(17). Si veda, in Dottrina: «si stanzia» (p. 123); il peregrino, quanto connotato, passato remoto: «Stemmo» (p. 19), nonché il corrispettivo predicativo: «astanza» (p. 7). Una forte componente eidetica e sostanziale è altresì riconoscibile nella funzione astrattiva del suffisso -ità (lat.-itas) ampiamente sfruttata, e nell’impiego ricorrente di sostantivi predicativi con esso composti: «quiddità» (p. 15); «creaturalità» (p. 16); «solarità» (p. 19); «ramosità» (p. 35); «azzurrità» (p. 39); «orfanità» (p. 70), «nerità» (p. 119). A quest’ultimo si contrappone, sul piano del processo, il sostantivo «nerore» di p. 86, passim e già presente in Sotto specie umana (il suffisso in -ore indicando, sul modello di «albore», «pallore», una sensazione visiva confusa e mutevole; ne sia esempio l’«umidore» di p. 65). Un caso a sé in questa categoria è rappresentato dal «forsizia» di p. 55; sostantivo predicativo col suffisso astrattivo latino –itia, ma con matrice esortativo-ottativa da: fors sit, donde la lessicalizzazione avverbiale: forsit, «forse». Esso viene a rappresentare, come si vede, il paradosso di una permanenza dell’incertezza. Analoga funzione astrattiva ed essenzialistica assume il trattamento predicativo dell’avverbio, che figura non accanto al verbo come la lingua richiederebbe (ad-verbium), ma accanto ad un sostantivo o ad un aggettivo, cui è anteposto con funzione epitetica. Esso sostituisce infatti, per enallage, l’aggettivo corrispondente: «caritatevolmente» (p. 16); «oh, terribilmente bios» (p. 22); «e dai precocemente svegli» (p. 25); «capillarmente la vallata» (p. 28); «primaverilmente» (p. 35); «bellamente» (p. 50); «e prodigiosamente dismisura» (p. 66), quando non fa le veci dell’aggettivo sostantivato: «nell’eternamente» (p. 47). Tale tendenza – che Valéry avrebbe detto «suntuaria» e che si contrappone come gratuito e cerimoniale dispendio a quella comune volta al risparmio articolatorio del parlato (ossia la sostituzione, per enallage, dell’avverbio con il rispettivo aggettivo, del tipo: «corre veloce») – è fortemente connotante e va ad aggiungersi al fenomeno già di per sé marcato dell’anteposizione. Infatti, se si considera che l’avverbio in –mente, favorevole al ritmo trocaico dell’italiano per mantenere l’accento costante sulla penultima sillaba, segue di norma il verbo anche per convenzione fonostilistica (che vuole la posposizione dei termini polisillabici), l’anteposizione crea una sospensione predicativa che resta tale o accentua la capacità semantica del sostantivo o dell’aggettivo seguenti. In ogni modo, l’avverbio predicativo anteposto assume una funzione essenzialistica, anche grazie alla presenza – etimologicamente rivisitata – del suffisso avverbiale astrattivo –mente (da mens, spirito).
Per il secondo aspetto, o del fenomenico e del processo, si veda, innanzitutto, il «drupe e frugi» di p. 13: dittologia etimologica che indica la fruttificazione e la maturazione stessa del frutto (lat. drupa, dal gr. drypepes: frutto che matura (péptein) sull’albero (drys); e lat. frux, frugis, ossia, propriamente, frutto che fruttifica). Ai termini concreti indicanti processo si ascriveranno, altresì, i participi presenti veri e propri, quali: «essente / frangente / sufficiente» (p. 95) o la tendenza, per enallage e per influenza etimologica del latino, all’uso verbale finito di participi presenti e aggettivi verbali: «intelligeva», «vigono», «avoca» (p. 98). Al primato sostantivo del nome, che caratterizza la poetica dello stato, la poetica del processo contrappone infatti la funzione attante del verbo. Alla stessa volontà di adesione al mondo creaturale e al suo destino mutevole si deve inoltre la presenza di un dettato basso, radicato nella toscanità contadina (depositaria di una verità arcaica della parola): «sonava» (p. 33); «pietriscosa» (p. 21); «tugurio» (p. 22); «musichiera» (p. 25); «luminaria» (p. 26); «ruzza» (p. 180). E ancora: «il fracido ottobrino» (p. 13); «gracilino» (p. 27); ipocorismi toscani, questi ultimi, che hanno un corrispettivo umile nel raddoppiamento popolare dell’avverbio: «appena appena» (p. 27); «giù giù» (p. 144). Ancora alla poetica del processo e della concretezza, ascriveremo la significativa presenza della deissi, nella fattispecie del presentativo: «Ecco» e del pronome e dell’aggettivo dimostrativo, spesso iterato: «questo pensa, questo... sente» (p. 125); «...è vogliosa. Di quello». (p. 41). Tra le preposizioni o avverbi deittici cari al genio della lingua italiana, Luzi predilige, tuttavia, «oltre» che traduce, nella sua aderenza etimologica al latino ultra, il ‘superamento’ e la trasfusione del concreto fenomenico nell’astrazione numinosa. Esso costituisce, così, il punto di snodo tra i due momenti, mentre si evidenzia e si vanifica, nel contempo, la dualità aspettuale tra deissi e predicazione: la prima indicante uno stato presentativo, immediato della cosa sub specie naturae; la seconda situando la cosa stessa sub specie aeternitatis. Ulteriore procedimento atto a testimoniare la presenza del Verbo nel mondo creaturale è quella dell’oggetto interno, che traduce l’immanenza della predicazione nella cosa manifesta: «andava / nella sua andatura» (p. 18); «vita dei viventi» (p. 29); «andava o ritornava l’apertissimo cammino» (p. 46); «erbacciuta erba» (p. 55); «mondo della mia venuta al mondo» (p. 113); «preziose preziosamente» (p. 117); «morta la morte» (p. 123); «sa tutto quel sapere» (p. 125); «mutava... il mutamento» (p. 130); «giace la stazione delle cose» (p. 133); «dal sogno che ora sogna» (p. 142); «pioggia piovuta» (p. 157), ivi incluso qualche caso ossimorico: «Servizievole signora» (p. 123); «sonno insonne» (p. 142).
Alla tessitura poematica di questa dualità aspettuale deve, d’altra parte, essere ascritta buona parte della ricerca etimologica e neologica di Luzi, che alterna e confonde tautegorie ontologiche e fenomenologie metamorfiche. Osserviamo, in primo luogo, come la ricerca a ritroso di una ragione sapienziale del linguaggio trovi riscontro nell’elezione frequente, all’interno del paradigma dell’italiano o di quello appartenente al suo co-linguismo poetico (latino e greco classici o ecclesiastici), del termine più etimologicamente motivato: «pomario» (p. 19); «strige» (lat. stryx che dà gli allomorfi «gufo» e «strega», p. 23); «parvolo» (p. 27); «lumine» (p. 39), «etra» (latinismo per «etere», p. 65); «rore» (lat. ros: «rugiada», p. 65); «speco» (lat. specus, «caverna», p. 69); «lachi» (p. 94 e singolare: «laco», p. 137: lat. biblico lacus: «profondità»); «equalità» (pp. 97 e 122); «inessere» (lat. inesse, pp. 99 e 104); «claritudo» (p. 104); «claro lumine» (p. 112); «plenitudine» (p. 113); «penetrale» (p. 119: lat. penetralis: «interno»); «scerpata» (lat. excerpere: «estrarre», p. 115); «contesti» (lat. cum-texere: «tessuti insieme», p. 159), mentre riscontriamo, addirittura, la forma sanscrita: «deva» (p. 39), che rinvia all’archetipo della divinità come luce. A forme latinizzanti o grecizzanti, si associano, come riscontrato, vere e proprie forme intercalari latine, greche o greco-ecclesiastiche («oh bios», p. 22; «pantocrator», p. 91; «logos», p. 99; «soma», p. 103), più raramente ebraiche («alleluiah», p. 139), ispaniche o ispaneggianti («pàjaros», p. 21; «ablava», p. 98, con influenza del lat. fabulare, ma con aferesi dell’ /h/ derivativa spagnola per probabile interferenza del lat: auferre: «portar via, levare» (ablazione) e rinvio a: «lavar via, dilavare»), oltre all’hapax francese in epifrasi: «Merveille» di p. 98. Al latino intercalare risulta precipuamente affidata la funzione di riprodurre le formule ottativo-esortative della preghiera, con reminiscenze dirette e indirette delle stesse orazioni, dall’Ave, al Pater Noster, nelle versioni latina o italiana: «adeat» (p. 8); «veniat» (p. 39); «fiat nova lux» (p. 75); «Oh non sia in nullità» (p. 48); «così è. E così sia» (p. 49); «fiat» (pp. 42 e 172); «Oh sì, lo sia»; «vogliamo che lo sia. Siilo» (p. 80); «abbi indulgenza..., abbila» (p. 113); «venga, venga il tuo regno» (p.170). Al latino è affidata anche la funzione di ricondurre la lingua alla sua matrice biblico-sapienziale: «olim» (p. 46); «usque ad...» (p. 48); «clara pax» (p. 99); «patiens tui» (p. 136); «ubi» (p. 137). La neologia luziana – sempre finalizzata al perseguimento della verità numinosa della parola – ricorre spesso a prefissi o prefissoidi (più raramente a suffissi e suffissoidi) greco-latini che, riassortiti in forme inusuali, abbandonano l’arbitrarietà etimologica delle formazioni culte proprie delle lingue moderne e recuperano la loro valenza analogica e rimotivante all’interno del più ampio colinguismo poetico di cui si è parlato: «lo infrasente» (p. 15); «coestivanti» (p. 169); «inalza» (che ricorre due volte, con prefisso in- causativo senza raddoppiamento consonantico, per analogia probabile con «inalbera» di p. 80, ma senz’altro con la funzione sostanzialistica dell’inesse latino); «abumane» (p. 45); «indetto» (nel senso di: «non detto», p. 108); «navarca» (per: «condottiero di navi», p. 143); «malinverni» (p. 160); «infrasonnio» (p. 180); quando non si ricorre addirittura all’epiteto alla greca: «chiomavirente» (p. 35). In generale, come vediamo, la neologia luziana mira alla sintesi per agglutinazione o giustapposizione; ne risulta un esteso fenomeno di lessicalizzazione, in cui un unico termine con valore nominale viene a sostituire una forma perifrastica o un sintagma(18). Ciò consente di preservare l’idea primitiva interna alla parola, senza che un’arbitraria derivatività vi si frapponga, mentre il ruolo della affissazione – e comunque della giustapposizione – è verosimilmente motivato dalla ricerca di una rispondenza essenziale tra immagine visiva ed acustica; l’anteposizione del determinante permette infatti la caduta dell’accento tonico – e l’enfasi semantica – sul determinato. Un altro tipo di formazione analogica è quella per derivazione interna, deverbale o denominale, con frequenti casi di enallage che suggeriscono una permutabilità numinosa tra le diverse categorie morfologiche. L’intento, in questo ultimo caso, è quello di spostare l’interesse dall’essenzialità e lo stato al processo e alla fenomenicità. Si vedano, ad esempio: «dubitoso» (p. 44); «fluminando» (p. 48) e la sua variante: «fluminare» (p. 50); «magata» (da rad. gotica che indica «potere», da cui: «mago»; cfr. «smagare», che significa: «distrarsi», p. 49). Una funzione neologica, o comunque di revisione analogica, è affidata, inoltre, al prefisso privativo, necessario alla sintesi nominale della parola luziana; presente sin da Avvento notturno e ascrivibile alla componente fenomenica di cui si è detto: «si sbracia» (p. 14), «disoccupa la mente» (p. 15); «dismaga»; «smaglia» (p. 120); «si sbrogliò e si sfece» (p. 122); «disimpara» (p. 124). Esso ben traduce – lucrezianamente – il disfacimento, la corruzione feconda, nella dialettica necessaria con la creazione. Quest’ultima è evocata, a sua volta, dai verbi causativi a prefisso a- o -in («ammonta, accresce, abbuia», p. 75; «inalza», p. 80). Oltre alla neologia analogica, si ha anche una neologia mimologica, per onomatopea. Il più interessante di questi casi è senz’altro lo «squiglia» di p. 27 che, tinto di una vena pascoliana, traduce sul piano fonomimetico il verso dell’uccello appena nato. Il verbo in questione si situa fonosimbolicamente (il simbolismo universale di /i/ essendo la piccolezza e l’acutezza) tra lo squittire del topo e lo squillo, mentre allude, nel contempo, alla denominazione onomatopeica di «quaglia» (coacula) e, mediante prefisso privativo, alla relativa voce verbale coaculare («quagliare», «cagliare», «coagulare»), ossia: «squagliarsi». Il neologismo traduce così, attraverso molteplici allusioni che si sovrappongono, lo sciogliersi vocale del giovane uccello, con probabile reminiscenza delle liquidas avium voces lucreziane. L’immagine, d’altronde, è evocata dalla palatale /gl/ che indica sempre, in virtù del suo mimetismo articolatorio, il sema dello scioglimento: «sparpagliare», «scagliare», «spagliare», etc.
Merita, infine, sottolineare la teatralità del testo luziano, teatro e poesia essendo segnati, nella produzione matura, da una profonda reciprocità. Riscontreremo a tale proposito – accanto alla vocatività e allocutività di cui si è parlato – la presenza dell’incipit didascalico, che afferisce senz’altro alla modalità deittica, ma che si presenta sempre in forma nominale e sintetica: «Notte» (p. 39), mentre si ricorderà il celebre caso di Sotto specie umana: «Mezzogiorno. Giardino»(19). L’opera si presenta tra l’altro, in incipit, come un «mutevolissimo scenario» metalinguistico (p. 7) segnato dalla pronominalità, mentre l’analogia tra lo spazio testuale e lo spazio scenico è tratteggiata anche nel testo successivo: Oh, voi segni incrociati (p. 8). Analogia siglata, tra l’altro, dall’assonanza scena-poema: «almeno non vi lascia / al di fuori della scena / lo zig-zag, l’alto e basso del poema». D’altra parte, la disposizione modulare è testimonianza diretta di una drammaticità metascritturale del testo, mentre si attesta incessantemente un’unità tra forma e senso che accomuna il dettato poetico ad ogni manifestazione immediata della vita. Si attesta incessantemente un’unità tra forma e senso che accomuna il dettato poetico alla vita come teofanía. In una rara e inimitabile consonanza tra lettera e spirito – tra stile e verità testimoniale – lo scriba attende fedelmente al Verbo che sustanzia, forma e incessantemente trasforma.


NOTE
1 M. Luzi, Sotto specie umana, Milano, Garzanti 1999.
2 «In corpo vile» è il titolo di una sezione di Al fuoco della controversia, in M. Luzi, L’opera poetica (coll. «I Meridiani»), Milano, Mondadori 1998, pp. 459-467.
3 M. Luzi, Avvento notturno (1936-1939) in L’opera poetica, ed. cit., pp. 43-80. Il componimento che chiude la raccolta ha per titolo esemplare: Maturità (ivi, p. 80).
4 Id., Un brindisi (1940-1944); Quaderno gotico (1945), in L’opera poetica, ed. cit., pp. 81-130; 131-147.
5 Id., Onore del vero (1952-1956), ivi, pp. 205-252.
6 Id., L’endecasillabo, in Lezioni di poesia, a cura di A. Francini, P.F. Iacuzzi, M. Landi e F. Stella, Firenze, Le Lettere 2000 (pp. 89100), p. 90.
7 Id., Nel magma (1961-1963), in L’opera poetica, ed. cit., pp. 311-352.
8 Id., Su fondamenti invisibili (1960-1970); Al fuoco della controversia (1971-1977), ivi, pp. 353-404; 405-495.
9 Id., Per il battesimo dei nostri frammenti, Milano, Garzanti 1985.
10 Id., Frasi e incisi di un canto salutare, Milano, Garzanti 1990.
11 Id., Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Milano, Garzanti 1994.
12 Id., Sotto specie umana, Milano, Garzanti 1999.
13 Id., Dottrina dell’estremo principiante, Milano, Garzanti 2004.
14 M. Pagnini, Letteratura ed ermeneutica, Firenze, Olschki 2002, p. 53.
15 Si veda Nero, in Onore del vero (L’opera poetica, ed. cit., p. 221): «Ma ecco l’ora della notte, quando....»
16 M. Luzi, Madre, madre mia, in L’opera poetica, ed. cit., p. 555.
17 M. Luzi, Sotto specie umana, Milano, Garzanti 1999, p. 64 per Mezzogiorno, giardino e pp. 57-80 per la sezione «Stat». Si osservi che la sezione seguente torna ad indicare il processo, col titolo di «Promenade humaine».
18 È, questo, un chiaro esempio del procedimento peculiare della poesia riconosciuto da Jakobson, per cui l’asse sintagmatico, o asse delle concatenazioni, si proietta sull’asse paradigmatico, o delle sostituzioni; ne risulta, appunto, una tendenza ‘nominale’ della lingua, che procede verso una lessicalizzazione delle forme sintattiche.
19 M. Luzi, Sotto specie umana, cit., p. 64.

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